MONDO

Un paio di cose su Trump, trumpomani e post-truthologi

Trump sappiamo chi è e più o meno chi l’ha portato al potere, un po’ meno quello che farà. I trumpomani sono i compagni entusiasti. I post-truthologi i seguaci “bocconi” delle post-verità (Post-truth), quelli che Soros sta dietro a tutto.

Andiamo in ordine inverso, partendo dai più coglioni. Che hanno scoperto gli intrighi di Soros in Europa orientale (non c’era bisogno di WikiLeaks per intuirli) e adesso abboccano alla bufala che le grandi manifestazioni americane all’indomani della vittoria di Trump siano state organizzate, teleguidate e pagate – con un tariffario peraltro da caporalato – dal magnate ungherese. Coglioni non genericamente perché credono a scie chimiche e letalità dei vaccini, ma perché pretendono di parlare di politica senza mai aver fatto una manifestazione e conoscerne e riconoscerne le logiche. Il populismo si nutre di bufale, ma che qualcuno di sinistra creda a questa in particolare è peggio di un poveraccio che teme che gli immigrati gli portano via il lavoro.

Più serio è il discorso su quanti a sinistra vedono nella vittoria di Trump sulla strega Hillary un fenomeno di sinistra e, in ultima analisi, un loro successo. Si apre qui il discorso sul populismo, anzi sui populismi, perché essi possono essere di destra e di sinistra e (ipotizzo) anche di centro, come è il caso di Renzi che usa argomenti “anti-politici” e perfino anti-europei a favore di un’agenda neoliberale, pronto a passare dalla subordinazione al clan Clinton a una parodia di Trump. Per non parlare della folle militarizzazione di Milano proposta dal suo vicerè Sala.

Naturalmente Trump, malgrado abbia raccolto voti in settori di working class e middle class precarizzate dalla globalizzazione, non è assegnabile al populismo di sinistra, se non in deliri post-umani, non avendo nulla a che vedere con il populismo progressista di La Follette e neppure con quello assai più equivoco di Huey Long, che comunque mobilitava il white trash della Louisiana contro la Standard Oil. Trump è un pezzo miliardario di establishment legato a componenti secondarie del capitale finanziario (immobili, petrolio, carbone), ma pronto a stringere compromessi con quelle dominanti e ben motivato a non concedere nulla sul piano sindacale e salariale (dal minimum wage all’assistenza sanitaria e alla gratuità degli studi). È un populista di destra, suprematista e complice di ogni attacco ai diritti civili e di genere, che ha usato disinvoltamente il gergo populista della lotta contro la casta per battere una corrotta e guerrafondaia esponente dell’establishment maggioritario, a spese delle scarse tutele soprattutto formali che le minoranze e gli immigrati avevano conseguito. La peggior versione dei significanti vuoti e delle catene equivalenziali di Laclau.

Chiari i motivi del consenso entusiasta di Salvini o Marine Le Pen, altrettanto la strumentalizzazione che Renzi ne fa in nome del “cambiamento” – che ci fa capire quanto ambiguo sia tale concetto. Meno chiaro perché una frazione della sinistra italiana gli abbia strizzato un occhio, almeno in un primo tempo (speriamo), scorgendo non solo nella sconfitta di Hillary ma anche nella vittoria di Donald qualcosa di positivo o interessante. Si può capire (ma non approvare, a mio avviso) la sostituzione di una logora opposizione destra-sinistra (svuotata dai tradimenti sociali della sinistra) con quella più fresca (ma generica e sfilacciata) alto-basso. Si può sbeffeggiare quella che butta nel cestino destra-sinistra per lo schieramento sì-no al referendum (le cattive compagnie sono ancora per tre settimane, mica per tutta la vita!), ma –facciamola semplice – se fossi un precario, una donna, un gay, un nero, un ammalato, con Trump continuerei a sentirmi molto in basso e più di prima. Festeggiassero i maschi etero wasp, anche per un suddito coloniale dell’Impero #Trump is not my President!

Resta un problema di populismo di sinistra, in Italia come in Spagna o in America Latina. Il pericolo – ci limitiamo a segnalarne un tratto ricorrente – è che una moltitudine si dia un’identità inventando un comune nemico (cioè una semplificazione del neoliberismo), secondo una logica schmittiana amico-nemico e, di fatto, una riproposizione dell’autonomia del politico. La soggettivazione si determina reattivamente nel risentimento, in altre parole farebbero classe quanti hanno sul cazzo qualcuno che sta più in alto. La strada, già sperimentata, di una sconfitta sicura. Questo pericolo è altrettanto grande di quello opposto, di una dispersione subalterna delle differenze e di una dimenticanza delle rivendicazioni sociali rispetto alla difesa dei diritti umani. I forconi e l’ennesima rievocazione decadente dei “barbari” producono, per la ripresa di un ciclo di lotte, quanto i salotti di sinistra e gli apericena progressisti.

Ma torniamo a Trump. Non sappiamo bene come risolverà in un’agenda coerente le molte promesse e i molti odi che ha seminato per nutrire la sua campagna elettorale. Pensiamo che in politica interna adotterà le soluzioni più reazionarie entro i limiti dei poteri locali, degli interessi di Wall Street e delle multinazionali, e delle resistenze che incontrerà e già si sono vivacemente manifestate. Più complicata la gestione della situazione internazionale e degli accordi commerciali, fra tentazioni isolazionistiche e protezionistiche ed esigenze imperiali nonché fra opzioni non compatibili: a favore della Russia e contro l’Iran, sostegno cieco a Israele e anti-semitismo schiumante all’interno, sulla Cina, nei confronti dell’Europa… Vedremo dopo l’insediamento, anche se già da ora le difficoltà nelle formazioni di una squadra appalesano le prime avvisaglie delle contraddizioni e confermano l’esitante impreparazione del personaggio, dunque la sua subalternità al vecchio potere e alle ingerenze familiari.

Sappiamo però di sicuro una cosa: che la sua vittoria ha disintegrato non solo il partito democratico sconfitto ma anche il suo partito, i repubblicani, vincitori ma contro le loro scelte presidenziali. In campo “blu” si è riaperto lo scontro fra la presidenza e l’ala Sanders-Warren, che punta a una specie di Tea party di sinistra. In campo “rosso” l’apparato repubblicano era tutto contrario alla candidatura Trump e i parlamentari potrebbero discordare gravemente dalle proposte populiste del nuovo Presidente. In ogni caso avremo cordate e lobbies e non più partiti, neppure in quella forma di comitati elettorali che li distingueva dalle formazioni ideologiche e di massa del vecchio Continente. Il contraccolpo sul sistema partitico europeo in disfacimento e sulle socialdemocrazie agonizzanti potrebbe essere micidiale, così come la spinta a un’ulteriore personalizzazione della politica per riempire il vuoto creatosi nel rapporto fra rappresentanza e constituency, cioè per il fatto che le oligarchie elette e le organizzazione sociali ufficiali non rappresentano più nulla.

Di qui l’inutilità di usare come strumenti validi i partiti tradizionali o loro minoranze aggregate (SI allargata a Sel, bersaniani, Possibile e compagnia scindendo), ma purtroppo dovendo rivedere tutta la forma movimento che ci siamo finora dati. Forse prima del 4 dicembre non ci riusciremo e il NO soffre abbastanza di non avere un leader, un peso a sinistra che controbilanci l’aggregato informe e speriamo vincente di rifiuti e risentimenti. Tuttavia dalla sera del 4, quando capiremo il quadro complessivo e si creerà inevitabilmente una coalizione dal Pd alla destra moderata per cambiare la legge elettorale e fronteggiare l’avanzata del M5s, sarà urgente trovare una soluzione che ci eviti di finire schiacciati fra opposti populismi e dia voce a una moltitudine piuttosto che a una finzione di popolo identitario e alla realtà di un’ammucchiata. No al trumpismo coloniale.