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OPINIONI

Uccisi non solo da Covid: ni Olvido ni perdón

Mentre la pandemia può inizialmente apparire come “democratica”, i suoi effetti stanno correndo lungo le linee di classe, genere, razza ed età su cui è già strutturata la catena di produzione di valore e la gerarchizzazione della cittadinanza

È ancora difficile comprendere di che cosa sarà fatto lo scenario globale del dopo-pandemia. Stiamo andando incontro a una situazione del tutto inedita. A poco servono i virtuosismi intellettuali così frequenti in questi giorni, se non a ripetere vecchie analisi e formule tarate su un mondo di cui molto probabilmente resterà soltanto qualcosa di meramente residuale nel futuro più immediato. Il pantheon filosofico-politico occidentale andrebbe preso più come un caricaturale oggetto di studio, immunemente governato dal proprio narcisismo-divismo intellettuale, che non come un serbatoio di pensiero politico. Non se ne può francamente più di dirette in rete per sentire i pesi massimi del pensiero (bianco) globale.

Conviene scalare una marcia dalla Grand Theory, al costo di ridimensionare il proprio ego intellettuale, e porsi obiettivi più modesti, in attesa di una riflessione o di una teoria più all’altezza di ciò che sta accadendo. Molte cose andranno chiaramente ripensate. Ora è il momento di de-ideologizzare, per così dire, di collocarsi sulla traccia dei fatti prima che prendano la piega del discorso. Una piccola rassegna di alcuni fatti avvenuti negli ultimi giorni può essere indicativa di una sorta di preistoria, per dirla con Benjamin, del nostro futuro a venire, ma soprattutto può anche servire a conferire il suo vero volto al nemico che ci toccherà affrontare e quindi a rendere un po’ più concreto il reale terreno di lotta del dopo-pandemia. Una cosa è già certa: in Europa i conti dovremo farli con lo stesso blocco di potere degli ultimi 20 anni, UE-governi nazionali; ma più disposto che mai, data la gravità del momento, ovvero la dimensione del blocco subito dalla macchina capitalistica, a farci pagare i costi economici di una crisi. Inutile mettere la testa sotto la sabbia: il nostro grande problema continua a essere l’attuale UE e il non saper in che modo liberarci da essa.

 

L’immaginario della catastrofe e il disciplinamento del conflitto sociale

L’inchiesta sui contagi di Alzano Lombardo e Nembro merita qui il punto di partenza. Mi sembra di fondamentale importanza, considerando la situazione che ci troviamo ad affrontare già dal 14 aprile, primo giorno di “riaperture” dopo il lockdown cominciato il 10 marzo. Ci siamo svegliati con buona parte dei media (anche di quelli che mostrano il loro vero volto facendosi ancora pagare l’accesso ai loro portali incuranti di un’emergenza sociale e di una gravissima crisi economica) che riportano una riapertura oltre il previsto (dai termini di legge) di fabbriche e aziende in Lombardia e Veneto, con la precisazione che almeno la metà del totale non ha mai in realtà sospeso la produzione o chiuso i battenti. Come se non bastasse, già il giorno successivo arrivano non solo le solite pressioni di Confindustria, ma anche del “sovranismo-leghista” del Nord, con il suo vero slogan “prima il capitale”, per far ripartire il prima possibile, e nella sua totalità, la macchina produttiva. Proprio quella macchina produttiva la cui modalità di comando, di sfruttamento e di produzione di valore è una delle cause fondamentali alla base del mostruoso primato italiano dell’indice globale di letalità (12%) nella diffusione del Covid-19.

 

Ma tornare a Nembro e Alzano Lombardo può servire anche come primo potente antidoto per neutralizzare quell’immaginario della catastrofe attraverso cui si sta cercando non solo di governare la crisi, ma anche di disciplinare il conflitto sociale a venire.

 

Non si tratta di uno schermo, dunque, ma di un vero e proprio dispositivo di controllo sociale. Questo immaginario consiste in una narrazione pubblico-mediatica che ha costruito la pandemia, sin dall’inizio del suo scoppio, come una guerra ad armi impari contro un “nemico invisibile”, concepito per di più come una sorta di disastro calato dal cielo. L’immaginario della catastrofe ci pone quotidianamente di fronte al coronavirus come l’immaginario medievale si era posto di fronte alla peste del XIV secolo, riconsegnandoci la pandemia come una calamità senza apparenti cause “terrene”, e soprattutto malvagiamente “indifferente” (democratica) nel suo potere di morte. Come nel medioevo, la nostra salvezza viene qui a dipendere dalle preghiere (obbedienza all’autorità), dall’occultamento sociale (la quarantena) e dall’avere fede nella buona volontà di Dio (soldi e misure dei decreti di governo e della UE). Non si tratta di mettere in discussione l’utilità della quarantena e del distanziamento sociale come misure di contenimento, anzi, sappiamo che proprio il ritardo nell’adozione di tali misure (non certo attribuibile solo a mero errore di calcolo o alla semplice contingenza) è anche alla base della condizione di morte sociale di massa in cui siamo costretti a vivere.

 

 

Ciò che vale la pena qui sottolineare è la funzione dell’ordine del discorso attraverso cui si è scelto di “governare” la crisi. L’immaginario della catastrofe, compreso il suo pathos bellico, ricoperto poi dalla retorica di una nuova solidarietà nazionale razzista e patriottarda, contiene già in sé la futura agenda politica istituzionale: espungere fuori dall’ordinamento sociale le cause del “disastro”, rimuovere ogni riferimento alle disuguaglianze socio-economiche nella distribuzione dei morti, concentrarsi quindi unicamente sugli effetti, ma in modo (solo superficialmente) indifferenziato o “democratico” – tutti abbiamo subito la pandemia allo stesso modo – per ripristinare al più presto la “normalità”.

 

È chiaro che la pandemia non ha certo origine divine (indipendenti dall’uomo) né tanto meno colpisce in modo socialmente indiscriminato.

 

Le cause, come si è spesso ripetuto in questi giorni, risiedono in uno sfruttamento sempre più cieco, vorace e predatorio delle risorse naturali, nella logica sempre più “estrattiva” del capitale globale e in uno stile di vita (antropologico) ecologicamente insostenibile. Lo sviluppo illimitato dell’agro-business, degli allevamenti industriali intensivi, della deforestazione, dell’estensione delle monocolture a scapito di terre, boschi, animali selvatici e anche popoli originari sono alla radice delle mutazioni nelle nicchie vitali dei pipistrelli che hanno prodotto il virus. Non si tratta comunque di un fenomeno “cinese”, ma dalla pressione di una logica globale di accumulazione su uno degli snodi produttivi più strategici nella catena planetaria di produzione di valore. Il discorso può essere anche allargato e riformulato: il virus (la natura) ha bloccato una pulsione finanziario-produttivistica (sviluppismo, estrattivismo, capitalismo digitale, consumismo sfrenato, ecc.) e una mobilità di massa (circolazione incessante di ogni mezzo di trasporto, turismo, gentifricazione rurale e urbana, ecc.) oltre ogni limite. Anche i discorsi acritici, a cui ci siamo così abituati negli ultimi decenni, sulla mobilità indiscriminata come una forma di libertà e di diritto (e non stiamo parlando qui, ovviamente, di quella di migranti, richiedenti asilo, ecc.) dovranno in qualche modo essere rivisti.

Ma se la pandemia ha avuto origine nelle mutazioni della natura indotta da una logica di accumulazione ecologicamente e antropologicamente insostenibile, la sua diffusione globale omicida è stata favorita anche dalla reticenza di molti governi ad anteporre il diritto e la salute delle persone davanti agli imperativi del capitale, così come da tecnologie di governo (“occidentali”) non solo malthusiane, ma anche razziali, di coloniale memoria, nell’amministrazione della popolazione. Non è un caso che questo approccio alla pandemia sia venuto fuori in paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Svezia (i primi tre paesi ad aver sviluppato l’eugenetica come tecnologia di rigenerazione potenziamento della propria popolazione), o il Brasile, l’Ecuador e l’India, nazioni coloniali costruite sul disprezzo e la negazione bianca e razzista di buona parte dei loro popoli. Anche se non ci viene detto esplicitamente, la cosiddetta “fase due” del dopo quarantena, un po’ dovunque, va proprio nella direzione dell’immunità di gregge promossa come politica di gestione (eugenetica) della popolazione dai vari Trump, Johnson e Bolsonaro. Lo si farà in modo da non far (ri)collassare, in primo luogo, il sistema produttivo, e poi i sistemi sanitari, attraverso restrizioni e controlli più ravvicinati (digitalizzati) del lavoro, la mobilità e la vita sociale. Non è un caso che in Italia si sia scelto un manager (Vittorio Colao) per l’organizzazione di questa fase e non altro tipo di esperti.

 

Una cosa è dunque chiara: si è già dichiarato di poter fare a meno dei “più vulnerabili” (anziani, poveri, marginali, malati, esclusi, ecc.) che inevitabilmente saranno i più esposti della fase due.

 

Dopotutto non si tratta di una tecnologia di governo aliena alla modernità: in diversi snodi della sua opera, lo stesso Foucault ci racconta in modo estremamente efficace le politiche di potenziamento biorazziale della propria popolazione, in funzione di un incremento della loro produttività, messe in atto da parte degli stati moderni più avanzati di Europa dal ‘500 in poi. Foucault diede a questa tecnica di gestione il nome di “polizia” statale. Tutto questo ci ricorda un elemento che non dobbiamo dimenticare: nella pandemia gli effetti di morte possono apparire “contingenti” e “democratici” in un primo momento, ma subito dopo, come stiamo vedendo un po’ dovunque e come si sta anche progettando, tenderanno a scorrere, come ogni evento e processo, lungo le segmentazioni di classe, genere, razza ed età (e sulla loro specifica intersezione) su cui si appare strutturata la catena di produzione di valore e la gerarchizzazione della cittadinanza nei diversi spazi e territori.

Negli Stati Uniti, il virus sta uccidendo in percentuali molto maggiori neri e latinos poveri che non soggetti appartenenti ad altre classi e gruppi. In Francia, non è un mistero che i focolai principali si stanno assestando nei quartieri poveri e razzializzati delle banlieues. Anche nei paesi dell’America Latina, dopo un primo momento, la diffusione del virus, ancora contenuta, sta seguendo le gerarchie di classe e razza delle popolazioni. Prodotto dalla natura insaziabile del capitale, dunque, il virus non farà che stringere a livello sociale i fili, e quindi la logica, di quella stessa trama produttiva. Come fece notare Sartre nelle sue critiche a La Peste di Camus, le grandi tragedie sociali dei nostri tempi non vanno mai trattate come catastrofi naturali: sono il prodotto di sistemi storico-politici concreti. Trattare il nazismo o il colonialismo come una peste significava mistificarli e spoliticizzarli come fenomeni sociali.

 

Alzano Lombardo, Nembro: #YesWeWork…. as they will die

Quanto accaduto ad Alzano Lombardo e Nembro a metà febbraio, dunque, ci riporta la catastrofe dal cielo in terra. Diverse inchieste, giudiziarie e giornalistiche, stanno mettendo oramai in luce che un’alta dose di responsabilità dei contagi e delle morti in questa zona della Lombardia, ma ovviamente non solo, è da mettere sul conto di amministratori regionali, sanitari e soprattutto degli industriali. Agli errori di gestione commessi negli ospedali derivanti non solo da incapacità personali (che li hanno poi trasformato nei principali focolai dell’epidemia), ma soprattutto da un sistema sanitario devastato negli ultimi 20 anni dalla logica della privatizzazione e dall’aziendalizzazione (gestita per lo più da FI e dalla Lega), occorre aggiungere un elemento importante comparso qua e là, e mai del tutto messo davvero in primo piano; anzi del tutto ommesso nei resoconti delle indagini proposti dai principali media, “Corriere della sera” in primo luogo: l’espressa richiesta e la corrisposta accondiscendenza delle autorità regionali, di diversi e potenti industriali della zona di non dichiarare zona rossa entrambe le cittadine. Pochi ricorderanno oggi l’hashtag #YesWeWork, diffuso nelle reti sociali da Confindustria o lo slogan degli industriali bergamaschi “Bergamo non si ferma /Bergamo is running” rivolto agli investitori stranieri per non spaventarli, proprio mentre scoppiava l’epidemia a fine Febbraio. Fu solo grazie allo sciopero dei lavoratori e alla pressione dei sindacati di base che il governo decise a ultimo momento di opporsi alla richiesta di Confindustria di non bloccare la produzione prima del varo del primo lockdown produttivo a metà marzo. In realtà, il governo si oppose più nella forma che nella sostanza, preoccupandosi di lasciare, chiaramente in modo intenzionale, molti cavilli nei decreti che consentivano agli industriali di non recepire (con l’avallo della legge) le disposizioni riguardante il primo blocco.

 

Così già prima delle ferie pasquali i principali media riportavano, naturalmente senza alcun ritegno critico, che almeno 80mila aziende avevano comunque riaperto gli stabilimenti tra Lombardia e Veneto nei giorni immediatamente precedenti, sfruttando proprio quei cavilli del decreto del governo sui parametri riguardo le filiere “essenziali” o meno.

 

Anche in vista delle prime riaperture del 14 aprile, gli industriali si sono affrettati a chiedere il ripristino di buona parte delle attività produttive. Il no del governo anche qui è stato solo di facciata: tramite le deroghe ai prefetti per le autorizzazioni alle aperture, già dal 14 aprile si parlava sui media di almeno 450mila aziende nuovamente attive in Lombardia, che vanno a sommarsi a quelle già riaperte nei giorni precedenti. Altro dato agghiacciante è quello fornito da media e Istat secondo cui almeno il 60% delle aziende bergamasche del comparto manifatturiero, o non ha mai hai chiuso o ha ripreso l’attività già da qualche giorno. Tutto mentre il virus in Lombardia continua a correre e a uccidere e la stigmatizzazione mediatico-istituzionale si concentra unicamente sulla presunta indisciplina di chi fa due passi per strada o di chi organizza una grigliata in terrazzo. Le centinaia di migliaia di operai e lavoratori costretti a lavorare in questi giorni nella stessa Lombardia in comparti non certi essenziali, comprese quelle categorie più vulnerabili e meno protette (rider, logistica, ecc.) non sembrano rientrare, come altri segmenti della classe lavoratrice (migranti, rifugiati, detenuti, ecc.) a cui è rivolto l’hashtag #iorestoacasa e la conseguente tutela statale. Solo una rivista indipendente spagnola diede il titolo che merita tutta questa vicenda: «Bérgamo, la masacre que la patronal no quiso evitar».

Non soddisfatti, incuranti della sofferenza e della morte altrui, con la complicità di governo e media, industriali e sovranisti stanno gettando le basi di altri massacri. La situazione può fungere da importante remainder per Giorgio Agamben: come insegnava Marx, è la logica del capitale a produrre, da quando esiste, un costante “stato d’eccezione”.

 

Le gerarchie sociali come nutrimento del virus

L’immaginario della catastrofe ci presenta le vittime quotidiane del virus in termini di “unità”, senza ulteriori distinzioni: come se non esistessero nelle nostre società diversi gradi socialmente e politicamente indotti di vulnerabilità. Una prima menzione merita in questo caso la condizioni di morte di massa in cui sono venuti a trovarsi molte case di cura e residenze per anziani (RSA). Si tratta per lo più di residenze in cui vivono anziani appartenenti alle classi più popolari o provenienti dalle famiglie con meno risorse. Sono queste case, ridotte al minimo della cura e dell’attenzione (a meri parcheggi) già in situazioni di normalità, quelle rimaste maggiormente esposte al virus. Si tratta di un vero e proprio eccidio in corso, frutto della letale combinazione tra un sistema sanitario sempre più ridimensionato dai processi neoliberali di ristrutturazione economica voluti anche dalla UE e una mercificazione predatoria del settore promossa direttamente da Stato e regioni, in cui eccellono aziende e fondazioni assai dubbie e finalizzate al massimo profitto con minore sforzo, data non solo l’assenza di controlli, ma anche il coinvolgimento diretto negli affari di esponenti della politica, dell’economia e del mondo “cattolico” (anche assai noti). Un commento a parte, che non fa che confermare l’orrore per la componente di classismo e perversità con cui le istituzioni amministrano questa parte della popolazione, meriterebbero le delibere delle regioni Piemonte e Lombardia che hanno autorizzato le ASL a trasferire malati di Covid in diverse RSA.

 

 

Nel momento in cui le pressioni per un ritorno immediato e intransigente alla normalità produttiva, può essere importante ricordare i dati diffusi di recente da INAIL e ISS sulla distribuzione disuguale della morte, sulla relazione tra rischio sanitario e status socio-economico (classe, genere, razza). Non tuttx siamo e verremmo espostx al contagio allo stesso modo. Le gerarchie sociali della vulnerabilità si possono riscontrare anche all’interno del settore dei sanitari, la cui “mitizzazione” istituzionale è direttamente proporzionale alle responsabilità dello Stato per le centinaia di morti avvenute a causa soprattutto del mancato equipaggiamento e per il disinvestimento continuo nella formazione del personale medico e paramedico, indotti dalla neoliberalizzazione continua della sanità: dei 14mila operatori contagiati due terzi sono donne, la categoria più colpita poi sono gli infermieri (il 34%), seguiti poi dagli addetti ai servizi di assistenza presenti soprattutto nelle residenze per anziani (il 22%), buona parte dei quali donne migranti precarie. Il rapporto passa poi in rassegna le altre categorie maggiormente a rischio, come i lavoratori dei trasporti, della grande distribuzione, della logistica, dell’agricoltura e gli operatori ecologici, lavoratrici domestiche, colf e badanti, a cui andrebbero aggiunti le migliaia di migranti “reclusi” nei vari centri di accoglienza e rimpatrio, negli edifici occupati e simili.

Qualche giorno fa si è saputo del contagio di diversi richiedenti asilo dell’occupazione di Palazzo Selam, nel quartiere di Roma La Romanina, lasciati dallo scoppio dell’epidemia al proprio destino, come quasi tutto il resto delle strutture di accoglienza: la risposta istituzionale ai contagi non si è fatta attendere, invio dell’esercito e di viveri per la maggior parte inutili (come colombe pasquali, hanno reso noto gli occupanti), al punto che i migranti hanno reagito rifiutando gli aiuti con una protesta pubblica. Qualcosa di simile è successo anche al Centro di accoglienza di Torre Maura, dove i 130 migranti rinchiusi hanno dato fuoco alle strutture, nel tentativo di fuggire e di chiedere misure di protezione e di prevenzione di fronte ai primi casi di contagi rinvenuti al suo interno: anche qui la risposta non si è fatta attendere, zona rossa e presidio dalle forze dell’ordine.

Non diversa appare la risposta della UE alle migrazioni ai tempi della pandemia. Basta dare un’occhiata alla Nuova agenda migratoria europea varata e resa pubblica nei giorni scorsi: nessun obbligo di ricollocamento per gli Stati, richieste di asilo esaminate da agenti di Frontex armati nelle frontiere esterne, rafforzamento del contrasto militare e stretta sui rimpatri. Il piano prevede anche il reclutamento di 10mila nuovi agenti di Frontex entro il 2027. Si tratta di un’agenda per un nuovo governo delle migrazioni negli anni a venire che presenta contorni sempre più sfumati rispetto alle richieste e istanze dei sovranisti e del cosiddetto gruppo di Visegrad. Tra le misure promosse anche lo stop alle richieste di protezione umanitaria.

Sono questi, dunque, alcuni importanti elementi per cominciare a prefigurarci il dopo-pandemia.

 

Non è azzardato ipotizzare che in una situazione di crisi radicale, di depressione economica, di sovrapproduzione, di concorrenza selvaggia tra i diversi sistemi produttivi e con un forte eccesso di forza-lavoro disponibile, ci saranno le condizioni ottimali, per un’articolazione ancora più violenta, predatoria e razzista del processo di estrazione di valore dall’intero corpo della popolazione.

 

Già nel primo giorno del dopo il lockdown totale, c’è chi vuole rilanciare, sempre al Nord, cantieri e opere pubbliche abolendo il codice degli appalti” per riportare lo «spirito bellico di ricostruzione», cioè l’asservimento totale alle condizioni del capitale. Quanto sta già avvenendo nel settore dell’agricoltura può essere paradigmatico di quanto potrebbe accadere in molti altri settori e comparti: potremmo assistere a un’ulteriore, e diversa, “morsa razzista” a un mercato del lavoro già ampiamente razzializzato. E l’agricoltura, in questo caso, può essere lo specchio di altri settori e comparti. Buona parte della popolazione migrante del continente, poi, tra il blocco della mobilità, l’azzeramento dell’economia e la mancanza di accesso a condizioni di protezione sociale, si trova già in una condizione di “spossessamento” quasi senza immediati precedenti.

E governi e capitale europei lo sanno già. Particolarmente agghiacciante (e forse anche qui paradigmatica) la politica migratoria appena messa in atto dall’Austria: organizzazione di voli charter dalla Romania e dalla Bulgaria per reclutare badanti da destinare alla cura di anziani e soggetti vulnerabili per tempi di lavoro ridottissimi. Vi è già stato qualche volo da Sofia e Timisoara verso Vienna per reclutare 200 donne da destinare a questo lavoro: oltre al fatto che durante il volo non è stato loro assicurato alcun distanziamento sociale preventivo, appena arrivate a Vienna è stato sequestrato loro il passaporto durante il tempo prestabilito dallo Stato per la quarantena. È solo uno degli esempi del tipo di “estrazione” e “predazione”, razzista e di genere, a cui il dopo pandemia potrebbe volerci abituare. Inoltre, decreti e misure, economico-finanziarie, nazionali ed europei, al vaglio in questi giorni sembrano andare proprio nella produzione e rafforzamento di questa condizione.

Abbiamo ascoltato per 40 anni che un debito pubblico oltre i parametri fissati del fiscal compact europeo è insostenibile per le economie nazionali europee. All’improvviso veniamo a sapere che, soprattutto per salvare il sistema dal crollo, la cosa non era proprio così: massicce iniezioni di denaro pubblico possono servire come “materasso” per contenere gli effetti della crisi.

Ci hanno preso in giro un bel po’ di anni. Non dimentichiamo che durante la crisi finanziaria del 2008 i soldi pubblici, come il denaro di contribuenti e risparmiatori, sono stati incanalati per salvare le banche e lo scricchiolante sistema finanziario globale, sprofondato nell’abisso a causa delle proprie e illimitate speculazioni. Si è dovuti arrivare al quasi collasso della logica di accumulazione dominante, una crisi certamente più grave di quella del 2008, da cui comunque non siamo usciti, per avere un minimo di flessibilità rispetto al consueto dispotismo fiscale della UE. E tuttavia è chiaro che ciò che ci stanno preparando UE e governi europei sul ritorno a un indebitamento pubblico oltre i parametri non segue affatto la riproposizione di una qualche forma di welfare, ma la stessa logica “neoliberale” degli ultimi decenni.

Gli strumenti al vaglio dall’Eurogruppo e dalla BCE per “andare incontro” alla più grave crisi economica globale sin dal 1930 sono tutti interni alla trappola del debito (da ripagare più avanti), e seguono una logica simile a quanto è stato proposto qualche anno fa per (strangolare ulteriormente) la Grecia: prestiti in cambio di futuri riaggiustamenti strutturali. Si pensi alla centralità attribuita al MES nella gestione dei finanziamenti: difficile aspettarsi altro da questa UE governata dalla Germania e dai suoi complici nordeuropei. Altri strumenti come gli Eurobond semplicemente non ci saranno, senza cambiare radicalmente la struttura della UE: è proprio su questa impossibilità, ovvero sul mantenimento dell’indipendenza del debito sovrano e del sistema fiscale, che paesi del Nordeuropa (con alcuni come l’Olanda riconvertita in paradiso fiscale delle grandi multinazionali globali) che si è costruito buona parte del privilegio di cui essi godono in quello che si può chiamare la gerarchia interna o la divisione del lavoro all’interno del sistema produttivo europeo. In sintesi: l’estremismo e la violenza dell’estrazione neoliberale non si fermeranno certo con la pandemia.

 

Ni olvido ni perdón

Non lasciamoci ingannare: oltre la retorica ufficiale, in Europa non c’è nessuna inversione di marcia. Con la riapertura, ci troveremo di fronte a un momento drammatico, in cui i dispositivi di accumulazione, sommati alle necessarie misure di distanziamento sociale e alle nuove tecnologie di governo e di sorveglianza digitale della popolazione messe a punto durante la quarantena, ci riproporranno una “normalità” ancora più dura di prima. Ma questa condizione globale può anche essere il punto della nostra forza, se sapremo piegarla a nostro favore. Altrimenti, rischiamo che lo scontento nei confronti della UE e delle sue appendici nazionali di governo venga raccolto ancora dai sovranismi reazionari, e questa volta in uno scenario capace di decuplicare la loro il loro livello di violenza socioeconomica e di autoritarismo.

Il futuro ci sta già ponendo questa nuova e difficile sfida. Un qualcosa di simile a un nuovo welfare, investimenti nella sanità e nell’istruzione, reddito di quarantena, salario minimo, patrimoniale, non sono affatto in programma. Solo le lotte e i conflitti, come sempre, potranno cambiare la terra sotto i nostri piedi. Cominciamo però con il non dimenticare: non stiamo morendo solo di Covid19! Ni olvido ni perdón!, dunque, come si dice in Argentina dai tempi dei primi processi ai militari genocidi. Fanon fu molto chiaro su questo: una società che non odia non ha futuro!

 

Foto di copertina di Santiago Sito