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«The Bubble»: prove di NBA tra Covid e Black Lives Matters

Dopo 142 giorni dall’improvvisa interruzione, la NBA venerdì 31 luglio, ha ripreso il campionato all’insegna della pandemia globale, che non accenna a fermarsi, e del movimento Black Lives Matters, da cui è stata travolta

Lo scorso 11 marzo Rudy Gobert, giocatore francese degli Utah Jazz, poco prima della partita contro gli Oklahoma City Thunder, è stato trovato positivo al COVID-19, primo caso registrato in NBA che ne ha causato l’immediata sospensione (prima lega sportiva americana a farlo); poco più di due mesi dopo, il 25 maggio, l’agente della Polizia di Minneapolis Derek Chauvin, uccide l’afroamericano George Floyd, strangolandolo premendogli il ginocchio contro il collo per 8 minuti e 46 secondi, dando il via al più grande momento antirazzista degli ultimi decenni. La stagione di NBA è ricominciata sotto il segno di questi due storici eventi.

L’opzione di cancellare il resto della stagione sia come forma di tutela nel mezzo di una pandemia globale sia come segno di rispetto e accoglimento delle istante del movimento BLM, è velocemente naufragata considerando l’enorme giro di soldi che ruota intorno alla lega, con un fatturato nell’ultimo anno di quasi 9 miliardi di dollari. Sponsor e sopratutto network televisivi non hanno avuto minimamente intenzione di rinunciare a contenuti per i quali hanno già pagato milioni e milioni in diritti, così come giocatori e fan non volevano rinunciare alla loro passione.

Sono stati mesi di lunghe riunioni e trattative tra i vari soggetti interessati: giocatori e allenatori, proprietari, network televisivi, autorità sanitarie locali e nazionali e la lega stessa per decidere in che modo ripartire. Secondo il dottor Anthony Fauci, l’unico modo per garantire la ripresa dei campionati sportivi garantendo la massima sicurezza, è quello di realizzare una “bolla” protetta dove isolare gli atleti, controllandoli e tutelandoli dal contagio.

Ed è così che nasce “The NBA Bubble”, realizzata all’interno del resort di Disney World ad Orlando in Florida dove 22 squadre (sulle 30 totali, torneremo su questa scelta) resteranno isolate per la restante parte della stagione, con le finali previste per ottobre. (Questo prolungato isolamento ha già espresso diverse note folkoristiche come il profilo twitter @NbaBubbleLife, o le voci di una snitchline per segnalare in maniera anonima comportamenti scorretti).

 

Quella che è stata l’unica scelta possibile nel bel mezzo di una pandemia globale si sta rivelando un laboratorio dove sperimentare novità su diversi fronti.

 

Dal punto di vista sanitario si tratta di una struttura complessa e avanzata: tutte le persone presenti all’interno della bolla (si parla di migliaia di persone tra squadre, giornalisti e chi fa funzionare la bolla) sono costantemente controllate e monitorate quotidianamente e i giocatori nello specifico (per i quali è impossibile mantenere la distanza sociale) sono sottoposti a regole rigide (oltre alla mascherina obbligatoria, restrizioni all’interazione, uscita dalla bolla per comprovati motivi) e dotati di strumenti medici high tech per garantirne la sicurezza.

L’assenza di contagi tra i giocatori, a differenza della Major League Baseball la cui bolla si è trasformata in un focolaio, rappresenta indubbiamente un successo per la “NBA Bubble” costata oltre 150 milioni di dollari. Rappresenta però anche ancora una volta le abbaglianti contraddizioni del capitalismo neoliberista che fa coeseistere il luogo più sicuro d’America all’interno di uno degli stati maggiormente colpiti dalla pandemia, la Florida, con un picco di oltre mezzo milione di contagi e novemila morti dovuti anche alla terribile gestione del governatore repubblicano Ron Desantis.

Se la salute della gente sembra sempre meno un diritto universale e più un prodotto da vendere e consumare, lo sport è molto più avanti nel processo: garantita la salute a tutt* è il momento di parlare di sport, quindi di profitti. Ha fatto molto discutere la scelta di invitare di 22 squadre, permettendo così un maggior numero di partite e dirette televisie (una manciata di stagione regolare in più e la novità dei “play in” per decidere l’ultima qualificata ai playoff) invece di sole 16, giocando quindi solo i playoff riducendo il periodo di isolamento e il numero di persone coinvolte, così come faranno discutere le sperimentazione dei fan virtuali e dell’intelligenza artificiale per sopperire alla mancanza di pubblico.

Diversi giocatori hanno però deciso di non entrare nella bolla, chi per non dover giocare inutili partite nel bel mezzo di una pandemia chi perché a disagio nel riprendere a giocare durante una trasversale e potente richiesta di giustizia. Per la NBA è stato necessario infatti, oltre ad uno sforzo nel tenere il COVID-19 fuori dalla bolla, anche un serio e determinato impegno nel portare BLACK LIVES MATTERS dentro la bolla.

Nei mesi precedenti i giocatori hanno dato prova di grande sensibilità mettendosi in campo in prima persona e la messa a disposizione della NBA per le rivendicazioni del movimento è stata condizione fondamentale per la ripartenza con lunghe trattative tra la NBPA (associazione di categoria dei giocatori) e i vertici della lega. Grazie allo sforzo dei giocatori in questo finale di campionato vedremo, oltre ai fan virtuali, la scritta BLACK LIVES MATTERS impressa su ogni campo e ogni maglietta e dei messaggi di giustizia sociale sul retro delle maglie dei giocatori al posto del cognome. La NBA stessa promette inoltre seri impegni duraturi nel combattere il razzismo.

 

 

Si tratta di novità per certi aspetti rivoluzionari nel mondo dello sport ma che non tolgono quel senso di “gentile concessione” da parte di chi detiene il potere. Questo sembra sottolineare l’ultima frase del vide promo “the truth is that black lives matter” (come se fosse una qualche verità scomoda da confessare) e la previa approvazione della lista dei messaggi di giustizia sociale da inserire sulle maglie:

Black Lives Matter; Say Their Names; Vote; I Can’t Breathe; Justice; Peace; Equality; Freedom; Enough; Power to the People; Justice Now; Say Her Name; Sí Se Puede (Yes We Can); Liberation; See Us; Hear Us; Respect Us; Love Us; Listen; Listen to Us; Stand Up; Ally; Anti-Racist; I Am A Man; Speak Up; How Many More; Group Economics; Education Reform; e Mentor.

La scelta di Jimmy Butler dei Miami Heat di giocare con una maglia senza nome e messaggi sociali, un gesto politico per sottolineare come l’invisibilità e i rischi delle persone afroamericane, non è infatti piaciuta alla NBA che ha costretto il giocatore a cambiarla.  Altri invece hanno espresso il desiderio di lasciare il proprio nome come Lebron James il quale ha dichiarato “di non avere bisogno di messaggi sulla maglia per dimostrare il proprio impegno sociale”. James infatti ha infatti fondato insieme ad altri giocatori una organizzazione per garantire il diritto di voto nelle comunità afroamericane e/o a basso reddito (già si vocifera di un futuro ingresso in politica per un degli sportivi più popolari della sua generazione)

La NBA non ha potuto discutere però su altre iniziative messe in campo dai giocatori come la campagna per chiedere giustizia per Breonna Taylor e la libertà di comportamento (senza sanzioni) durate l’inno nazionale. Mentre e le colleghe della WNBA, all’inizio della stagione nella loro “bolla”, hanno scelto di lasciare il campo, i giocatori di NBA hanno invece deciso di inginocchiarsi in un gesto di unità rotto solo da 3 persone (2 giocatori e 1 allenatore hanno deciso di restare in piedi)

Oltre a queste iniziative corali di grande impatto mediatico continuano le numerose iniziative di solidarietà individuali come quelle di Kyrie Irving dei Brooklyn Nets che ha donato 1,5 milioni di dollari per sostenere economicamente le giocatrici della WNBA in difficoltà economica causa e Jrue Holiday dei New Orleans Pelicans che ha messo a disposizione il salario percepito nella bolla (oltre 5 milioni di dollari) per sostenere le attività commerciali afroamericane colpite pesantemente dalla crisi in corso; da segnalare inoltre l’incredibile storia di Maya Moore, star della WNBA che deciso di prendersi una pausa nel picco della sua carriera per impegnarsi anima e corpo nella battaglia per la liberazione di Jonathan Irons, ingiustamente incarcerato.

Questo perché, nonostante fama e ricchezza, molti giocatori afroamericani non dimenticano da dove provengono, la difficoltà e le ingiustizie che incontrato quotidianamente i membri delle loro comunità. Anche in questo caso il mondo dello sport rappresenta uno specchio della complessità del sistema e della società statunitensi, una società pervasa da diseguaglianze economiche e sociali, razzismo e sessismo. Se molta strada si sta facendo infatti sulla lotta al razzismo, il sessismo e le ‘molestie sono ancora un argomento tabù.

E’ di pochi giorni fa infatti l’ennesima accusa di molestie interna al mondo NBA, quando una donna ha denunciato molestie da parte di un membro della dirigenza dei Dallas Mavericks. La notizia, passata in sordina, è stata ferocemente smentita e si aggiunge alle purtroppo molte storie di violenze e abusi da parte di uomini coinvolti nella NBA (giocatori, staff e giornalisti). E sempre più urgente allargare l0roiizzonte approfondendo e rafforzando l’intreccio di lotte e vertenze, cosa che la NBA e la WNBA insieme possono provare a sperimentare. E continuare a a mettere a disposizione i propri privilegi per il cambiamento.

E alle critiche proveniente dall’etablishment bianco al comportamento dei giocatori, come lo stato di Oklahoma (quello del massacro di Tulsa) che ha intenzione danneggiare economicamente la squadra locale dei Thunder come ripercussione per le proteste durante l’inno, spesso basta rispondere come ha fatto Lebron James verso le critiche di Donal Trump “non c’è ne può importare di meno”.