editoriale

Cosa possiamo sperare?

Vai avanti tu che a me viene da ridere. Eppure i sondaggi certificano il consenso al governo “di cambiamento” e perfino al fantasma Conte. Con tutto ciò la situazione è al limite di rottura e l’Italia è assediata in Europa. Come orientarsi?

La Lega aizza lo scontro con l’Europa spingendo avanti i 5 stelle ma prontissima a fare marcia indietro sulla manovra salvando i propri punti elettorali contenuti nel famoso “contratto”, cari alla constituency padronale padana, e buttando a mare gli esborsi “improduttivi” per il reddito terrone. Per cui il M5s resterà legato mani e piedi al governo per terrore di andare alla conta elettorale e sarà fatto fuori sull’altare dello spread dopo il pieno sovranista alle europee, probabilmente insufficiente per modificare la maggioranza della Commissione, e il non rimpianto Di Maio rischierà di pagare il conto per il disastro politico. Per quello economico lo salderanno (anzi lo stanno già saldando in termini di interessi su mutui e prestiti) gli italiani, soprattutto i meno abbienti.

Il problema di fondo non sono però le disavventure della manovra, il tentativo goffo anche se in via di principio non sbagliato di sfidare le regole sul deficit, la mescolanza di grottesca incompetenza e pulsioni identitarie e fasciste del “governo del cambiamento”, la rapidissima inflazione di autoritarismo e xenofobia, ma il semplice, drammatico fatto che, per un verso, manovre e interventi sono restati quelli di prima (condoni compresi), per l’altro che l’Italia perde colpi in economia nel quadro ormai di un declino complessivo dell’Europa e del suo traino principale, la Germania. Ricatto dei mercati e degli eurocrati, diseguaglianze al galoppo, orrore razzisti – ok, ma il tutto dentro un veloce avvitamento del Pil e della produttività, di un crescente isolamento politico e finanziario dentro la grande battaglia di una competizione imperialistica di cui siamo preda e complice davvero minore. Il sovranismo è un male, ma non riuscire neppure in quella farsa è ancora peggio.

Resta alto il consenso al governo nei sondaggi, che però si realizzano come i guadagni di borsa: solo andando a vendere o a votare. Con i dati reali va peggio.

Se si va a vedere da vicino la politica effettiva di questo governo, al netto delle vessazioni feroci (demolizione del sistema SPRAR, restrizioni sull’asilo, balzello sul Money transfer, tentativi di esclusione dal sistema sanitario) e delle sceneggiate maligne e miserabili (divieti di stazionamento, accattonaggio e rovistaggio, apartheid locale alle mense scolastiche e nelle graduatorie per le case, e ruspate varie) ai danni di migranti e marginali italiani, sta in perfetta continuità con i governi precedenti, quelli servi della UE e del neoliberismo globale (e che effettivamente tali erano).

Ma niente è cambiato, tolti i proclami sull’abolizione della povertà, i “tireremo diritto”, i “me ne frego”, la nazionalizzazione di Autostrade – che fine ha fatto? A parte un accaparramento delle cariche da far impallidire ogni precedente spoil system, è stato allargato l’indebitamento per finanziare le promesse elettorali, con riserva di rimangiarsele appena si sgonfieranno le previsioni fasulle sulla crescita del Pil, ma si rilancia il discorso sulle privatizzazioni, si mantengono le clausole di salvaguardia sull’Iva, spostandole come sempre sul prossimo anno e sul prossimo governo. Una scommessa sul sicuro successo elettorale della Lega e sul molto insicuro successo europeo dei sovranisti. Un regalo a Steve Bannon e un calcio in culo a Di Maio.

Perché Giggino sia contento o faccia finta di esserlo resta un mistero. Chiaro che Salvini è più che pronto a intestarsi un “ritorno alla ragionevolezza” gradito ai poteri forti, al ceto medio produttivo centro-settentrionale e perfino alla grande stampa – forte anche del fatto che la Lega ha un personale intermedio discreto, stellare rispetto all’incompetenza comica degli staff politici e amministrativi a cinque stelle.

Intendiamoci, alcune delle promesse del M5s avevano un senso: forzare le regole europee, aprire il fronte del reddito di cittadinanza, bloccare alcune opere inutili, puntare sulla salvaguardia del territorio. Il risultato elettorale conseguito non viene dal popolino boccone, come credono gli elitisti pitocchi del Pd e della stampa mainstream, ma dalla crisi palese del neoliberismo. Ma un immaginario suggestivo si è ridotto a mera propaganda e, quando si è andato a concretizzare il reddito di cittadinanza si è rivelato un coacervo mal congegnato di misure di attivazione del lavoro, mentre la contestazione dell’Europa è slittata in subalternità a potenze straniere (Trump e Putin), sovranisti assortiti e fascisti dichiarati, senza nessun tentativo di coordinamento con forze progressiste critiche (dai laburisti di Corbyn a Podemos e a France insoumise).

Il sostegno, elettoralmente fruttuoso, alle campagne anti Tav, anti-Tap, anti-Muos, terzo valico, no-Gronda, ecc., così come gli slanci nazionalizzatori dopo il crollo del ponte di Genova, sono stati velocemente revocati constatando presunti “stati di necessità”. L’ambientalismo è scomparso promuovendo vergognosi condoni e disponendosi ad accettare gli inceneritori.

Peraltro l’opposizione, che alza la bandiera del Tav e auspica di “allargarsi” alle madamine torinesi e alla borghesia riflessiva dei municipi 1 e 2 di Roma, esulta per le privatizzazioni, si oppone alle buone intenzioni (parziali) del Decreto Dignità, sghignazza su un reddito di cittadinanza che anela a essere workfarista ma che si accusa di “assistenzialismo”, cioè a dare una manciatina di euri a chi non ce li ha (oziosi! poveri immeritevoli! terroni sdraiati sul divano!). Una bella partita tra chi finge di essere rivoluzionario sulla pelle dei giovani e dei migranti e chi si oppone strenuamente a ogni cambiamento, difendendo banche, finanza e vandea padronale e perbenista.

Il Pd che mise il pareggio di bilancio in Costituzione ora ne difende le nefaste conseguenze. Oppone Minniti a Salvini e, fuori tempo massimo, sogna alleanze con un Macron alla deriva. Anzi, esorcizza di corsa perfino i gilets jaunes, come se fossero forconi anarchici.

Vero, qualcosa guizza perfino nello stagno nazareno e laboriosi intrighi mirano a sostituire una leadership centrista di Zingaretti, pesantemente condizionato da Franceschini e Gentiloni in vena di comico produttivismo neo-borghese, a quella securitaria dell’ex-sterminatore delle Ong, mentre addirittura c’è la possibilità che Renzi corra un’avventura solitaria con la sua notoria vocazione al suicidio. Ma sono cose che, al momento, non fanno nemmeno “resilienza” (non diciamo resistenza) all’ondata reazionaria.

Fuori di questo quadro, però, frammenti di resistenza cominciano ad affiorare e i segni incoraggianti, per quanto piccoli, non mancano. Sono rivoli e non un’onda, ma qualcosa comunque scorre. Non siamo certo in grado di aumentare la portata dei ruscelli, ma anche se lo fossimo sarebbe un errore sovrapporre schemi che comunque vengono da un’altra fase e da una sconfitta a pulsioni e movimenti che si sono creati quasi spontaneamente. Specialmente perché si sono formati sul terreno inesplorato della post-democrazia e addirittura della post-lotta di classe, cioè dello scontro di classi diverse da quelle cui ci riferivamo in una stagione precedente.

Dobbiamo imparare verso quali rivendicazioni unificanti (se unificanti) convergono tali tendenze, decifrare, sotto la permanenza vischiosa dei linguaggi, le nuove forme di vita, resistenza e desiderio. Non basta rinunciare a ingabbiare il tutto in partitini perennemente aggiustati e rifondati ma dovremmo coglierne la direzione in controtendenza al ciclo reazionario, sapere che le cose e i sentimenti cambiano oggi con una velocità impensabile ieri.

Con il realismo del “veder discosto”, come insegnava un maestro della strategia politica, dobbiamo apprendere a non fare neppure gli schizzinosi sulle richieste diffuse, perfino quando si formano in base a equivoci – e ci riferiamo alle ambiguità della base e di una parte minoritaria del ceto operativo dei 5 stelle, non certo alla compatta testuggine leghista e ai fasci ad essa collegati.

Il caso più esemplare è il reddito di cittadinanza, che ha solo il nome di una pratica universale e punta invece ad attivare la forza lavoro giovanile in un meccanismo di lavoro coatto e in parte perfino gratuito. A parte che i soldi per l’operazione non ci sono e sia la platea dei beneficiari che i tempi e gli strumenti di attuazione (i centri per l’impiego) sono peggio che nebulosi, il fatto decisivo è che si promette una (magra) erogazione di denaro in cambio dell’accettazione di un’offerta di lavoro per tre volte. Solo che questi posti non ci sono e tanto meno ci saranno con i ritmi prevedibili di crescita del Pil – diciamo di stagnazione e non solo italiana. Una tragedia alla Ken Loach è improbabile, più facile un mix di esperimenti fallimentari, rigetto di domande, falsi impegni di ricerca del lavoro e riqualificazione, ecc. Il fallimento pratico di un workfare senza job, al di là della denuncia anticipata della soluzione.

È un percorso che consente di riaprire un discorso su come condurre la lotta alla povertà e come sganciare reddito e lavoro salariale nell’epoca del general intellect e dell’automazione. L’inflazione della domanda, opposta alla povertà quantitativa e qualitativa dell’offerta, è un veicolo di mobilitazione e di semina di nuove idee. Intasiamo i centri per l’impiego!