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I terremotati di Amatrice e le case degli “altri”

Terza tappa della rubrica Venezia Salva. Parliamo di due cortometraggi molto diversi Casa d’altri e Il legionario , ma entrambi toccano da punti di vista differenti la questione abitativa in Italia.

Abbiamo visto Casa d’altri, girato ad Amatrice, cortometraggio (durata 15 minuti) del regista Gianni Amelio che è stato presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione “Eventi speciali” a poco più di un anno dal terremoto che ha devastato il centro Italia.

“Dalla tragedia deve nascere qualcosa che ci fa andare avanti. Il mio è un corto di servizio, da usare come pungolo”. Importante sicuramente, che ad un evento mainstream come il Festival, si dedichi uno spazio alla situazione devastante in cui vive ancora la città di Amatrice, protagonista del corto, ma, come ha sottolineato anche il regista stesso nella presentazione “la memoria non basta”.

La scena del corto si apre con una coppia di “turisti” in gita ad Amatrice che fanno un pò di selfies davanti alle macerie, scegliendo con cura l’angolazione giusta per rendere maggiormente il dramma nella foto probabile acchiappalike. Una frase ad effetto, una emoticon triste ed il post “ad elevata prestazione” sarà pronto per girare nell’universo social. Un adolescente, probabile figlio dei turisti di prima, parla distrattamente al cellulare con qualche suo coetaneo, annoiato dal vuoto intorno e dalle macerie tutte uguali. La tragedia sembra asettica, in fondo “sono morte solo 400 persone” e quelle rimaste hanno villette a schiera gratis. Un picco di cinismo (e/o realismo) iniziale con cui il regista vuole introdurre e mostrare uno sguardo di distanza nell’osservare la Casa d’altri, perché propriamente e direttamente non nostra.

Lo vediamo continuamente come gli eventi più catastrofici riescano a trasformare le nostre bacheche social in contenitori di emozioni, voyeurismo, qualunquismo e molto altro ancora. Ma sappiamo anche che è possibile un’altra comunicazione e un’altra narrazione critica, anche nel dramma umano.

Qui il regista stesso sceglie di entrare nell’intimità delle persone, raccontando una piccola storia “inventata” di un anziano con una foto in mano, alla ricerca di una persona amata scomparsa, che si muove insieme alla cinepresa, all’interno di una città deserta e smembrata, attraversandola.

È questo lo sguardo che l’autore sceglie di dare al corto, riportando varie drammatiche testimonianze (dalla maestra di scuola al pompiere) che si mettono a nudo davanti alla telecamera per descrivere in maniera intima il trauma di chi ha vissuto quel terremoto che ha portato via tutto.

Un altro modo di raccontare sarebbe potuto essere – oltre la sofferenza –  ciò che è avvenuto in quel territorio distrutto, le reti di solidarietà che si sono attivate, le mani che hanno aiutato a scavare, a portare beni di prima necessità e a ricostruire degli spazi di dignità per chi ha perso tutto ma ha scelto di rimanere.

Nel corso dell’anteprima del corto ieri a Venezia, alla presenza del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi ha continuato con la retorica istituzionale del mito della città che non si arrende e in cui svetta il tricolore simbolo di riscatto (sic).

Più di un anno dopo, le parole continuano ancora, inesorabilmente a perdere significato, i terremoti con meno di 4 magnitudo uccidono e distruggono intere cittadine, le case nei luoghi sismici vengono costruite con la sabbia. Ora pubblicamente non ride più nessuno, capo chino e via alla prossima tragedia che ruberà la scena alla precedente. Le villette a schiera, tanto, ci sono (più o meno) per tutti, pazienza se la ricostruzione di fatto non è mai veramente ripartita ad Amatrice, pochi i centri di supporto anche emotivo e psicologico presenti, il centro della città ancora chiuso e l’inverno di nuovo alle porte.

E per ricostruzione non intendiamo la creazione di non-luoghi prefabbricati e militarizzati modello L’Aquila.

Sicuramente è importante mettere in luce il dolore e il dramma di chi ancora lo vive sulla propria pelle, ma ricordiamoci sempre che non sono solo i cataclismi che seminano morte, ma soprattutto chi ci specula sopra.

Dopo il sisma che ha colpito il Reatino e la provincia di Ascoli Piceno, sui social network ha iniziato a prendere vita e a diffondersi un flusso imponente di messaggi, immagini, memes dai contenuti fascio-razzisti dichiaratamente tali o occultati dall’evergreen “non sono razzista ma…”  di protesta per il presunto trattamento diverso riservato agli “italiani” vittime del terremoto, rispetto agli “stranieri”. “Gli italiani nelle tende, gli immigrati negli hotel”, un leitmotiv entrato ormai nell’universo semantico di ogni fascio-razzista dell’infosfera, cavalcato dai vari salviniani di turno.

Il trend è sempre quello di fomentare l’odio tra bianchi e neri, italiani e non, cittadini e clandestini, legali e abusivi, italiani veri e usurpatori, in una perenna divisione dicotomica che diviene radicale alterità tra chi merita diritti territoriali e chi no. Non si tratta solo di aizzare  – in un’epoca di impoverimento progressivo – la “guerra tra poveri” ma di rendere più vulnerabile e più controllabile una società già minata intrinsecamente dalla paura, determinando sempre di più una distanza che si concretizza nella definizione di un nemico, insieme interno ed esterno.

Il cortometraggio di Hleb Papou (classe 1991, nato in Bielorussia), Il legionario cerca di condensare in tredici minuti una parte di queste premesse concettuali sovraesposte. Anche qui la “casa degli altri” è protagonista della narrazione filmica. E gli altri sono, in questo caso, 21 famiglie occupanti una palazzina sotto sgombero, nella periferia romana.

I protagonisti sono due fratelli figli di genitori africani, nati e cresciuti a Roma, uno occupante dello stabile non intenzionato a scendere dal tetto della casa, l’altro poliziotto che, manganello in mano, fa parte proprio della squadra venuta a sgomberare l’occupazione abitativa dove vive la madre e il fratello. Una piccola parentesi un po’ retorica e stile fiction tv, che segna, comunque, il divario tra due ragazzi che da sempre vivono in un paese che ancora non riesce davvero ad accettare un diverso colore della pelle.

Daniel vuole omologarsi, per essere come gli altri della squadra mobile, sceglie la divisa che sembra conferirli quella legittimità di rivalsa che non ha mai avuto, in definitiva antepone la retorica legalitaria per sentirsi più integrato. Il fratello invece lotta fino all’ultimo per difendere la sua abitazione insieme agli altri occupanti, perché avere una casa è un diritto inalienabile. “Questa casa è nostra, le vedi queste sedie, questi mobili, li abbiamo messi noi”, perché una casa non significa solo un insieme di mura vuote e abbandonate, proprietà del palazzinaro o della società di turno, ma un vissuto di relazioni che la sostanziano. Significa sicurezza, non quella facente parte della retorica governativa a suon di manganelli.

Gli edifici abbandonati, votati alla rendita, baluardo della speculazione edilizia su cui è stata fondata la Repubblica italiana sono sempre case (vuote) di altri. Nel frattempo continuano gli sgomberi sempre più violenti, lo abbiamo visto recentemente anche il 19 agosto nell’ occupazione abitativa tra via Curtatone e Piazza Indipendenza, che ospitava dal 2013 circa 1000 rifugiati.

Si prosegue a fare la guerra contro chi sceglie di non stare ad aspettare ai margini delle città, ma decide di animare quei luoghi desertificati e prendersi quello che è giusto. È opportuno che anche il mezzo cinematografico inizi a raccontarlo.

Gli altri articoli della rubrica Venezia Salva, direttamente dalla mostra del cinema di Venezia

La vita in comune, di Giansandro Merli

 La frontiera australiana, di Tania Rispoli

• Ex Libris, di A. I.

• L’inattualità del comunismodi Pietro Bianchi

• Il flusso ingovernabile, di Tania Rispoli

• This is the end, di Pietro Bianchi