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Il flusso ingovernabile

Seconda tappa della rubrica Venezia Salva. “Governare i flussi è di sinistra, aumenta la sicurezza” – proclamò Minniti a Ferragosto.

Due testimonianze filmiche in materia L’ordine delle cose di Andrea Segre e Human Flow di Ai Weiwei dal secondo giorno del Festival di Venezia 2017.

Come si raccontano le migrazioni dal punto di vista dell’ideologia (e quindi del cinema che è parte dell’apparato ideologico oltre che a volte strumento critico)? Sostanzialmente in due modi: o trattando i rifugiati e i migranti come un pericolo che occorre controllare, domare, respingere oppure come gli ultimi della terra, i diseredati, che bisogna accogliere nel rispetto degli astratti “diritti umani”. In entrambi i casi i migranti non sono dei soggetti, ma un insieme di corpi senza storia e senza voce, inquadrati come un gregge, una massa, una popolazione. Sono solo numeri. Due film a Venezia affrontano questo brutale presupposto con prospettive e modalità radicalmente differenti: il primo è l’ottima fiction, L’Ordine delle cose di Andrea Segre, presentato tra le Proiezioni Speciali; il secondo l’assai meno convincente documentario in concorso di Ai Weiwei, Human Flow. Guardiamoli da vicino.

Segre, già autore tra le altre cose (con M. Liberti) del documentario Mare chiuso (2012) che affrontava la tratta dei migranti tra Libia e Italia, ritorna sul tema con una sceneggiatura davvero preveggente, nonostante una fotografia e una recitazione a tratti imprecise. Quando iniziarono le riprese in primavera, infatti, era nota la complicità in Libia fra gestori dei lager e trafficanti.

I primi cedevano ai secondi un certo numero di migranti e partecipavano all’incasso, dopo aver taglieggiato i detenuti. Entrambi i gruppi facevano parte delle milizie libiche che a terra si spartivano il potere in variabile rapporto con i due governi-fantoccio alle rispettive dipendenze dell’Italia (Eni) e del blocco franco-egiziano (Total). In mare non ci stava nessuno.

Di recente è entrato in scena un terzo protagonista, la Guardia costiera libica (sempre emanazione di quelle milizie) che è stata riconosciuta e attrezzata dall’Italia con il compito di bloccare il flusso attraverso il Mediterraneo, riportando nei centri di detenzione i migranti che hanno già pagato il loro prezzo alle varie milizie che controllano l’interno, ai guardiani del lager e infine ai trafficanti. A questi introiti si aggiungono ora i finanziamenti diretti del governo italiano e dell’Europa (si parla di dieci milioni di euro secondo l’Associated Press), più la possibilità di sfruttare il lavoro dei rimpatriati forzati.

Nel quadro della strategia di Minniti e al netto delle chiacchiere sulla trasformazione dei lager in efficienti e ospitali Hotspot con tutte le garanzie sui diritti civili e il riconoscimento dello stato di profugo, il governo italiano ha stretto accordi con i capi delle due maggiori milizie di Sabratha, re dei centri di detenzione e dei traffici locali, previo inserimento formale nell’esercito ufficiale di Fayez Serraj. Fin quando arriveranno i soldi, il traffico sarà interrotto a terra e in mare, e gli sfortunati migranti rinchiusi e utilizzati come carne da sfruttamento lavorativo e sessuale. Il blocco delle navi delle Ong chiude il cerchio: amministrazione libica e bande interessate confermano, la Farnesina, invece, smentisce.

Oggi questa sceneggiatura preveggente è diventata fotografia realistica, addirittura santificata a livello europeo con i fragili accordi di Parigi. Il film di Segre mostra con la crudezza tipica dello stile documentario come la burocrazia ministeriale “illuminata e l’Unione Europea” gestiscano la contraddizione: bloccando il flusso dei migranti in pieno accordo con la criminalità locale che gestisce sia il traffico che i lager. Il film girato tra Italia, Francia e Tunisia (e questo già la dice lunga sull’agibilità libica!) guarda a Zuawra, città tristemente famosa per essere location di ben due “mezra”, magazzini allestiti a campi di detenzione e poi Tripoli da cui partono i “gommoni”, raccontando questi luoghi con lo sguardo del potere.

Il punto di vista interno è quello del protagonista, il superpoliziotto Rinaldi, che non è un fanatico spezzabraccia, ma un uomo meticoloso, un burocrate ossessivo, ordinato, ripetitivo nei gesti e nelle abitudini. Rinaldi conduce in Libia una delicata trattativa per indurre le autorità ad aderire al trattenimento dei profughi e si fa ben poche illusioni sul trattamento che sarà loro riservato. L’importante è rispondere all’ordine del Ministro che gli chiede con insistenza di “dargli qualcosa di notiziabile”, utile per le conferenze europee e i tg della sera: arrestare con ogni mezzo il flusso migratorio.

Il funzionario conosce però casualmente una donna somala, Swada, che vuole raggiungere il marito in Finlandia e lo prega di inviare un messaggio a un parente a Roma. Rinaldi esegue la missione e cerca di entrare in contatto con la donna via Skype: i suoi dubbi sulla strategia di rimpatrio aumentano e incrinano la tranquilla normalità familiare nordestina e i suoi rapporti di ufficio. Tutto avviene senza stridore, in un’atmosfera ovattata, senza che venga versata neppure una goccia di sangue, come invece da un film che guarda all’interno di un centro di detenzione ci si aspetterebbe. Il film si limita freddamente a mostrare quale si l’ “ordine delle cose” per chi osserva le tragedie dalla “giusta” distanza burocratica: tutto si fa con i soldi e per i soldi.

Dall’altro lato invece Ai Weiwei, figura estremamente controversa del panorama artistico contemporaneo, mostra non solo quei flussi migratori che offrono il titolo al suo docu-film, ma soprattutto i  loro punti di blocco ai confini dell’Europa, nei campi profughi di Lesbo, a Idomeni, a Smirne, a Calais, ai margini della Giordania, all’interno della Palestina, sul muro Messico-Usa, ai bordi della Siria, rendendo visibile l’incredibile dato numerico secondo il quale l’anno passato 65 milioni persone sono state costrette a emigrare.

Il film fin troppo “politicamente corretto” (per radicalizzare quanto ha scritto Artribune) mostra le immagini di questi sfollamenti da due soli punti di vista: dall’alto dei droni che inquadrano distese sterminate di tende e lamiere, allestite a nuove abitazioni per i rifugiati bloccati alle porte dell’Europa, e dal basso dei volti, degli occhi disperati di coloro che sono senza voce. È la parola infatti che manca nel lavoro di Ai Weiwei e alla quale l’immagine non riesce a sopperire. I lamenti, la sofferenza, la disperazione copiosamente ritratte, non diventano mai vero e proprio perché manca il soggetto che ne è portatore. Le motivazioni che spingono a migrare, le cause economiche, sociali, politiche, religiose, e persino le biografie rimangono fuoricampo, mentre viene illustrato soltanto il flusso spersonalizzato della migrazione.

La stessa cosa accadde in occasione della mostra Libero a Firenze tra il 2016 e il 2017, quando alla rappresentazione dei rifugiati Ai Weiwei dedicò l’esterno della facciata rinascimentale di Palazzo Strozzi su cui campeggiavano una serie di ventidue gommoni di salvataggio rosso fuoco (a ripresa di una precedente installazione con giubbotti salvagente veri sulla spiaggia di Lesbo) e l’unico momento effettivamente “libero” si concretizzò nella protesta dei rifugiati in carne e ossa che, avendo subito il rogo e un morto nei capannoni di Sesto, occuparono l’esibizione per diverse ore, facendo sentire la loro voce. Il flusso infatti non è mai solo composto da oggetti in movimento da rappresentare, ma da soggetti titolari di un diritto di fuga e di resistenza, le e i migranti non possono ridursi a pura installazione, ma incarnano un momento terribile e confuso di una lotta di classe su scala planetaria.

Se nel caso “privato” dell’Ordine delle cose emerge quantomeno la natura economica dei respingimenti in corso, in quello ultrapubblico e destinato al successo planetario di Human Flow il regista si limita a mostrare una massa di migranti che non prende mai la parola, ma che si limita a esibire la propria sofferenza e a farci vergognare. E forse questo davvero non basta.