Tortura, Italia, Europa

Sullo stato del diritto e delle carceri.

Patrizio Gonnella è il presidente dell’associaizone Antigone che si occupa di diritti dei detenuti e di carcere, da poco è uscito per DeriveApprodi il suo nuovo libro “La tortura in Italia” (qui la nostra recensione). Con questo intervento prosegue il dibattito su DinamoPress attorno ai temi della giustizia e del carcere, per un nuovo garantismo.

L’Italia lo scorso 8 gennaio è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani con una sentenza epocale, per almeno tre di ragioni. Si tratta di una sentenza pilota da cui si evince che il degrado delle condizioni di vita nelle carceri italiane non è episodico ma è sistemico, globale, strutturale. Non riguarda solo il carcere di Piacenza o Busto Arsizio, da dove provenivano i detenuti ricorrenti, ma riguarda l’intero sistema penitenziario italiano nel quale ben difficilmente si riesce ad assicurare lo spazio minimo vitale – 3 metri quadri a persona – sotto il quale per la Corte vi è sempre violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani del 1950, che vieta i trattamenti inumani e degradanti.

L’articolo 3 è lo stesso articolo che proibisce la tortura, reato mai codificato nel nostro ordinamento giuridico. Il secondo motivo per cui mi sentirei di definire epocale la sentenza sta nel congruo risarcimento imposto alle autorità italiane, ovvero circa 100 mila euro. Violare i diritti umani, oltre che indegno, diventa anche oneroso, e poco giustificabile ai tempi delle vacche magre. Il terzo motivo sta negli esiti politici della sentenza della Corte che ha dato un anno di tempo alle autorità italiane per tornare alla legalità internazionale e interna, ovvero per contenere il sovraffollamento (oggi vi sono 66 mila detenuti per meno di 45 mila posti letto) e assicurare i diritti previsti nella legge. Siamo all’indomani delle elezioni. Se mai dovesse nascere un governo di scopo, uno degli scopi dovrebbe essere proprio questo, ovvero il rispetto della legalità penitenziaria e l’abbandono del paradigma punitivo e proibizionista. Nelle galere più che in qualsiasi altro luogo deve essere forte e inequivocabile il messaggio di legalità, per la sua forza simbolica e dirompente in termini di chance di recupero sociale. Il sovraffollamento e le illegalità nelle carceri non sono una calamità naturale. Sono il frutto di ben precise politiche penali, penitenziarie e sociali. Le azioni del legislatore e della amministrazione pubblica devono essere coerenti ai dettami degli articoli 13 e 27 della nostra Carta Costituzionale, che definiscono in modo inequivoco i contenuti e la funzione della pena, mai arbitraria o degradante e sempre tendente alla risocializzazione. Un sistema penitenziario legale deve contenere tanti detenuti quanti sono i posti letto regolamentari. Vanno selezionati i crimini che richiedono quale sanzione irrinunciabile la pena detentiva, vanno indagate le statistiche di polizia, giudiziarie e penitenziarie per capire come si evolve e orienta l’azione repressiva e quindi quale sia la portata dei reati da depenalizzare, va verificato numericamente l’impatto della recidiva e della custodia cautelare, va accertato quanto conti la difesa tecnica nel passaggio dal carcere per i meno garantiti. Solo dopo aver studiato gli effetti reali delle norme vigenti, dati alla mano potranno essere apportati i necessari aggiustamenti legislativi. In questo modo con sufficiente certezza sarà prevedibile il numero di ingressi nel sistema carcerario e potranno essere di conseguenza adottate le opportune soluzioni edilizie tenendo conto che a ogni detenuto devono essere assicurati almeno quattro metri quadri se recluso in cella multipla e sette metri quadri se ristretto in cella singola. Questi sono gli standard minimi europei che devono essere obbligatoriamente rispettati. In caso negativo, nessuno dovrà entrare in cella. Il numero chiuso nelle carceri deve diventare una ipotesi di lavoro.

Va sempre ricordato che la madre della questione carceraria è il codice penale. Il nostro codice (Rocco) risale al periodo fascista e risente di quella origine storica nella selezione dei reati e delle pene. Va prevista la possibilità di comminare sin dal giudizio di cognizione sanzioni diverse rispetto alla pena detentiva, a cui va restituita una sua natura residuale. Vanno introdotte per gli autori di fatti di reato non gravi sanzioni pecuniarie (commisurate al reddito), interdittive (detenzione domiciliare, esclusione da incarichi pubblici) e prescrittive (lavori socialmente utili nei fine settimana) diverse dalla pena detentiva. Oggi accade che una persona condannata per reati non incidenti sulla sicurezza collettiva e non lesivi dell’integrità psico-fisica della persona (principalmente legati al consumo di droga e allo status di immigrato irregolare) vada a finire in carcere, sconti un periodo breve di detenzione, esca usufruendo di misure premiali o riduzioni di pena. In questo modo nessuno ci guadagna e la pena perde di senso: la persona condannata è immessa in un circuito deviante e penitenziario che non ha alcun effetto di recupero sociale, lo Stato perde soldi senza guadagnare in sicurezza, il sistema penitenziario si affolla di persone per le quali è ben difficile pensare a progetti di reintegrazione sociale vista la durata breve della pena e la assenza di pericolosità. Una volta riscritta e approvata la riforma della parte generale del codice penale si dovrà riscrivere anche la parte speciale, selezionando i crimini da colpire e quelli da depenalizzare, rivedendo le pene, i massimi e i minimi edittali. Per deflazionare il sistema penitenziario è necessario intervenire in modo drastico sulle tre leggi che producono – senza benefici per la sicurezza collettiva – i maggiori flussi di ingressi in carcere: la legge ex-Cirielli, la legge Fini-Giovanardi, la legge Bossi-Fini.

La legge ex Cirielli, diventata famosa come “legge salva-Previti”, non soltanto ha ridotto i termini di prescrizione di alcuni reati appositamente selezionati nel nome della giustizia doppia e selettiva, ma ha dato nuova forma alla figura giuridica del “recidivo” nonché costruito ex novo la figura del “recidivo reiterato”. Vanno pertanto abrogate quelle disposizioni che prevedono per i recidivi aumenti di pena nel giudizio di cognizione e restrizioni nella concessione di benefici penitenziari. Le statistiche criminali ci dicono che il recidivo tipo è colui che vive di piccoli espedienti, consumatore non occasionale di droghe, immigrato irregolare che entra nel circuito vizioso carcere-Centro di espulsione e identificazione per stranieri-carcere. Il diritto penale deve tornare a essere un diritto penale che giudica i fatti e non i rei. Un colletto bianco non sarà mai recidivo reiterato in quanto ha gli strumenti economici e sociali per interrompere la sua storia deviante di fronte al primo intoppo giudiziario. Abrogando le disposizioni sulla recidiva introdotte nel 2005 si tornerebbe alla disciplina previgente e si faciliterebbe la utilizzazione di strumenti di recupero terapeutico per quei tossicodipendenti che finiscono in carcere per aver violato la legge Fini-Giovanardi, indebitamente approvata nel 2006 con un colpo di mano in occasione della discussione parlamentare sulla legge in materia di sicurezza per le Olimpiadi invernali di Torino. Si tratta di circa diecimila persone, attualmente in carcere, che in considerazione del ravvicinato fine pena potrebbero così avere l’opportunità di un affidamento terapeutico presso i servizi pubblici delle tossicodipendenze o presso le comunità di recupero. Al fine di contenere il numero di persone tossicodipendenti presenti in carcere (in Italia la legge sulle droghe produce tassi di detenzione doppi rispetto alla media europea) va completamente rivisto l’impianto ideologico della legge Fini-Giovanardi muovendosi verso una progressiva totale depenalizzazione delle pratiche di consumo e contestuale estensione delle politiche pubbliche di riduzione del danno. In particolare: vanno ridefinite le tabelle ministeriali relative ai quantitativi riferibili all’uso personale (oggi generose per i cocainomani e severe per i consumatori di hashish e marijuana); va decriminalizzato l’uso personale; va prevista una fattispecie autonoma di reato nel caso di spaccio di minime quantità; vanno drasticamente ridotte le pene per lo spaccio di droghe leggere; va rimosso il limite a due concessioni dell’affidamento terapeutico per i tossicodipendenti (tutto ciò in vista dell’estensione di percorsi riabilitativi alternativi al carcere per i quali è necessario un forte impegno degli enti locali); vanno profondamente divaricati i destini dei narco-trafficanti da quelli dei consumatori abituali o occasionali.

Oggi la detenzione è principalmente una detenzione sociale. Per rendersene conto basta guardare alla composizione etnica della popolazione reclusa. Il 37% dei detenuti è oggi straniero. In piena osservanza delle disposizioni normative e giudiziarie europee va completamente depenalizzato lo status di immigrato che soggiorna irregolarmente nel nostro Paese. Va assicurata la predisposizione di percorsi utili a garantire la applicazione delle misure alternative anche nei confronti degli immigrati condannati. Tutto questo è il cuore di tre proposte di legge di iniziativa popolare che Antigone ha messo in piedi insieme ad altre venti organizzazioni. Se mai dovesse nascere un governo di scopo, sarebbe un crimine non tenerle in considerazione.