POTERI

Barca, un avversario da prendere sul serio

Intenzioni pregevoli, ma il dentifricio non rientra più nel tubetto spremuto…

Intenzioni pregevoli, ma il dentifricio non rientra più nel tubetto spremuto..

Partiti e rappresentanza non sono così semplici da restaurare. E comunque non è il nostro obbiettivo!

Ai movimenti farà bene avere un avversario serio e onesto. Perché il documento di Fabrizio Barca è un testo serio con cui confrontarsi e perché si tratta di un avversario. Il suo progetto di partito –nelle due varianti non equivalenti di una pacifica fusione Pd-Sel o di una drammatica spaccatura del Pd e reincollo di un suo pezzo con Sel e Fiom– si pone in alternativa tanto al vecchio partito di massa togliattiano e berlingueriano quanto a quello liquido idealizzato da Veltroni e trasformatosi in morta gora nei giorni presenti, ma soprattutto in alternativa alla forma-movimento che è cresciuta, con troppi limiti, negli interstizi della crisi dei partito e dello Stato dei partiti in Italia. Va da sé che Barca sorride del rito democraticistico delle primarie (lui si è iscritto al Pd pochi giorni fa, fra gli osanna generali, e basta già questo a sputtanare le primarie) e mostra un comprensibile orrore per le mitologie della Rete.

Facendo la tara dei tic lessicali del documento, su cui si sono già esercitate le ironie sfiatate delle penne Rcs (Pigi Battista) e su cui si scateneranno i capi-mandamento del Pd, e limitandoci a deplorare che citi il catoblepismo di Raffaele Mattioli piuttosto che il catoblepa di Borges, prendiamo atto che la Memoria barchiana sorvola sui contenuti programmatici e si concentra sulla solo forma-partito che ne è strumento. Andiamo allora a vederne il senso. Non senza averne apprezzato la distanza stilistica dal birignao proverbiale di Bersani e dalle bischerate di Fonzie-Renzi: si vede che è scuola Bankitalia e non professoraggine bocconiana. Esperienza europea, attenta a Delors più che a Chicago. Non è la nostra lingua, ma è una lingua. Crozza avrà il suo da fare a imitarlo.

L’inizio è conciso: « senza una “nuova forma partito” non si governa l’Italia», non si arriva a un «buon governo dell’Italia, essendo la crisi non solo economica ma anche crisi dei partiti, che pertanto vanno ridisegnati, a cominciare dal partito della sinistra. Che va chiamata per quello che dovrebbe essere: sinistra e non centro-sinistra con l’accento sul centro. I partiti (ma il discorso è diretto tutto al Pd) devono separarsi dallo Stato con cui si sono in Italia perversamente affratellati (la fratellanza siamese dei due organismi, ovvero il famoso “catoblepismo”, dall’animale mitologico dalla testa spropositata e piegata verso il basso), per di più accoppiandosi uno Stato arcaico e partiti in tutto dipendenti dal finanziamento pubblico. Occorre cambiare il metodo: Barca propone, nello spirito di una democrazia partecipata e deliberativa, uno sperimentalismo democratico che oltrepassi la pedagogia tecnocratica e socialdemocratica, presupponente il monopolio della conoscenza e della decisione riservato a pochi esperti, quanto le illusioni sullo spontaneismo della folla comunicante in Rete. Occorre invece promuovere «il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine di individui, favorisca l’innovazione e consenta decisioni sottoposte a una continua verifica degli esiti, sfruttando le potenzialità nuove della Rete e dando continuamente forma alle preferenze e alle scelte nazionali», recependo la varietà delle preferenze e la mutevolezza delle tecnologie.

Per ottenere ciò mediante un’adeguata procedura deliberativa che vinca le prevedibili resistenze, abbiamo bisogno di «un aperto e governato conflitto sociale» e insieme di «coesione attorno ad alcuni convincimenti generali che parlino ai nostri sentimenti». Il conflitto, secondo il modello della democrazia partecipativa e agonistica, è legittimato a patto che sia ricondotto a una mediazione sistemica. Quel riferimento ai “sentimenti” è molto stringente, come appare in seguito: si tratta dei Moral Sentiments che Adam Smith affianca quale correttivo alla mano invisibile del mercato, la socialità che compensa la durezza necessaria ad accrescere la Wealth of Nations. Riformismo d’alta scuola, dunque, non orientamento anti-capitalistico, riequilibrio statale fra pubblico e privato dentro un progetto forte di società reindustrializzata, di intesa lavoristica fra produttori.

Serve inoltre un partito-palestra, saldamente radicato nel territorio, animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha altrove il proprio lavoro e che trae da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti parte rilevante del proprio finanziamento. Un partito che sia «non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali e di governo dello Stato, ma anche “sfidante dello Stato stesso” attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica» –cioè (traduciamo) non solo distributore di cariche nell’amministrazione e negli enti pubblici nonché percettore di tangenti, ma portatore di un progetto di riorganizzazione e controllo. Il tutto, non nella logica di avanguardie, come il vecchio partito di massa che si voleva scuola di vita e di appartenenza, ma di una partecipazione diffusa o mobilitazione cognitiva che sostituisca l’occupazione dello Stato o la subalternità culturale all’economia del partito liquido. La mobilitazione cognitiva consiste nel confrontare conoscenze parziali interattive dentro una griglia anche simbolica di valori comuni, superiore alla consultazione dei corpi intermedi rappresentativi di interessi particolari o del civismo disperso in Rete. Presuppone la separazione tra funzionari di partito ed eletti, con prevalenza dei primi sui secondi –che oggi invece dominano, grazie alla dipendenza dei partiti dal finanziamento pubblico. Un tema classico della polemica socialdemocratica di primo Novecento contro il riformismo d’epoca!

Il partito deve «muovere i sentimenti», conciliando egoismo e spirito pubblico, essere incorruttibile (aggiungiamo) per garantire l’economia sociale di mercato e dunque conciliare principio di competenza e principio di maggioranza in un quadro capitalistico controllato, con presumibile predominanza dell’economia reale su quella finanziaria e correzione delle politiche economiche europee. Una via di mezzo –sembrerebbe quasi una terza via blairiana prima della sbandata pro-Bush– fra «le criticità dello “Stato socialdemocratico” e le aberrazioni dello “Stato minimo”», cioè fra crisi dello Stato sociale paternalista e compressivo degli animal spirits individualistici e choc neoliberista che ha disgregato la qualità dei beni pubblici e la democrazia. Il tono blairiano è avvalorato dalla metodologia proposta di cambiare il partito per cambiare lo Stato e da certe affinità di dettaglio fra i brainstorming della mobilitazione cognitiva e i focus groups di Philip Gould, il defunto ideologo di Tony Blair. Il partito gestisce e incanala operativamente i prodotti di quella consultazione rilevando, senza collateralismi corporativi, i bisogni e i suggerimenti e così svecchia la scricchiolante macchina autoreferenziale dello Stato e delle sue élites estrattive (traduciamo: ladroni e saccheggiatori di risorse), mischiate con i quadri di partiti Stato-centrici sotto la copertura pseudo-carismatica di leader ultra-personalizzati. Lo Stato-centrismo non è solo italiano, costituendo piuttosto l’esigo generalizzato della crisi dei partiti di massa tradizionali, svuotati dai cambiamenti sociali e dal declino delle sovranità nazionali, ma da noi raggiunge forme estreme per la scomparsa di ogni dipendenza delle leadership (anche non proprietarie, come Berlusconi o la ditta Grillo-Casaleggio) dagli iscritti e, con il Porcellum, dalla constituency degli elettori (da ogni rapporto con i collegi). Il bipolarismo è diventato in Italia farsesco e le primarie, con sinistro epitaffio, «tendono a dare legittimità al cesarismo, appagando a poco prezzo la domanda di democrazia dei cittadini, e accentuano il tratto personalistico dei partiti».

Dopo aver passato in rassegna tutti i guasti prodotti da tale sistema (di “disintermediazione”, con parola un po’ tecnica) nella pubblica fiducia (per lo Stato e nei partiti) e nell’insensato conflitto generazionale che se ne è ingenerato nella distribuzione del reddito e del potere, Barca trascorre alla parte propositiva, con la pretesa di eccedere i limiti di entrambe le visioni: socialdemocratica e minimalista la prima, sovranista e managerial-finanziaria globale la seconda. Questo sarebbe diventato possibile per la diffusione capillare dei saperi e delle competenze, che consentirebbe appunto lo sviluppo dello sperimentalismo democratico raccolto e valorizzato da un partito di tipo nuovo. Conflitto regolato come metodo conoscitivo ed elaborativo, austerità berlingueriana intesa come sviluppo qualificato nella crisi ed espansione della democrazia, efficienza nel risparmio e trasparenza nei sacrifici e riallocazione degli investimenti, pareggio del bilancio in tempi sostenibili –apertura un po’ velata alle richieste di audit sul debito. Il passaggio preventivo è allora il cambiamento del tipo di partito, selezionatore di progetti ed educatore di masse articolate e coltivate ma non immediatamente espressive di soluzioni (i corpi intermedi e il popolo della rete). Le idee innovative richiedono sempre di essere concentrate e riportate in ambito pubblico dall’esterno, in forma generalizzata e simbolica, quindi partitica –il richiamo al Che fare? leniniano è intenzionale quanto metaforico.

Il partito nuovo «poggia su alcuni convincimenti generali che ne contraddistinguono la natura “di sinistra” e su una visione dello stato delle cose e dell’“Italia ed Europa che vorremmo”, che incessantemente aggiorna. Su queste basi il partito persegue, accanto all’obiettivo tradizionale, ancorché innovato, di selezionare classe dirigente per la partecipazione alle assemblee elettive e per l’attività esecutiva ai diversi livelli di governo, l’obiettivo nuovo di mobilitazione cognitiva. Strumenti di quest’obiettivo sono: la costruzione di un confronto pubblico informato, acceso e ragionevole fra iscritti e simpatizzanti; l’apertura ad “altri” di questo confronto; la perentoria separazione dallo Stato». Per quanto riguarda gli obbiettivi, viene ridimensionata la prospettiva del partito di massa tradizionale «a un modello “superiore” di società (e forse anche di comportamento umano)», sostituita, sempre alla Blair o alla scandinava, con «l’aspirazione a una società migliore di quella attuale che, sulla base dei convincimenti “di sinistra” che contraddistinguono il partito, il partito stesso elabora continuamente come propria stella polare», superando «lo scarto fra democrazia e tecnocrazia», principio di maggioranza e principio di competenza e di governo di chi sa.

Vediamo. Che interesse può avere un lungo saggio di profilo politico-accademico, accolto per ora in silenzio dal destinatario (il Pd) e di certo sgradito ai dirigenti, ben più strutturalmente rottamati che dalle invettive generazionali renziane? Beh, innanzi tutto si tratta della piattaforma su cui stanno confluendo la cosiddetta sinistra del Pd, che ormai dà Bersani per desaparecido e annusa Prodi, insieme con Vendola e Sel, con palesi simpatie della Fiom e di tutti i naufraghi di Rivoluzione Civile. Un alibi per il velleitarismo di sinistra, qualora il Pd resti unito; una situazione interessante nel caso, invero più probabile, che nel breve o medio periodo quel coacervo salti e si torni a una specie di Pds prima maniera, più spostato a sinistra.

Ancora meglio, se cogliamo l’intenzione più recondita del documento: una sfida alla forma-movimento piuttosto che ai fantasmi del partito di massa e del partito liquido, una difesa estrema della rappresentanza contro la crisi conclamata della rappresentanza.

Manteniamo lo scetticismo sulla reversibilità della crisi di rappresentanza dello Stato e dei partiti (di tutto il Parteienstaat, nel lessico giuridico-costituzionale) –insomma, il dentifricio, una volta spremuto, non rientra nel tubetto–, ma leggiamo in quelle argomentazioni di Barca un problema di continuità e organicità che la forma-movimento non è riuscita a risolvere e che dovrebbe far propria in opposizione frontale al “partito nuovo” e a un riformismo, pur destinato a incagliarsi ben presto nella palude italiana e nella gabbia d’acciaio europea. Quel partito non serve perché imbrigliato nella crisi che vorrebbe risolvere ma di cui è concausa, ma cosa servirebbe ai movimenti per dire la loro, per uscire dall’afonia cui sono inchiodati in Italia, per dire meglio le cose che riescono a comunicare in Spagna e in Grecia?