ITALIA

Eurogruppo, il pasto non è gratis

Nonostante tutti rivendichino di aver vinto la trattativa, l’accordo raggiunto dall’Eurogruppo lascia sul tavolo molte ombre e ambiguità. Cosa è stato veramente stabilito e cosa si sarebbe potuto fare?

Dopo l’accordo all’interno dell’Eurogruppo sulle risorse da mettere in campo per far fronte all’emergenza sanitaria provocata da Covid19 e alla conseguente emergenza economica e sociale, è iniziata la gara mediatica su chi ha vinto e chi ha perso all’interno dell’acceso confronto fra i partner europei.

Ad oggi sappiamo che verranno attivati:

a) il Sure, uno strumento di supporto ai lavoratori sul modello della cassa integrazione italiana, con una dotazione su scala europea di 100 miliardi, messi a disposizione dalla Commissione Europea sui mercati azionari attraverso l’emissione di titoli; si tratta di un prestito, per ottenere il quale l’Italia dovrà mettere 25 miliardi di garanzie, volte a garantire la restituzione ad emergenza conclusa;

b) la Banca europea per gli investimenti (Bei), che costituirà un fondo per le imprese, con una garanzia di 25 miliardi, messi a disposizione degli Stati, per raccogliere capitali fino a 200 miliardi a tassi molto ridotti; i soldi raccolti verranno successivamente prestati a chi ne farà richiesta, attraverso istituti nazionali come Cassa Depositi e Prestiti, a tassi altrettanto vantaggiosi e con scadenze a lungo termine;

c) il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che attiverà complessivamente 240 miliardi (per l’Italia fino a 36 miliardi), senza condizioni solo se i soldi richiesti saranno indirizzati alla spese per far fronte, direttamente o indirettamente, all’emergenza sanitaria. Ma con tutte le condizionalità usualmente previste dal Mes, al momento del rimborso.

Per quanto riguarda gli eurobond se ne riparlerà dentro la generica voce “strumenti innovativi di finanziamento” messa in calce all’accordo.

In attesa di vedere nel dettaglio i termini concreti dell’accordo, possiamo già dire che “il pasto non è gratis” e che gli strumenti messi in campo sono tutti interni alla trappola del debito, sul mantenimento della quale i litigiosissimi partner europei non hanno mai avuto alcuno screzio. Cambiano i nomi degli strumenti ma la sostanza rimane: è tutto debito da ripagare.

Si poteva fare altrimenti nel contesto dato? La risposta è sicuramente sì, ma con il pericolosissimo effetto collaterale di mettere a nudo l’ideologia liberista e il suo castello di carte.

Si poteva e doveva pretendere che le risorse fossero messe a disposizione dalla Bce in diverse forme.

La prima delle quali è inserita nell’art. 123, comma 2, del Trattato istitutivo dell’Unione europea, che permette alla Bce di finanziare direttamente istituti creditizi pubblici: cosa impediva di istituire un fondo pubblico europeo di emergenza sanitaria, chiedendo il finanziamento diretto della Banca centrale europea?

Inoltre, invocando le categorie giuridiche dello “stato di necessità”, del “cambiamento fondamentale delle circostanze” e della “causa di forza maggiore” (art. 25 della Commissione Onu del diritto internazionale) si sarebbe potuto chiedere la garanzia della Bce sui debiti pubblici nazionali, sospendendo il pagamento degli interessi (60 miliardi/anno per l’Italia) per i prossimi tre anni.

O, ancora, si poteva pretendere dalla Bce di esercitare, per un periodo di almeno tre anni, il ruolo di banca centrale pubblica, comprando direttamente i titoli di stato emessi dai paesi per far fronte all’emergenza sanitaria, sociale ed economica.

Tutte misure che avrebbero avuto il grande pregio di liberare molte più risorse di quelle, tremendamente insufficienti, oggi messe a disposizione, e soprattutto senza alcun aggravamento dei debiti pubblici degli Stati.

Tutte misure neppure ipotizzate dalle oligarchie europee e nazionali, perché avrebbero avuto il grande pregio di smascherare la trappola ideologica del debito e dei vincoli di Maastricht.

É giunto il momento di riappropriarsi collettivamente dell’economia, per impedirle di continuare ad essere l’econo-loro.

 

Articolo apparso sul sito di Attac-Italia