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Uno sguardo sul Burkina Faso

Fino al 20 ottobre a Roma, la mostra Burkinabè presso Officine Fotografiche a cura di: Osservatorio AiDS – Aids Diritti Salute e Aidos – Associazione italiana donne per lo sviluppo Onlus, a cura di Giulia Tornari e di Barbara Romagnoli con esposizione fotografica di Francesco Cocco.

Ritratti in bianco e nero, volti di donne, uomini, di tante età differenti. Scatti che evidenziano “l’aspetto evocativo, che subito rimanda, per sottrazione dei particolari, al potenziale universale delle storie riportate” come fa notare Saba Anglana, artista e testimonial dell’Osservatorio Aids, che organizza con Aidos, la mostra.

‘Fotografia’ significa anche scrivere con la luce, conferendo una specie di immortalità, una preminenza alle immagini che raccontano una storia, rivelano un luogo, un evento, uno stato d’animo, in maniera spesso più potente di pagine e pagine scritte.

Si chiamano Adjara, Sarina, Linda, Celine, Juliette, Therese, Marietta, Alfonsine, Blessed, Charlene, Zanaba, Mariam, Ibauldo Celine, Kabare hanno fra i 16 e 19 anni, vivono nella provincia di Kadiogo, fuori Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, in un centro di accoglienza per donne e ragazze che hanno subito violenza o fuggono da matrimoni combinati.

Costrette a sposare giovanissime e contro la loro volontà uomini più grandi di loro, spesso vittime di violenza domestica, molte decidono di abortire, altre no, in ogni caso ad ogni gesto di ribellione, consegue spesso l’abbandono del nucleo parentale e non di rado, l’ostracismo della comunità. Ricordiamo che il Burkina Faso oggi è uno dei paesi, con più elevati tassi di matrimoni forzati e precoci del mondo, mentre ogni anno, oltre 2000 donne muoiono per complicazioni legate alla gravidanza e al parto. La maggior parte di queste morti potrebbe essere evitata. Alcune donne muoiono perché impossibilitate a raggiungere le strutture mediche in grado di aiutarle, oppure perché non possono pagare le parcelle al personale medico.

Adjara, giovane donna di 16 anni, vittima degli abusi e della sua stessa famiglia. “I piedi scalzi insistono sull’ombra che proiettano dei rami intrecciati, sembra calpesti l’albero genealogico da cui si distacca come una propaggine che buca la superficie della fotografia” – scrive Anglana.

Ci sono le immagini di bambini abusati dal turismo sessuale occidentale, bambini che scavano in miniere d’oro abusive. Ogni giorno in migliaia si incamminano dagli altopiani centrali verso la città distesa nella terra arsa, al confine con il Ghana, in mezzo alle tempeste di sabbia. Cercano fortuna nelle miniere dove le condizioni di lavoro sono misere, senza attrezzature (caschi, guanti, dispositivi di protezione ecc.) I bambini con le loro piccole stature strisciano nella polvere, nei cunicoli, frantumano le pietre in ciottoli, separano l’oro utilizzando il mercurio tossico. In tanti fanno uso di anfetamine anche per ridurre la fame, l’ansia e non solo… senza contare i medicinali antiretrovirali che innervano la quotidianità.

Tra le capanne però si gioca anche a biliardino, accanto a un chiosco informativo per la prevenzione dell’HIV, piaga mortale nel continente africano.

Ricordiamo che appena ieri, domenica 15 ottobre, ricorreva l’anniversario della morte di Thomas Sankara (Yako, Alto Volta, 21 dicembre 1949 – Ouagadougou, Burkina Faso, 15 ottobre 1987) “il Che Guevara africano”, primo presidente di quel continente a riconoscere l’AIDS come grave piaga sociale, lanciando un’efficace campagna di vaccinazione e prevenzione. Finanziò anche un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case, mentre si batteva per la difesa dei diritti e dell’autonomia delle donne.

Fra i paesi più poveri al mondo, con il 63,8% della popolazione che vive in condizioni di miseria e il 44,5% al di sotto della soglia di povertà assoluta, in Burkina vivono circa 110mila persone con Hiv/Aids. Il numero di coloro che ricevono la terapia antiretrovirale è aumentato negli ultimi dieci anni: da 3.000 censiti nel 2004 a 46.623 nel 2015. Ma sono ancora molti i pazienti che non vi accedono soprattutto nelle zone rurali del paese.

Negli scatti si fondono e si confondono alcuni dettagli, una borsa “firmata”, delle cuffie wireless, il “moderno”, la “tecnologia” che buca il contesto visivo, quasi a voler “normalizzare” l’ambiente.

Altre immagini ci riportano al frame senza tempo della “caccia alle streghe” a  Ouagadougou, perché in Burkina Faso, come in altri Paesi del mondo, molte donne vengono accusate di essere streghe: sono perseguitate, bruciate vive, o vengono “uccise socialmente”. Donne sole, vedove, che non possono avere figli o semplicemente abbandonate dal marito.

Possiamo riprendere alcune traiettorie di pensiero della studiosa Silvia Federici che ha indagato la riproduzione come una categoria indispensabile alla comprensione dello sviluppo capitalistico su scala locale e globale, evidenziando anche la connessione tra la guerra e la distruzione dell’agricoltura di sussistenza e, soprattutto, le motivazioni che stanno dietro alla guerra che l’economia globale neoliberista muove contro le donne.

Un punto nevralgico è appunto il “centro strategico” dell’accumulazione primitiva, quale il mondo ex-coloniale che ha storicamente rappresentato il “ventre molle” del sistema capitalistico, luogo di schiavitù e piantagioni.

“Centro strategico” perché la sua ristrutturazione è stata il fondamento e il presupposto per la riorganizzazione globale della produzione e del mercato del lavoro mondiale. È qui, infatti, che abbiamo assistito al primo e più radicale e vivido processo di espropriazione e di impoverimento e ad un suo “revival” a partire dai primi anni Ottanta del Novecento, come conseguenza dei piani di aggiustamento strutturale. Federici non confina, infatti, la dinamica accumulazione-impoverimento agli albori di un capitalismo, ma ne mostra la permanenza costante nel processo dello sviluppo capitalistico.

Come evidenziato in Il punto zero della Rivoluzione, in Africa, sin dagli anni ’70 del Novecento – le donne spesso rifiutavano di aiutare i mariti a produrre raccolti per il mercato, difendendo invece l’agricoltura orientata alla sussistenza. In questo modo i villaggi, invece di riprodurre manodopera a basso costo — come nell’immagine proposta da Claude Meillassoux [1] — si trasformavano in luoghi di resistenza allo sfruttamento.

Negli anni Ottanta, la Banca mondiale ha riconosciuto che la resistenza delle donne nei villaggi era il principale fattore di crisi per i suoi progetti di sviluppo agricolo.

Non sorprende, dunque, che la ristrutturazione dell’economia abbia comportato una profonda riorganizzazione della riproduzione e istigato una campagna contro le donne in nome del “controllo della popolazione” e siano riapparsi in maniera più vigorosa, fenomeni come la caccia alle streghe. [2]

Attacchi contro donne anziane che, accusate di stregoneria, sono state espulse dalle loro case o assassinate, mentre le più “fortunate” riescono a ritrovarsi in stanze loro assegnate in alcuni centri.

Questo fenomeno riflette probabilmente una crisi più profonda, che riguarda il sostegno che, di fronte a una rapida diminuzione dei beni di sostentamento, la famiglia garantisce a quei membri che non sono più percepiti come produttivi. È significativo che questa persecuzione sia anche associata allo smantellamento del sistema di proprietà comunitaria della terra che è in atto. “Ma è anche una manifestazione della svalorizzazione che il lavoro riproduttivo e i soggetti di questo lavoro hanno subito con l’estensione dei rapporti monetari”. [3]

“Ciò che rende la fotografia una strana invenzione è che le sue materie prime principali sono la luce e il tempo”, ma le immagini qui ci consegnano anche elementi senza-tempo come la solidarietà e alcune pratiche di mutualismo. Donne che si organizzano in visite a domicilio per aiutare le altre affette da HIV, e uomini colpiti dalla malattia che lavorano come volontari per portare i farmaci antiretrovirali agli abitanti della zona.

Il reportage fotografico di Francesco Cocco riesce a restituire con estrema delicatezza, la battaglia quotidiana di donne e uomini per sopravvivere e vivere con dignità nella loro terra colonizzata.

[1] Claude Meillassoux, Donne, granai e capitale. Uno studio antropologico dell’imperialismo contemporaneo, Zanichelli, Bologna 1978. Meillassoux ha scritto che l’agricoltura di sussistenza delle donne è stato un bonus per i governi, le imprese e le agenzie per lo sviluppo, poiché ha permesso loro di sfruttare in modo più efficace il lavoro africano, attraverso il costante trasferimento di ricchezza e lavoro dalle aree rurali a quelle urbane (pp. 132-134).

[2] Silvia Federici, Witch-Hunting Globalization, and Feminist Solidarity in Africa Today, in “Journal of International Women’s Studies”, special issue, Women’s Gender Activism in Africa, 10, 1, ottobre 2008, pp. 21-35.

[3] Ibidem