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La vita in comune

Edoardo Winspeare ritorna nelle sale, tre anni dopo “In grazia di Dio”, con “La vita in comune”. Il film è ambientato a Disperata, che sulle mappe ufficiali si chiama Depressa, e racconta alcuni personaggi del paese salentino con uno sguardo che è allo stesso tempo iperreale e fiabesco.

A chi decide di porre troppa attenzione alla trama, il film può anche non piacere. Non è quello il suo punto di forza. Già il titolo allude a una triplice ambiguità che confonde la definizione dell’oggetto narrato. A cosa si riferisce, infatti, quel “in comune”? Forse a un’unità amministrativo-geografica composta da strade, piazze, edifici? O agli uffici che quell’unità dovrebbero governare? Oppure al fatto che oltre i mattoni, l’asfalto, le norme e la burocrazia, gli spazi abitati sono sempre composti da desideri, amori, conflitti vissuti in una dimensione collettiva?

Insomma, “comune” è messo lì al posto di paese o municipio oppure sta a indicare l’opposto di di ciò che è individuale? Guardare il film non basta per rispondere alla domanda: ognuna delle differenti ipotesi rimane valida. Chissà se per farsi almeno un’idea dell’intreccio insetricabile di tutte queste dimensioni sia necessario vivere, o aver vissuto, in uno di quei paesi del Salento dove municipio si dice comune, come in italiano, ma si declina al femminile: la comune, secondo il dialetto salentino in tutte le sue sfumature. Una differenza di genere che, almeno nei riflessi di alcuni, sposta in un’altra direzione il nesso tra significante e significato.

Forse, il film non vuole neanche raccontarla una vera e propria storia. Almeno in senso classico. Del resto a Disperata il tempo sembra muoversi soltanto nelle fantasie dei suoi abitanti e la Storia che avanza tutto intorno interferisce con le loro vite quasi per errore. Nella forma di una coppia di anziani e gentili turisti tedeschi, persi nella penisola della penisola, o di una telefonata inaspettata di un papa ecologista e attento agli ultimi.

Piuttosto, il contenuto della narrazione sono proprio i personaggi che la tengono in piedi. Quasi che oggetto e soggetti del film coincidano. Winspeare l’ha chiamata la “poetica degli spasulati”. Pasulo significato fagiolo, la s privativa riferisce il termine a quelli che non posseggono neanche questo tipo di legumi. Detto altrimenti: chi non ha un’occupazione, cioè non fatica (lavoro si dice fatìa). E infatti il lavoro, nel film, praticamente non esiste. A parte qualche inquadratura di Eufemia in cassa nel negozio di alimentari, del lavoro si vedono solo le spalle, mentre già se ne va insieme alla delocalizzazione di una fabbrica.

Liberata dalla fatìa, la vita locale assume i tratti della fiaba. Il consiglio comunale è una classe di una qualsiasi scuola elementare, in cui gli alunni litigano e si insultano a vicenda in maniera innocente. La cella del carcere è una stanza di un accogliente bed and breakfast, con tanto di lezioni di poesia e letteratura. Il reduce di guerra si muove come San Francesco e parla solo con gli animali. La prostituta ha il ciclo e rifiuta le altre prestazioni sessuali. Cani e poesie, balli e papi provocano conversioni repentine, ma convinte.

E intanto, dialoghi esilaranti fanno ridere la sala e disegnano i contorni di personaggi che possono apparire paradossali. Alla fine, però, il vero paradosso è che gli attori recitano spesso se stessi e che di Pati, Angiulini e Biagetti il Salento è ancora pieno. E allora è altro che allontana Disperata da Despressa. È la foca che dopo quarant’anni ricompare sulla spiaggia, davanti a un sindaco che fluttua sott’acqua come il bimbo stampato sulla copertina di un album dei Nirvana. È il consiglio comunale che continua a rimandare la concessione dei permessi per la costruzione di un residence sull’ultimo tratto di costa non edificata.

Nel Salento di oggi – tra Twiga, gasdotti e trivelle – questo sì che sembra un mondo irreale. Sembra una favola che, fuori dal film, è una favola triste, con un finale apparentemente già scritto. Eppure, dentro e fuori lo schermo, c’è ancora spazio per un imprevisto spiraglio di speranza. Un pizzico di follia, un altro di passione e un terzo di magia, possono darle la forma di uno zoo e di un’arca di salvezza. Oppure quella di una barricata tra gli ulivi.

I precedenti articoli della rubrica Venezia Salva, direttamente dalla mostra del cinema di Venezia

La frontiera australiana, di Tania Rispoli

Ex Libris, di A. I.

• L’inattualità del comunismo, di Pietro Bianchi

• I terremotati di Amatrice e le case degli “altri”, di Ambra Lancia

• Il flusso ingovernabile, di Tania Rispoli

• This is the end, di Pietro Bianchi