Sulla tortura

Recensione all’ultimo libro di Patrizio Gonnella “La tortura in Italia”

L’istruttivo testo di Patrizio Gonnella appena in libreria (La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, Derive Approdi, pref. di E. Resta e postfazione di M. De Palma) si articola in un’introduzione e 28 voci – da Dignità umana a Sovranità – lungo il cui percorso si snodano tutte le figure della tortura e dei suoi usi nell’unico paese europeo che tenacemente rifiuta di assumere il reato relativo nel proprio Codice. La tortura non è semplicemente un trattamento crudele, degradante o efferato quale può riscontrarsi in relazioni individuali o in episodi bellici o criminali, neppure qualsiasi violenza fine a se stessa, ma una precisa fattispecie, imputabile soltanto a rappresentanti di uno Stato o privati che agiscono in suo nome. Essa si caratterizza per essere mezzo per uno scopo ulteriore consistente (al di là delle variante investigative, punitive o terrorizzanti) nell’azzerare il bene giuridico della dignità umana, ovvero l’umanità per cui ogni persona è kantianamente fine in sé e non mezzo, cosa.

Tale tortura si verifica non solo quando un singolo o una squadretta “si prende cura” di un singolo detenuto affidato alla custodia dello Stato in deroga a ogni legge o regolamento giudiziario e carcerario, ma anche quando la legge crea o tollera esplicitamente situazioni di degrado e punizione collettiva: qui Gonnella esemplifica con l’art. 41 bis, l’arresto obbligatorio di consumatori di sostanze stupefacenti e migranti clandestini, ma anche l’esclusione dei recidivi dai benefici carcerari o stati di fatto quali il sovraffollamento delle carceri, di recente condannato dalla Corte europea o che in altri paesi porta alla scarcerazione automatica dei detenuti in soprannumero. Tortura – proprio per il suo investire e lacerare la dignità prima ancora che il corpo – non significa solo percosse, waterboarding o altre modalità fisiche (pur non ignote, dal sequestro Dozier a Bolzaneto e mille episodi “minori”, che non fanno notizia se non quando la vittima ci lascia la pelle, e spesso neanche allora), ma pure un insieme di pratiche discrezionali che imperano nei nostri carceri e consentono ai “superiori” di perseguitare reclusi riottosi e invisi con inasprimenti detentivi e avara amministrazione di diritti quasi fossero privilegi. Si tratta, insomma, di abuso a fini punitivi di una posizione di potere, nel buio e nel silenzio della reclusione, al riparo da sguardi indiscreti e contando sulla solidarietà di corpo e la complice indifferenza di dirigenti e magistrati che dovrebbe sorvegliare. In questione non è il sadismo individuale (che spesso compensa un ruolo malpagato e disprezzato) ma, per così dire, il sadismo di Stato, il programmato culto dell’autorità e della sicurezza, che ha bisogno di esibire periodicamente delle vittime, per dare un esempio e mantenere la sottomissione. Pensiamo, per citare una vicenda recente che ovviamente il libro non ha potuto prendere in considerazione, le foto di quattro “sovversivi” indagati e vistosamente tumefatti, che la polizia greca ha diffuso a deliberato ammonimento dei facinorosi. Oppure al valore esemplare che esibire e non solo praticare la tortura assume in un suo film pensosamente ma sostanzialmente apologetico come Zero Dark Thirty di Katryn Bigelow, dedicato alla spremitura-degradazione dei prigionieri per giungere a sopprimere Bin Laden.

Si spiega così la riluttanza del Parlamento italiano, con maggioranze di centro-sinistra o di centro-destra, a inserire nel Codice nazionale la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, pur ratificata nel novembre 1988, mentre per paradosso sono vietati i maltrattamenti degli animali. Un vuoto che dura da 23 anni, dal primo disegno di legge in materia. Non si tratta di trascuratezza o indifferenza, bensì di malintesa riaffermazione della sovranità nazionale – abbandonata o storicamente compromessa a livello politico ed economico – proprio sul terreno più arretrato. Di più: in questo rifiuto di adeguazione alla norma sovranazionale agisce l’identificazione profonda di poliziotto e Stato, in quanto il primo assicura la ragion di vita del secondo. Intendendo poliziotto in senso lato, perché «la sua entificazione è fatta propria anche dal magistrato, nel nome della sovranità intangibile e illimitata del potere punitivo». Al di là delle solidarietà fra appartenenti alla categoria dei pubblici ufficiali, la mancata configurazione giuridica della tortura implica che le lesioni della vittima (unico reato riconosciuto) spesso non siano procedibili d’ufficio (se inferiori a 20 giorni di degenza) e dunque restino affidate alla (rischiosa) denuncia del detenuto che, anche nei casi di procedimento d’ufficio, nel frattempo rimane comunque sottoposto al controllo del seviziatore o dei suoi colleghi. Inoltre il reato di lesione ha una prescrizione abbastanza rapida, per cui sfugge alla lenta macchina giudiziaria, come è avvenuto nei casi Diaz e Bolzaneto, quando la Cassazione ha potuto in pratica sanzionare gli alti gradi della polizia soltanto con la decadenza dai pubblici uffici, lamentando appunto l’assenza del reato di tortura. La compensazione delle lesioni del cittadino con l’offesa e oltraggio a pubblico ufficiale (quest’ultima una specialità italiana, prima abolita poi reintrodotta nell’ordinamento) completa –nel carcere, negli stadi, nelle manifestazioni– la sostanziale impunità del meccanismo vessatorio, tutelando la gerarchia dei rapporti sociali. Aggiungiamo, fuori del carcere ma all’interno del meccanismo di arresto e “trattamento”, la non riconoscibilità dei torturatori, che in Italia sono privi di nome o numero identificativo – un problema spesso sollevato anche in occasione degli scontri di piazza, anticamera di arresti e sevizie

.

Con questo libro e prima ancora con la sua attività di presidente della benemerita associazione Antigone, P. Gonnella offre un contributo prezioso, in controtendenza all’imperante populismo penale che a destra e al centro pretende di tenere a bada il disagio sociale con un sovraccarico di criminalizzazione o si illude, in varie sfumature della sinistra, di combattere la corruzione con la retorica manettara e una restrizione del garantismo. Che posizioni del genere, nonché frotte di magistrati e operatori della sicurezza, trovino spazio anche in liste che si pretendono alternative è indice inquietante di cosa possa diventare la “società civile”: dopo averla mitizzata, bisogna anche «difendere la società»? No, grazie.