ROMA

«Trattati come fossimo un’azienda». L’incredibile storia del teatro autogestito Rialto

Sulla base di un singolo verbale della Guardia di finanza lo spazio sociale, sede di sperimentazione artistica e musicale fino al 2015, è stato considerato una società di capitali. Così ai cinque soci fondatori del circolo Arci che lo gestiva è arrivata una cartella esattoriale di 183mila euro. Più altri 10mila a testa. Un’altra tappa della persecuzione delle realtà che hanno immaginato e costruito una Roma diversa

Graziano Graziani è scrittore e critico teatrale. Ha partecipato all’esperienza di autogestione del Rialto di Sant’Ambrogio, teatro occupato nel 1999, assegnato nel 2000 dal Comune di Roma e attivo fino al 2009. Nel 2014, insieme ad altre quattro persone, ha contribuito alla riapertura dello spazio culturale, stavolta come circolo Arci. Ieri ha pubblicato una “Lettera importante per tutti quelli che a Roma sono passati al Rialto” sul sito minimaetmoralia per denunciare che l’agenzia delle entrate ha aperto nei loro confronti una cartella esattoriale di 183mila euro. «Sulla base di un singolo verbale della Guardia di finanza hanno deciso di considerarci come una società a scopo di lucro e non come un’associazione che faceva cultura», racconta.

 

Cosa è successo?

Il Rialto fa parte di quelle associazioni romane assegnatarie di spazi pubblici che hanno ricevuto la richiesta di pagare l’affitto a canone di mercato all’epoca di Tronca. Parliamo di circa 3 milioni di euro, che comprendono però anche il piano superiore del palazzo, dove avevano sede il Coordinamento romano per l’acqua pubblica e il Circolo Gianni Bosio. Quella vicenda per ora è congelata. A dicembre scorso ne è venuta fuori un’altra. Quando nel 2014 il Rialto riaprì, subì dei controlli ai quali l’associazione cercò di mettere una pezza. Iniziarono ad arrivare tutta una serie di ispezioni dell’ispettorato del lavoro, dei vigili del fuoco, etc. come se fosse un locale. Trovarono alcune irregolarità, tipo che non c’era l’agibilità, o mancava un’uscita di sicurezza, o il passamano della scala era troppo basso. Tutte cose che i ragazzi che si occupavano della parte musicale stavano risolvendo, confrontandosi con gli uffici competenti e trovando delle soluzioni. C’era comunque una sorta di dialogo con le istituzioni. Un giorno però arrivò un’ispezione della Guardia di finanza che trovò alcune persone senza tessera e delle irregolarità tutto sommato normali per quel tipo di esperienza (e delle quali l’associazione avrebbe volentieri risposto, se ci fosse stata la possibilità). Fecero un verbale, che non fu consegnato subito. Successivamente, le persone che avevano costituito il circolo Arci, furono chiamate per un interrogatorio nel quale hanno raccontato quello che sapevano. Io, ad esempio, avevo solo un ruolo di coordinamento di circa 50 compagnie teatrali tra residenti e supporter del progetto e non ho quindi raccontato tutta l’esperienza collettiva. Dopo la chiusura dello spazio è arrivato un verbale di contestazione in cui, sulla base di quella singola ispezione in cui avevano trovato un tot di casse di birra e di bottiglie in quello che era il bar che apriva durante i concerti, hanno ipotizzato la vendita di drink con ricarichi del 500%, con costi da night club. Una politica di prezzi lontanissima da quella praticata dall’associazione. Hanno fatto una sorta di calcolo loro, immaginando un volume d’affari tutto sulla carta di circa 300mila euro l’anno e hanno presentato questo verbale. Fino a Natale scorso, la cosa si è arenata. Poi, a pochi giorni dalla prescrizione e a cinque anni dalla chiusura dello spazio, l’agenzia delle entrate ha parzialmente accolto il verbale, soprattutto nella parte in cui sostiene che il circolo Arci non si poteva avvalere del regime di vantaggio delle associazioni perché più del 50% delle attività andavano considerate commerciali. Fai conto che in questo verbale non hanno minimamente tenuto conto del teatro, né dei saggi aperti né delle prove teatrali che si svolgevano dalla mattina alla sera contemporaneamente in quattro spazi, né delle mostre e di tutto il resto dell’attività culturale. Hanno soltanto citato la musica come forma di discoteca, non parlando neanche dei concerti, e il bar. Così è risultato che oltre il 70% delle attività erano di natura commerciale e quindi hanno ricalcolato tutto come fossimo una società di capitali. Di questi 180mila che ci hanno affibbiato, 60mila sono di Irap. L’Irap è l’imposta delle imprese che ovviamente paghi se hai un regime d’impresa, non se hai un’associazione. Lo stesso vale per l’Iva, che si è gonfiata tantissimo perché con l’associazione c’era un regime particolare, cioè non la paghi e non la scarichi, mentre con la società di capitali è tutto diverso. Questa cifra è molto cresciuta anche perché è arrivato tutto con sei anni di ritardo, quindi con interessi e rivalutazioni.

 

A chi hanno addebitato questa richiesta di soldi?

Nel momento in cui la Guardia di finanza ha fatto decadere l’associazione, sulla base del fatto che il circolo Arci non esisteva perché non aveva diritto a quel regime fiscale, hanno preso i nomi dei soci fondatori di quella entità e hanno creato una società a loro intestata a cui comminare la multa. Pertanto siamo tutti responsabili in solido. Questa cosa ha prodotto non solo le cartelle esattoriali per la società immaginaria, che poi sarebbe l’associazione, ma anche cartelle esattoriali personali nostre. Perché hanno pensato che quella società si sia staccata delle cedole nella misura del tot per cento per ognuno e quindi hanno ricalcolato tutte le nostre dichiarazioni dei redditi del 2014 sulla base di quel reddito non dichiarato, immaginato da loro. Così abbiamo altri 10mila euro a testa di cartella da pagare personalmente. Su questo forse si può fare contestazione. Sul resto gli avvocati ci hanno sconsigliato.

 

Perché?

Essendo una cartella esattoriale e non una cifra calcolata dal comune, nel momento in cui tratti con la controparte la cifra si dimezza. La cartella è fatta in un modo tale per cui loro ti calcolano tutta una serie di aggravi, per cui se vai a processo ed eserciti il tuo diritto al ricorso rispondi di 183mila euro. Se tratti, invece, ti tolgono gli aggravi e si parte da 100mila. Però questo solo se aderisci alla loro versione dei fatti, se la contesti la cifra torna 183 e vai a processo su quello. Gli avvocati che abbiamo contattato, tributaristi perché si va in commissione tributaria, ci hanno detto che il costo del processo è molto alto (credo circa 30 mila euro tra legali, bolli e tutto il resto). Per quella via puoi ottenere uno sconto minore che con la trattativa. Quindi puntano a contestare una parte del verbale, che è fatto abbastanza male, con errori grossolani, anche perché in parte è inventato di sana pianta. Diciamo che se partendo da 100mila se ne abbattesse la metà, magari organizzando delle iniziative e raccogliendo del sostegno si potrebbe trovare una formula per cui non avremo dei debiti per tutta la vita. A processo questa possibilità sarebbe molto più concreta.

 

Cos’era davvero il Rialto?

Ti parlo in primis della parte che conosco meglio, quella teatrale. Per il teatro il Rialto è stato un riferimento centrale a Roma per tutti gli anni Duemila e in parte per i Dieci, fino a quando ha chiuso. Essendo una vecchia scuola aveva delle aule che non erano molto adatte a fare attività rivolte al pubblico. Venivano utilizzate magari per delle mostre di fotografia o arte contemporanea. Quando erano vuote venivano usate come sale prova che lo spazio metteva a disposizione degli artisti romani. Questo ha fatto sì che si creasse una residenza artistica ante litteram. Fai conto che oggi, ma solo da un paio d’anni, il ministero riconosce come intervento del pubblico sul mondo artistico le residenze, cioè dei luoghi che permettono di creare senza cacciare i soldi di tasca propria. Perché altrimenti la creazione artistica deve stare alle regole del mercato, devi affittare una sala e puoi pagarla solo se produci tanto. Questo concetto di residenza è stato centrale, tanto è vero che al Rialto sono passati una serie di artisti importanti. Qualcuno è anche diventato famoso. Non so… Michele Riondino, che veniva con la compagnia di Circo Bordeaux. E poi tutta una serie di protagonisti del teatro di oggi, da Daria De Florian, a Daniele Timpano a Massimiliano Civica all’attuale direttore del teatro di Roma Giorgio Barberio Corsetti. Il Rialto era proprio un luogo che mancava in città. In altre capitali europee ne esistono di simili e sono pubblici. Spesso le accademie o i teatri pubblici hanno servizi di questo tipo. Tanto è vero che il Rialto aveva un dialogo istituzionale costante con il Teatro di Roma, o con il Romaeuropa Festival, non direttamente come associazione ma sulla produzione degli eventi teatrali. Molti artisti producevano da noi abbattendo i costi, visto che era uno spazio pubblico e quindi non si chiedevano affitti, poi restituivano qualcosa con produzioni che diventavano di dominio pubblico. Poi era anche uno spazio in cui accogliere le cose che venivano da fuori Roma, dove un problema generale è quello che alle piccole compagnie (quelle giovani o più sperimentali) viene richiesto un affitto per andare in scena, oppure devono rivolgersi ad istituzioni pubbliche molto grosse che non li accolgono. Per cui il contemporaneo, i debutti, i giovani sconosciuti, gli spettacoli più sperimentali difficilmente trovano spazio. Soprattutto in quegli anni. Quindi il Rialto è stato una vetrina per queste esperienze.

 

E oltre al teatro?

C’era poi tutta la parte legata alla musica, di cui si occupavano altri. Ci sono state rassegne quasi permanenti di jazz contemporaneo e altri tipi di musica contemporanea sperimentale. Lo spazio era abitato da artisti che suonavano un po’ dappertutto. È un aspetto che non so raccontarti bene, ma era molto forte. C’era poi la musica elettronica e le serate che hanno dato origine alla contestazione. Anche se devo dire che le serate grosse facevano parte più della storia precedente, di prima che venisse chiuso nel 2009 e di prima del circolo Arci. Nella seconda fase, tra 2014 e 2015, quando il Rialto riaprì era molto a scarto ridotto. A maggior ragione questi provvedimenti non si giustificano, non parliamo di eventi magari grandi come quelli che si potevano fare all’inizio dei Duemila. Era tutto molto più soft, molto più live. Il live è un evento culturale o commerciale? È da qui che non si esce perché per loro è tutto commerciale, qualunque cosa fai.