EUROPA

Criminalizzare la solidarietà

Grecia: gli sgomberi di Salonicco e la guerra dello stato greco contro i movimenti, i migranti e i rifugiati. Gli sgomberi di Salonicco rappresentano un attacco esplicito del governo Syriza alle esperienze di autorganizzazione dei rifugiati e dei solidali.
SOLIDARITY STATEMENT: From Rome to Thessaloniki, you cannot stop the wind
Salonicco: tre sgomberi in un solo giorno / Aggiornamento dal processo
Nikis squat: an open letter to Tsipras and his government

All’alba del 27 luglio, le famiglie rifugiate e i volontari sostenitori che stavano dormendo nei tre rifugi occupati di Nikis, Orfanotrofeio e Hurriya, sono stati svegliati dalla polizia in assetto anti-sommossa. In un’operazione di polizia ben orchestrata, centinaia di persone sono state arrestate; la maggior parte degli occupanti con uno status di rifugiato sono stati rilasciati, mentre altri sono stati trasferiti verso centri di accoglienza gestiti dai militari. Il resto degli occupanti, 74 persone di oltre una dozzina di nazionalità, sono stati tenuti sotto custodia da parte della polizia. Immediatamente dopo che lo spazio Orfanotrofeio fosse sgomberato sono arrivati i bulldozer che hanno raso al suolo la costruzione, un orfanotrofio abbandonato “donato” cinque anni fa all’ambiziosa chiesa ortodossa da un precedente governo.

Sotto le macerie sono state seppellite tonnellate di vestiti, cibo e medicine raccolte dalle strutture di solidarietà di base per essere distribuite alle famiglie rifugiate che ne avessero avuto bisogno. Qualche ora più tardi la Cucina No Borders, una struttura indipendente che forniva cibo ai rifugiati nell’isola di Lesbo, è stata anch’essa sfrattata dalla polizia.

Il pomeriggio seguente i 74 occupanti dei tre centri occupati sono stati trasportati in manette dalla polizia in assetto di guerra di fronte alla corte di Salonicco, all’entrata della quale sono stati salutati da centinaia di attivisti, malgrado il pesante caldo dell’estate greca. I nove occupanti di Nikis sono stati condannati a 4 mesi (sentenza sospesa) per occupazione di edificio pubblico; il processo ai 65 occupanti di Orfanotrofeio e Hurriya è stato rimandato per la mancanza di interpreti; tutti sono stati provvisoriamente rilasciati. Le accuse includono “disturbo della quiete pubblica” e “danneggiamento di proprietà privata” – quest’ultima un’accusa fabbricata da avidi proprietari che chiedono forti compensazioni per i supposti danni alle loro proprietà abbandonate e inutilizzate da lungo tempo.

La risposta dei movimenti agli attacchi è stata immediata e ha visto anche l’occupazione simbolica dei quartier generali di Syriza a Salonicco e altre città; manifestazioni di protesta lungo tutto il paese; l’occupazione della Drama School della locale università, per riconvertirla in un centro di iniziativa e lotta; il recupero dei rifugiati trasferiti dai centri occupati ai campi di rifugiati – molti dei quali vulnerabili – verso spazi più sicuri; infine la mobilitazione di un ampio team legale per organizzare la difesa di decine di attivisti nei tre processi separati.

Ciò nonostante, la risposta è stata asimmetrica, visto che solamente nella giornata di mercoledì l’operazione della polizia aveva liquidato la maggior parte delle infrastrutture costruite pazientemente dal movimento di solidarietà con i rifugiati nello scorso anno. Il raid e lo sgombero dei tre centri occupati segna così un ulteriore episodio nella guerra non dichiarata del governo greco contro gli sforzi della solidarietà dal basso.

Umanità malgrado tutto

Fin dall’estate del 2015, da quando la Grecia è diventata la principale via d’ingresso all’Europa per le persone che fuggono da guerre, repressione e povertà in Asia e Africa, i rifugiati che attraversavano il paese incontravano la popolazione greca, che aveva sopportato 5 anni di trattamenti shock basati sull’austerità, che avevano visto le loro vite degradare e scomparire i loro diritti sociali, politici e sul lavoro in un periodo di tempo molto breve.

Malgrado le avversità patite, l’ondata di rifugiati non ha generalmente incontrato riflessi xenofobi, ma un’autentica empatia e solidarietà da parte della popolazione. Le voci dell’estrema destra – che solo qualche anno prima organizzava pogrom contro gli immigrati in collusione con le forze armate – sono state marginalizzate e complessivamente la società greca ha mostrato la propria solidarietà verso i migranti.

La vecchia massima xenofoba – “se ami così tanto i rifugiati, portali a casa tua” – è stata ironicamente messa in pratica: migliaia di case greche sono state aperte per ospitare rifugiati, specialmente i più vulnerabili- malati, donne incinte e famiglie con bambini piccoli – talvolta semplicemente per una breve pausa per recuperare le forze e poi raggiungere la propria famiglia nel nord dell’Europa, ma spesso come sistemazione di più lungo periodo. Milioni di razioni di cibo cucinato in casa sono state portate da persone ordinarie al campo di Idomeni, dove un grande numero di persone viveva in condizioni deplorevoli, in tende e case di fortuna, aspettando la possibilità di attraversare la frontiera verso nord e continuare il proprio cammino verso il nord Europa.

Solidarietà in movimento

Questa risposta complessivamente commovente da parte della società greca ha segnato una vittoria morale per i movimenti sociali greci, che lungo gli anni dei “memorandum” non solo hanno resistito agli attacchi contro le classi popolari e costruito alternative dal basso, ma hanno anche combattuto il razzismo, la xenofobia e il fascismo ad ogni livello: nei quartieri, nelle strade e nel discorso pubblico.

Fin dal primo momento, le infrastrutture e le risorse dei movimenti sociali – per quanto limitate -sono state mobilitate per fornire sostegno e soccorso al numero più grande possibile del quasi milione di rifugiati che hanno attraversato il paese. La rete di cliniche solidali – strutture volontarie di base create qualche anno prima per fornire una sanità di base ai greci senza assicurazione e ai lavoratori immigrati – ha preso parte attiva nella cura dei rifugiati e nella denuncia dei rischi sanitari nel trattamento del governo nei loro confronti. I centri sociali – in particolare Micropolis e Steki Metanaston a Salonicco, Nosotros and Votanikos Kipos ad Atene e molti altri – hanno creato punti di contatto per rifugiati e messo al loro servizio le proprie strutture – mense, negozi alimentari, asili.

Strutture di soccorso autonome – accanto a quelle governative e delle Ong – sono state stabilite a Idomeni e altri punti di concentramento dei rifugiati da organizzazioni di base locali e internazionali. La fabbrica occupata autogestita della Vio.me di Salonicco ha messo a disposizione un magazzino per la raccolta, lo stoccaggio e il trasbordo di materiali di prima necessità (vestiti, articoli per l’igiene, cibo per bambine/i) raccolti da collettivi solidali lungo tutta la Grecia e l’Europa, prima di essere trasportati verso la frontiera a Idomeni per essere consegnati ai rifugiati. Ancora più importante, collettivi militanti insieme a rifugiati hanno occupato molti edifici vuoti lungo tutto il paese per utilizzarli come centri autogestiti – in particolare Notara e City Plaza ad Atene, così come Orfanotrofeio e Hurriya a Salonicco. Altri spazi occupati da lungo tempo hanno aperto le loro porte alle famiglie di rifugiati – come è stato il caso del Nikis, sgomberato dalla polizia mercoledì della settimana passata.

Mercato degli aiuti

Naturalmente la capacità di queste strutture autogestite e autofinanziate di avere un impatto quantitativo verso le difficoltà dei quasi 57.000 rifugiati in questo momento presenti in Grecia è limitata; in ogni caso segnano una differenza qualitativa rispetto all’impegno di stato e Ong, che dominano in questo campo.

Indubbiamente lo stato greco alla fine ha messo in campo le proprie risorse per affrontare l’impensabile catastrofe umana soccorrendo coloro che cercavano di attraversare il mare in barca dalla Turchia verso le isole del Mar Egeo. Questo ha rappresentato un miglioramento rispetto agli anni precedenti, quando è noto che la guardia costiera greca praticava deportazioni immediate – fino a quando nell’agosto del 2015 è stata persino accusata di cercare attivamente di affondare barche piene di rifugiati.

Nonostante ciò, per lo stato greco la situazione dei rifugiati è principalmente una questione di ordine pubblico, quindi un campo di intervento delle forze armate. La cura e l’assistenza per le persone rifugiate sono lasciate alle centinaia di Ong attive in questo settore – molte delle quali attive da tempo, altre formatesi da un giorno all’altro – che sono avvantaggiate dal flusso di finanziamenti locali ed europei verso i progetti di assistenza. Malgrado il generoso e disinteressato impegno dei lavoratori dell’assistenza, che devono fare i conti con situazioni estremamente stressanti, spesso sottopagati e in condizioni precarie essi stessi, dobbiamo comprendere che il monopolio dell’assistenza in mano alle Ong vuol dire privatizzazione della “solidarietà”, la sua sussunzione a obiettivi quantitativi, regole di efficienza, rapporto costi-benefici – questo significa la creazione di un mercato redditizio delle miserie umane.

Carità contro solidarietà

Quello che fa risaltare l’impegno dei movimenti di base in relazione a quello dello stato e delle Ong è che esso è motivato da imperativi politici differenti. Differentemente dal flusso di aiuti verso rifugiati senza potere da parte di organizzazioni altamente centralizzate, la vera solidarietà si dispiega orizzontalmente tra pari. Coloro che praticano la solidarietà riconoscono sé stessi nel “altra/o” e sono guidati dall’empatia, non dalla compassione. Nei centri per rifugiati occupati, gestiti come bene comune attraverso metodi partecipativi, i locali e i rifugiati cucinano e mangiano insieme, intorno allo stesso tavolo; prendono decisioni insieme in cerchio in assemblee orizzontali; riconoscono le reciproche culture e abitudini e vanno oltre preconcetti e stereotipi. Contro la segregazione imposta, le iniziative di solidarietà creano un linguaggio comune e spazi comuni per l’azione dei locali e dei rifugiati.

Inoltre, mentre la politica di stato vuole i rifugiati “nascosti sotto il tappeto” – lontano dalle città, stipati in centri gestiti dai militari, in condizioni disumane – la solidarietà di base li mette al centro della vita sociale, dove essi possono essere accettati e inclusi nella società stessa. Mentre le politiche europee classificano e deportano selettivamente i rifugiati in base alle loro origini, la solidarietà di base mette in questione la distinzione tra “immigrati” e “rifugiati”, perché dal punto di vista umanitario non è importante se le persone sfollate fuggono dalle guerre e dalla povertà o da regimi repressivi.

Ancora più importante, mentre lo stato e le Ong trattano la crisi dei rifugiati come fosse un inevitabile disastro naturale, la solidarietà di base denuncia le sue cause di fondo: le guerre imperialiste in Medio oriente, la spoliazione neocoloniale dei contadini locali da parte delle multinazionali in Africa e Asia, le inumani politiche migratorie della “Fortezza Europa” e, specialmente, l’insistenza nella chiusura delle frontiere, forzando le popolazioni che migrano a farlo lungo le rotte marine – con le conseguenti immense perdite di vite – e nelle mani di un fiorente mercato dei contrabbandieri di persone.

La criminalizzazione della solidarietà

Le attività dei movimenti solidali dal basso è senza dubbio in contrasto con il progetto di integrazione europea, che si basa su una rigida divisione internazionale del lavoro, la permanente competizione nazionale tra le persone, in una gara al ribasso e frontiere permeabili solamente al flusso di capitali e merci, escludendo i corpi dei migranti, considerati solamente come riserva di manodopera senza diritti ai margini dell’economia formale.

In Grecia, il punto focale di questa crisi dei rifugiati, questo contrasto prende la forma di una velenosa campagna di terrore dei mass media contro l’impegno della solidarietà dal basso, incolpata di tutto ciò che non funziona in spazi dove migliaia di persone – come diretta conseguenza delle leggi europee in materia di immigrazione – sono stipate in condizioni disumane. Nel tempo questa è stata usata come giustificazione per l’esclusione dei movimenti sociali da Idomeni e, dopo la distruzione del campo, dai rifugi “provvisori” messi in piedi dallo stato in edifici industriali dismessi alla periferie delle città greche. Sono state create zone speciali di controllo, dove solamente i lavoratori dell’assistenza sono autorizzati a entrare e i tentativi di interazione e collaborazione con i rifugiati sono trattati con la repressione.

L’allarmismo e la repressione hanno raggiunto la vetta durante il “NoBorder Camp” a Salonicco tra il 15 e il 24 luglio scorsi, quando migliaia di attivisti da tutto il continente si sono incontrati per protestare, insieme ai rifugiati, contro le condizioni di incuria e isolamento in campi per rifugiati e l’impenetrabilità delle frontiere che ha portato alla situazione attuale. Reporter dei media dominanti hanno documentato e criticato ogni dettaglio del NoBorder Camp – che si è tenuto nei cortili occupati dell’università, dopo il rifiuto all’ultimo minuto da parte delle autorità universitarie di concedere il permesso agli organizzatori. Una campagna attentamente costruita durante il Camp è stata usata per spianare la via all’operazione repressiva del 27 luglio, con lo sgombero di tre centri per rifugiati occupati.

La repressione e” i valori della sinistra”

Conformemente al surreale clima politico greco dell’ultimo anno, il partito di governo Syriza ha condannato i raid come “tentativo di criminalizzare l’impegno della solidarietà, contrario ai principi e valori della sinistra”, mentre funzionari di governo incolpavano dell’operazione di polizia l’iniziativa del procuratore pubblico.

Un osservatore esterno potrebbe essere portato a credere che il governo è semplicemente incapace di controllare le sue stesse forze di polizia – visto che questo tipo di scuse sono utilizzate di routine da fonti filo-governative, com’è successo quando la polizia antisommossa ha violentemente represso una protesta pacifica della fabbrica autogestita Vio.Me all’inizio di luglio. Invece, ad un occhio più attento, sembra evidentemente assurdo che una tale operazione di polizia, complessa, coordinata e mirata, possa essere intrapresa senza il semaforo verde del responsabile politico della stessa polizia.

Infatti, un’intervista con il summenzionato responsabile, il vice ministro di sinistra della “protezione civile,” – un eufemismo inventato durante gli anni della peggiore repressione delle proteste anti-austerity – rilasciata ad una radio filo-governativa il giorno degli sgomberi è illuminante a questo riguardo. Un testo molto informativo, che rivela non solamente a che punto gli sgomberi del mercoledì siano in linea con la politica del governo, ma anche la concezione governativa del cambiamento sociale e di una politica progressista.

Dopo aver chiarito che l’operazione aveva avuto la sua benedizione, il ministro ha tacciato i centri occupati come “occupazioni ingiustificate” che costituivano una “caricatura di simboli” che creavano una “illusione di libertà”. Ha dichiarato che il governo “non mostrerà una tolleranza generalizzata verso questo tipo di iniziative le quali, anche se ben gestite, non sono in linea con gli interessi dello stato”.

In un discorso dall’argomentazione contorta, dove in pochi paragrafi evoca “i valori della sinistra”, “la lotta della classe operaia”, “la protezione dei diritti democratici” e i “bisogni della società” per giustificare gli attacchi ai movimenti di solidarietà, dichiara: “La sinistra non ha nulla a che fare con l’autonomia, ma con la difesa dei di diritti del lavoro, della società, dei diritti democratici”; “non abbiamo bisogno delle azioni autonome di un pugno di ragazzini, ma vogliamo un movimento popolare di massa, dovremmo portare i giovani nei partiti della sinistra”. Concludeva poi accusando la strutture solidali di portare avanti “sforzi frammentari” che aiutano solamente un numero ridotto di rifugiati, in contrasto con l’impegno organizzato dello stato.

Per dirla in maniera schietta, la società non è e non dovrebbe essere il soggetto della sua stessa liberazione; è piuttosto l’oggetto passivo delle preoccupazioni e il campo d’intervento di un governo benevolo. Le lotte sociali che non sono mediate dallo stato o dai partiti politici o sono infantili o una minaccia alla pace sociale – probabilmente entrambe le cose. Questa concezione totalitaria della società, dello spazio pubblico e dell’azione collettiva non è nuova nel pensiero di sinistra – solo che la sua incarnazione più recente è combinata non con un welfare statale inclusivo ma con la spoliazione neoliberale e uno stato di “eccezione permanente” – un mix davvero esplosivo.

La cruda realtà

Visto che il ministro si è molto vantato della capacità di assistenza dello stato comparata a quella delle iniziative sociali, un report reso pubblico dall’organizzazione pubblica “Centro greco per il controllo e la prevenzione delle malattie” (KEELPNO), basato su un numero di interviste in 16 centri per migranti e rifugiati in tutta la Grecia, conclude che migliaia di persone sono stipate in centri di accoglienza sotto il livello minimo di condizioni sanitarie, con alloggi precari e fornitura d’acqua e fognature inadeguate e consiglia l’immediata chiusura dei campi e l’integrazione dei rifugiati nella società – proprio quello che hanno rivendicato fin dall’inizio della crisi dei rifugiati i movimenti di solidarietà dal basso ora ufficialmente perseguiti per essere “non in linea con gli interessi dello stato”.

Inoltre, il 28 luglio, proprio quando gli arrestati durante le tre operazioni di sgombero venivano provvisoriamente posti in libertà in attesa di processo, una giovane donna siriana moriva per una crisi cardiaca in seguito un attacco epilettico nel campo per rifugiati di Softex vicino a Diavata (Salonicco) – una morte che poteva essere evitata se ci fossero state strutture mediche di soccorso permanenti al campo o se la donna fosse stata trasportata in tempo all’ospedale. La morte della ragazza ha provocato una forte protesta nel campo, dove i rifugiati hanno rivendicato condizioni di vita umane.

Il simulacro della sinistra

Malgrado la retorica, le azioni del governo sono un altro esempio in cui la sinistra è chiamata a portare a termine quanto la destra è stata incapace di fare. Proprio come il terzo pacchetto di austerità per la Grecia sarebbe stato impossibile senza un governo che avesse “a cuore gli interessi della società” – dopo tutto il primo ministro Tsipras è noto che piangesse mentre firmava il nuovo memorandum – operazioni di una tale portata repressiva complessa e calcolata come quelle condotte a Salonicco sarebbero state impossibili senza un vice ministro della protezione civile così preoccupato dei “bisogni sociali” e delle “lotte della classe operaia”. Con una geniale inversione della visione di sinistra riguardo l’emancipazione sociale, le “lotte sociali” sono usate per giustificare la proprietà privata prima delle necessità sociali, i “diritti democratici” sono utilizzati per giustificare la repressione immotivata e i “bisogni della società” sono usati per giustificare una campagna di espropriazione delle classi popolari.

È ormai evidente oggi in Grecia che la sinistra neoliberista e la destra neoliberista sono due varianti dello stesso progetto – un progetto che richiede una popolazione disciplinata, atomizzata e obbediente, preoccupata a massimizzare il proprio profitto individuale, avendo rinunciato ad ogni tipo di azione collettiva per cambiare la società. I tragici eventi del 2015 – quando la volontà della popolazione di andare oltre l’austerity è stata ignorata e una volta di più l’opposizione anti-austerità è stata trasformata in un rafforzamento della ristrutturazione neoliberale – possono aver spinto in questa direzione, smobilitando i movimenti sociali e generando una diffusa rassegnazione.

La solidarietà in Grecia oggi è criminalizzata, dichiarata contraria agli interessi dello stato. In ogni caso c’è una parte della popolazione determinata a continuare a dare un senso alla parola “solidarietà”, strappandola dalle mani delle istituzioni repressive, dai progetti elettoralisti e dalle organizzazioni no-profit a fini di lucro. Per trasformarla nella base di un’aspirazione collettiva per una vita migliore, costruita dal basso in forme ugualitarie e partecipative.

L’autore ringrazia Mary Diakopoulou, del Micropolis Social Centre,ed Elektra Bethymouti, della Thessaloniki’s Social Solidarity Clinic, per il loro inestimabile contributo a questo testo.

Pubblicato in inglese su ROAR Magazine. Traduzione in italiano di Piero Maestri