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La normalità razzista negli Stati Uniti: black, latinos e nativi nella pandemia

We are all in this together, apart if you’re black: negli Stati Uniti, mentre il Presidente Donald Trump spinge affinché il paese riapra presto tutte le attività, un’altra parte della popolazione manifesta invece perché non si torni più a una normalità fatta di diseguaglianza razziale e di classe. Quella stessa diseguaglianza che vede oggi comunità afroamericana, latinos e nativi americani come i gruppi più colpiti dalla Covid-19

Il 5 maggio Donald Trump ha dichiarato di voler togliere l’incarico ai componenti della task force messa in piedi per fronteggiare l’emergenza Covid-19, riaprire tutte le attività e far tornare il paese alla normalità. Negli stessi giorni centinaia di manifestanti protestavano perché gli Stati Uniti abbandonassero definitivamente la normalità. Il presidente degli Stati Uniti e il gruppo di manifestanti non si riferivano però alla stessa normalità; o meglio, si riferivano a due diversi aspetti di quella che viene considerata la normalità statunitense. Da una parte, quella del Presidente degli Stati Uniti, una normalità fatta di consumo di spazi e beni materiali; dall’altra quella fatta di preclusione sostanziale dell’accesso agli spazi, di profilazione razziale e possibilità di essere uccisi in base a essa, senza che il sistema giuridico si metta in moto per perseguire i possibili assassini.

Guardando il mondo con gli occhi di Trump e di una gran parte della società statunitense, gli ultimi tre mesi hanno effettivamente costituito uno stravolgimento rispetto alla normalità; parte delle attività produttive chiuse, aumento esponenziale del numero di disoccupati, limitata sociabilità, restrizione alle libertà individuali, sono solo alcuni dei tratti dell’emergenza che quegli occhi non vorrebbero più vedere con un ritorno al più presto alla normalità.

Dalla prospettiva delle comunità afroamericane e di altre minoranze come latinos e nativi americani, lo stesso periodo di tempo ha visto l’emergenza per il coronavirus infilarsi, senza romperla, in una normalità mai abbandonata e alla quale perfino l’emergenza si è adattata, contagiando e uccidendo per Covid-19 fra queste comunità con proporzioni fuori scala rispetto al resto della popolazione statunitense.

 

 

Una normalità nella quale la vita e la morte sono continuate a scorrere “normalmente”, secondo le consuete logiche asimmetriche della colonia all’interno della nazione.

 

Così è accaduto per Ahmaud Arbery, un venticinquenne afroamericano che il pomeriggio di domenica 23 febbraio va a correre, come sua abitudine, nel quartiere di Satilla Shores vicino a Brunswick, nella contea di Glynn in Georgia. Due residenti, Gregory McMichael e suo figlio Travis McMichael, bianchi, lo vedono correre dalla loro casa, prendono una pistola e un fucile da caccia, salgono sul loro pick-up e lo inseguono. Dopo un breve inseguimento Travis Michael sparerà due volte contro Ahmaud Arbery e lo ucciderà. Secondo il rapporto di uno dei poliziotti intervenuti dopo l’omicidio, Travis McMichael riferisce di aver avuto notizia di furti avvenuti nei giorni precedenti nel quartiere, di avere avuto il sospetto che Arbery fosse il colpevole di quei furti e che fosse armato e che una volta sceso dalla macchina per bloccarlo, Arbery lo abbia attaccato violentemente.

Da domenica 23 febbraio al 7 maggio né Gregory né Travis McMichael sono stati incriminati per l’omicidio di Ahmaud Arbery. Per oltre due mesi, il fatto che un afroamericano fosse stato ucciso in quelle circostanze e che nessuno venisse incriminato per il delitto rientrava nella normalità delle cose. Per più di due mesi il supposto diritto alla difesa della proprietà sopra a qualunque altra considerazione è stata la normalità.

Normalità che è stata rotta il 5 maggio quando, prima sul sito web di una radio locale e poi su Youtube, viene caricato online un breve video che riprende gli ultimi secondi della colluttazione tra Ahmaud Arbery e Travis Michael e poi gli spari di quest’ultimo nei confronti di Arbery. La pubblicazione del video ha suscitato una reazione diffusa verso la mancata incriminazione che prima ha portato a una protesta di piazza e successivamente alla richiesta di incriminazione e arresto dei due McMichael; incriminazione e arresto avvenuti il 7 maggio.

La vicenda non è episodica nella storia delle relazioni razziali negli Stati Uniti, ma ripropone un quesito al quale costituzione e strada sembrano dare risposte opposte: può un corpo nero vivere in qualunque parte del paese?

 

Può un afroamericano camminare per un quartiere a prevalenza bianca senza suscitare sospetto nei bianchi residenti e farli sentire in pericolo solo per la sua stessa presenza fisica in un contesto che, evidentemente, non è stato pensato per lui?

 

Se la costituzione formalmente garantisce a tutti quel diritto, la strada e l’esperienza empirica sembrano dire che no, quella possibilità per un afroamericano non esiste. A confermare la validità della risposta della strada sono il ripetersi di casi simili a quello accaduto lo scorso febbraio in Georgia, in alcuni dei quali è stata coinvolta la polizia.

 

 

Il 9 agosto 2014 Michael Brown, un diciottenne afroamericano di Ferguson, Missouri, venne ucciso dopo un fermo e una colluttazione con un poliziotto, Darren Wilson, che sparò per dodici volte contro Brown, colpendolo sei volte. In seguito all’uccisione per circa dieci giorni Ferguson divenne il centro di una vera e propria rivolta contro gli abusi della polizia nei confronti degli afroamericani. Migliaia di attivisti raggiunsero il Missouri dal resto del paese e, per cercare di “mantenere l’ordine”, per diversi giorni nella cittadina venne instaurato il coprifuoco.

Il 22 novembre dello stesso anno a Cleveland in Ohio Tamir Rice, un bambino afroamericano di 12 anni fu ucciso da un poliziotto che scambiò per vera una pistola giocattolo.

E otto anni prima di Ahmaud Arbery, il 25 febbario 2012, toccò a un altro ragazzo afroamericano, Trayvon Martin, essere ucciso perché la sua presenza a Sanford in Florida, nel quartiere dove aveva casa il padre, era stata considerata sospetta. Anche nel caso di Trayvon Martin un video e delle registrazioni telefoniche avevano smosso una parte dell’opinione pubblica statunitense; il processo a George Zimmerman, il coordinatore del sistema locale di neighborhood watch accusato di omicidio di secondo grado, si risolse nell’assoluzione dell’imputato, un verdetto che suscitò molte proteste rimaste per lo più sul piano della protesta pacifica.

In quasi tutti questi casi e in moltissimi altri che rimangono fuori da questo breve articolo la macchina giudiziaria per la ricerca di un colpevole si è messa in moto molto tardi rispetto all’evento e soltanto dopo la pubblicazione di video o registrazioni che rendevano quasi impossibile non procedere con una accusa formale degli indiziati e i relativi verdetti hanno sempre scagionato in toto o parzialmente gli accusati.

 

La normalità della società statunitense, alla quale le istituzioni e diversi gruppi di suprematisti bianchi vogliono tornare al più presto, si rivela essere anche una situazione di separazione rigida pure se informale degli spazi, compiuta su base razziale e nella quale la dominante bianca è disposta a tutto pur di difendere la propria porzione di territorio monocromatico.

 

Una normalità di diseguaglianza razziale e di classe che si è rivelata importante anche nel definire i gruppi sociali maggiormente colpiti dalla Covid-19. Se i primi dati raccolti ad aprile facevano pensare a una possibile maggiore incidenza della malattia sulle minoranze rispetto alla maggioranza bianca del paese, i dati raccolti dopo due mesi confermano quelle tendenze.

 

 

Dopo New York e il New Jersey, la Nazione Navajo ha registrato fino a oggi la terza più alta percentuale di contagi rispetto alla popolazione.

 

Nonostante il governo dei nativi americani sia stato uno dei primi a decretare il lockdown, dalla fine di marzo la curva dei contagi ha continuato a salire e il limitato bilancio del governo non ha permesso di mettere in piedi un sistema coerente di aiuti alla popolazione sotto lockdown.

La parte di aiuti stanziata dal governo federale è arrivata soltanto la scorsa settimana, in netto ritardo rispetto agli altri stati. Un problema, quello del ritardo nell’erogazione degli aiuti federali, che ha riguardato anche la popolazione di Porto Rico alla quale, a inizio maggio, ancora non erano stati accreditati i 1200 dollari di stimulus checks che i lavoratori degli altri stati avevano ricevuto già da tempo.

Un recente studio compiuto su dati ospedalieri raccolti su 14 Stati ha riscontrato che nel paese la percentuale delle ospedalizzazioni degli afroamericani corrisponde al 33% nonostante essi rappresentino il 18% della popolazione. Ma i dati pubblici più significativi e completi arrivano da un tracciamento che nasce da un’operazione congiunta tra il Covid tracker project fondato dall’ Atlantic e Antiracist Research and Policy Center dell’American University, il cui direttore è Ibram X. Kendi, autore di Stamped from the beginning, una delle analisi storiche più convincenti sulla formazione e lo sviluppo delle idee razziste nella società americana.

 

Il tracciamento avviene quotidianamente, stato per stato. I dati non sono completi perché ancora oggi, a distanza di due mesi dall’inizio della pandemia, non c’è omogeneità nella raccolta dei dati. Le minoranze risultano particolarmente esposte alla Covid-19 e i dati su positivi e morti di alcuni stati ribaltano le proporzioni della loro popolazione.

 

In Georgia, con una popolazione che al 2018 risultava composta dal 52,2% di bianchi, 31,6% di neri e afroamericani, 6% di latinos e ispanici, 4,2% asiatici, 0,3% di nativi americani e dell’Alaska, 2,9% di altre etnie, l’impatto della Covid 19 non rispetta queste proporzioni e nemmeno ci si avvicina. Al 13 maggio 2020 dei 35.427 positivi al coronavirus, 8.945 sono bianchi, 12.405 neri e afroamericani, 3.739 latinos e ispanici, 494 asiatici, 35 nativi americani e dell’Alaska. In Alabama gli afroamericani costituiscono il 26,8% della popolazione ma sono il 45,57% dei contagiati e il 45,74% delle morti per Covid-19. Nel Massachusetts gli afroamericani (8,9% della popolazione) sono il 15,22% dei contagiati e gli ispanici (12,38% della popolazione) il 29,38%. In Arizona i dati della malattia fra i nativi americani e dell’Alaska, 20,26% dei contagiati e 21,09% dei morti, sono quattro volte più alti rispetto alla loro presenza (5,3%) nella composizione della popolazione statale.

Elementi strutturali, tutti a sfavore delle minoranze, quali reddito pro-capite, maggiore esposizione a malattie croniche dell’apparato respiratorio, mancanza di assicurazione sanitaria, sono alcuni degli elementi che certamente espongono una parte della società statunitense a più alte percentuali di possibilità di contagio e, se contagiati, a più alte percentuali di morte per Covid-19.

Rimane fondamentale però sciogliere un nodo in questo ragionamento affinché il rischio dell’emersione del maggior impatto della Covid-19 sulle minoranze non diventi un ulteriore elemento di disuguaglianza che viene normalizzato.

 

Se la struttura sociale ed economica è diseguale e su quella diseguaglianza sostanziale anche se non codificata essa si fonda, le possibilità che una emergenza sanitaria, economica o di qualunque altro tipo impatti maggiormente sulle minoranze è una realtà concreta.

 

 

 

Soltanto perché alcuni dati strutturali ci restituiscono in tabelle le disparità esistenti tra le minoranze e la maggioranza bianca del paese, non significa però aver trovato una soluzione al problema.

Le dinamiche dell’uccisione di Ahmaud Arbery e tutta la mancata vicenda giudiziaria che si dipana cronologicamente nello stesso tempo dell’emergenza sembrano suggerire quale sia il terreno in cui poter incidere per modificare la normalità.

Il No justice, no peace! che viene oggi urlato nelle strade di Brunswick e che sei anni fa veniva urlato a Ferguson non è infatti soltanto la richiesta di un giusto processo per gli assassini di Ahmaud Arbery; è la pretesa di una giustizia sociale che renda davvero le vite degli appartenenti alle minoranze uguali a quelle della maggioranza bianca di fronte alla legge, alle vite di un potenziale datore di lavoro, di un proprietario che ti deve affittare una appartamento, di un poliziotto che ti ferma per strada.

Una normalità che negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, finora non è mai stata vissuta.

 

Foto di copertina di John Vincent via Flickr