OPINIONI

Chi parte e chi resta: le migrazioni e “noi”

So bene quanto siano terribili le parole di Piantedosi sulla ancor più terribile ultima tragedia nel Mediterraneo. Eppure sono stanca di parlare di loro, mi chiedo invece cosa quelle parole dicano di “noi”.

Quanto ci ha convinti in questi anni una generale lettura binaria delle migrazioni a tutti i livelli, una contrapposizione netta tra chi parte e chi resta?

Quanto ci ha convinti una narrazione eroica di chi “decide” di restare – come se poi di una semplice decisione e non di un processo si trattasse – quanto ci siamo fatti sedurre dalla vaga idea che partire equivalesse a fuggire?

Quanto, ancora oggi e in questa occasione, la sinistra è ossessionata dalla convinzione che la legittimità di un processo migratorio si stabilisca in base alla gravità delle condizioni di partenza?

So benissimo che è in certi modi più facile e più comunicativo evocare la differenza tra migranti e rifugiati (leggo in questi giorni, su questi ultimi morti che abbiamo sulla coscienza che “avrebbero usufruito del diritto d’asilo in Europa” come se facesse una qualche differenza che in effetti evidentemente fa), ricostruire gli scenari pietosi di paesi devastati dalla guerra che “non lasciano altra scelta se non partire”.

Eppure, la scelta se vogliamo c’è sempre, su questo ha ragione Piantedosi. E su questo paradosso siamo finiti subalterni alla peggiore retorica dei nazionalisti, ad inseguirli sul campo della legittimità della partenza, a misurare la sofferenza o la povertà – o la persecuzione politica, la violenza familiare, le aspettative di genere e gli infiniti motivi per cui, all’interno di qualsiasi flusso storico, un giorno si decide di partire e il giorno prima no – per dimostrare che questi che purtroppo sono morti alla fine se lo meritavano, invece, di arrivare.

Mi vengono in mente due cose, magari banali: la prima è che, come direbbe il buon vecchio triste Sayad, la migrazione riguarda tutt*, chi parte e chi resta, chi saluta e chi si trova all’arrivo, che siamo tutt parte di questo fatto totale, anche chi vuole fermare le partenze, anche chi fa le distinzioni, anche chi ha pensato anche solo per un momento che “restare” sia indice di una qualche superiorità morale invece che risultato di una serie di congiunture che si producono al crocevia di privilegi e oppressioni.

La seconda, me la ripete da sempre uno dei miei preziosi maestri, Gennaro Avallone: che la migrazioni vanno sempre viste e lette, innanzitutto, come grandi atti di coraggio.

Immagine di copertina da Fotomovimiento, Giornata del rifugiato, di Joanna Chichelnitzky