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The best of 2022. Le serie TV

Nell’anno appena trascorso la serialità televisiva ha avuto un indiscusso protagonista: il lavoro. Dai ritmi infernali di The Bear e This is Going to Hurt alla corruzione in We Own This City, passando per critica ferocia delle corporation statunitensi di Severance. Ma anche le frodi e gli ambienti tossici delle imprese dei cosiddetti “unicorni” californiani in The Dropout, WeCrashed e Super Pumped. Ecco le serie TV del 2022 che abbiamo amato di più.

THE BEAR

di Christopher Storer (Hulu)

La gastromania regna sovrana sul piccolo schermo ormai da anni. Programmi che insegnano ricette, che mettono in competizione chef, che esplorano specialità culinarie di ogni angolo del mondo, che mettono alla berlina e/o ripuliscono cucine fuori norma. Sarebbe ingenuo pensare che The Bear, gemma seriale che si svolge quasi interamente tra le anguste e bisunte mura di un fast food di Chicago, non sia nato anche da (e in felice contrasto con) questa tendenza globale dell’intrattenimento televisivo: anche qui ci sono cuochi che si sbraitano addosso, giovani talenti in cerca di visibilità e ispezioni igieniche che mettono alle strette i gestori. La brillantezza del creatore Christopher Storer, proveniente dalla scuderia dell’ottima Ramy, sta nell’imbullonare su un’ambientazione arcinota, di cui gli schermi sono saturi, un (melo)dramma familiare poderoso e complesso, che sfonda la patina di placido e passivo voyeurismo gastronomico per trasformare la cucina in teatro di un’umana tragicommedia (in modi diversissimi tra loro, l’hanno fatto in questa annata anche due film: la satira grottesca The Menu e il dramma in pianosequenza Boiling Point). La storia di Carmy, chef stellato che torna al disastrato ovile della panineria di famiglia in seguito alla morte del fratello, è una parabola affilata che affonda in temi portanti del nostro contemporaneo, primo su tutti quello della responsabilità, declinato in molteplici aspetti: dal senso di colpa per il suicidio del fratello alla gestione di un locale sommerso dai debiti, passando per la complessa trama di rapporti interpersonali che struttura la poco piramidale e caotica cucina del The Beef, ristorante specializzato in sandwich stracolmi di carne. Storer, che dirige anche 5 degli 8 episodi, cala lo spettatore senza rete nell’atmosfera ribollente di tensioni, recriminazioni e rancori della cucina, dirigendo un ensemble di ottimi attori (Jeremy Allen White, da Shameless, è perfetto in ogni esasperato sguardo, ma non sono da meno i comprimari) con una regia al contempo muscolare ed elegante. Nota di merito per la colonna sonora, da Sufjan Stevens ai Radiohead, la migliore dell’anno. [Ilaria Feole]

THIS IS GOING TO HURT

di Adam Kay (Disney+)

La rottura della quarta parete è ormai così abusata dalla serialità da non avere più nulla di “dirompente”: da Malcolm a House of Cards, passando per le frecciatine di Fleabag, il protagonista che cerca la complicità dello spettatore è uno stratagemma ora lezioso ora efficace, quest’anno riesumato, a partire dal fumetto, anche dalla She-Hulk di Marvel su Disney+. Ne fa abbondante uso anche la splendida miniserie di Adam Kay, co-prodotta da AMC e BBC, dove il giovane ginecologo Adam si rivolge continuamente allo spettatore per sottolineare gli aspetti più demenziali del suo frenetico lavoro in un ospedale pubblico londinese, o solo per dire ad alta voce le perfidie che non può pronunciare davanti ai pazienti. La serie è tratta dal memoir dello stesso Kay, che si è lasciato alle spalle il passato da medico per dedicarsi alla scrittura, e la sua esperienza sul campo aggiunge un livello di realismo e di crudezza non abituali per un classico show medical, né tantomeno per una dramedy: intriso di sangue, liquido amniotico e humour britannico, lo show non (ci) risparmia nulla, scivolando come l’insonne Adam (un irresistibile Ben Whishaw) dalla corsia a un’altrettanto disastrata vita sentimentale. Ed è qui che si inserisce l’uso, non così scontato, della succitata rottura della quarta parete: lo spettatore è continuamente chiamato a condividere il punto di vista di Adam, la sua versione dei fatti, il suo senso di colpa per un errore professionale, i limiti della sua ambizione. L’adesione al suo sguardo è talmente coatta che anche il pubblico, insieme al protagonista, si ritrova sopraffatto dalle scoperte che giungono dal fuoricampo: la depressione di una collega, le bugie di una paziente, la possibilità di non essere fatto per quel mestiere. L’inadeguatezza è qualcosa che sbuca alle spalle, oltre i confini di campo inquadrato, oltre le certezze scodellate con sicumera: anche qui, come in The Bear, un ambiente lavorativo stressante è il luogo in cui testare le proprie competenze e responsabilità; anche qui, il tema del lavoro confligge con quello della ricerca identitaria, chiedendosi se è giusto, o anche solo possibile, coincidere col proprio mestiere. [Ilaria Feole]

ATLANTA 

di Donald Glover (FX)

Non poteva che finire con l’ambiguità di un’ultima scena alla Sopranos, Atlanta, visto che la confusione e il labile confine tra dimensione fantasmatica e realtà è stato da sempre il registro preferito della serie. Dopo la stagione più sperimentale e forse più riuscita – la seconda, del 2018 – e una pausa lunga quasi quattro anni, quest’anno la serie è tornata con le ultime due stagioni: una uscita a febbraio e l’altra a settembre. E già nella prima puntata, ambientata poi per la gran parte in Europa, il prologo si apriva con una storia horror surreale sul Lago Lanier, un lago artificiale alle porte di Atlanta creato da una diga che negli anni Cinquanta aveva sommerso una villaggio afro-americano segregato (portandosi via con sé anche alcuni anziani che si erano rifiutati di lasciare le loro case). E se questa scena iniziale flirtava con un registro ormai apertamente surreale, la cosa più perturbante era però proprio che si trattava di un fatto storico. Perché, se è vero come ha detto Donald Glover che Atlanta è come «David Lynch con i rapper», forse a essere lynchiano non è il racconto ma la realtà stessa della condizione afro-americana nell’America di oggi. Ed è per quello che la scelta di Atlanta è stata sempre quella di raccontarla non attraverso la sociologia ma tramite l’immaginario e i fantasmi (di cui queste due stagioni sono letteralmente piene, così come sono piene di paranoie, allucinazioni, deliri soggettivi e sociali). Glover l’aveva già capito dall’inizio della prima stagione (o da quel ringraziamento ai Migos di Bad and Boujee ai Golden Globe del 2017) che parlare della scena trap di Atlanta oggi non voleva dire parlare di quello che allora molti consideravano come l’espressione più deteriore di un hip-hop tutto money, drugsand bitches, ma che da lì, proprio da quelle canzoni di Migos, Future e Gucci Mane, poteva emergere l’inconscio politico dell’America nera di oggi, fatto di pulsione di morte, autodistruzione e crisi di identità. Parafrasando Nas si potrebbe dire che si tratta di un Atlanta state of mind, e infatti nella terza stagione Atlanta diventava il mondo “in generale” (poco importa che ci si trovi a Londra, Amsterdam, Budapest o Parigi) mentre nella quarta la metropoli della Georgia è ormai un luogo dell’inconscio, piena di cunicoli e di trappole, di sosia di personaggi famosi e di inganni percettivi, di parcheggi di mall labirintici senza uscita e soprattutto di una realtà che è ormai indistinguibile dal suo fantasma. [Pietro Bianchi]

THE WHITE LOTUS

di Mike White (HBO/Sky Atlantic)

Il sottotitolo di The White Lotus potrebbe essere: “I ricchi, gente strana”. Lo erano nella prima stagione, di cui abbiamo scritto nel best of dello scorso anno, lo sono anche in questa seconda. In questa, in realtà, sono anche più stronzi della prima. Siamo ancora in un resort di lusso, ma la location non potrebbe essere più diversa: dalle Hawaii la serie si è spostata a Taormina, con un’impeccabile Sabrina Impacciatore a dirigere il traffico e un cast di personaggi italiani non macchiette – per niente scontato, per una produzione straniera. Del pacchetto ospiti statunitensi del resort (che si chiama ancora White Lotus, naturalmente), solo un personaggio che ritorna – Tanya interpretata da Jennifer Coolidge –  e seguiamo poi le storie di due gruppi, una doppia coppia (probabilmente i personaggi che evolvono meglio nel corso della stagione) e tre maschi della stessa famiglia, figlio-padre-nonno, alla ricerca delle proprie radici, «I am Sicilian». Tutti statunitensi, tutti interessati a una vacanza orientalistica e che trattano la Sicilia come una qualunque meta X senza nessuna qualifica particolare. Questi interagiscono con altri stranieri o con i locali, che anche in questo seconda stagione fungono anche da oggetti sessuali – ma va detto, di sesso ce ne è molto in generale, spesso a braccetto con potere, inganno, soldi. Rispetto alla prima stagione è tutto meno scontato: nessuno parla come un libro scritto maluccio, la trama è più chiara e più complessa al tempo stesso, la variante dark più e meglio marcata. Il tappeto musicale, meno ossessivo e più puntellante, funziona benissimo, anche con moltissima musica italiana di successo e più ricercata. La parte comica, forse, regge un po’ meno. Cast notevolissimo, e nella versione originale c’è anche  la voce di Laura Dern, Un format insomma che migliora, e che ha potenziali applicazioni nei resort di mezzo mondo (già in cantiere la terza stagione, location ancora non annunciata). Del resto, ci saranno sempre degli americani stronzi desiderosi di vacanze costose senza provare a capire niente del posto dove sono. [Luca Peretti]

ESTERNO NOTTE

di Marco Bellocchio (Rai)

Non stupisce che Marco Bellocchio sia tornato ancora una volta, dopo il film del 2003, sull’evento del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro: si tratta forse di uno dei grandi rimossi della storia del dopoguerra italiano, che più diventa oggetto di studi, inchieste e speculazioni giornalistiche, e più sembra farsi sempre più opaco (così come il rimosso non può che tornare in modo sempre più insistente). Anche se tutto è conosciuto degli eventi di quella primavera del 1978, qualcosa – che forse non appartiene all’ordine degli eventi, ma a quello dei fantasmi e degli immaginari – sembra sempre sfuggire. Esterno notte infatti inizia con l’immagine di un fantasma – che richiama la celebre fine di Buongiorno, Notte: quello di Aldo Moro ancora vivo su un letto di ospedale, appena liberato dalle Brigate Rosse. Di fronte a lui Zaccagnini, Cossiga e Andreotti che lo guardano con un’aria tra lo smarrito e l’impaurito, e una domanda che implicitamente viene rimandata a noi spettatori: qual è stato il loro atteggiamento nei confronti del rapimento del Presidente della DC dell’epoca? Qual è stato il loro “desiderio”? Il fatto di aver anche solo inconsciamente desiderato che Aldo Moro fosse fatto fuori per via del suo tentativo mai davvero digerito dalla DC di formare un governo di unità nazionale con l’appoggio esterno del PCI, non li rende se non colpevoli quanto meno un po’ “oggettivamente” responsabili di quello che poi è successo? Mischiando Storia e storie individuali, Bellocchio ci mostra tutta una serie di sintomatologie individuali che indicano una formazione di compromesso di qualcosa di traumatico e irriducibile che rigettato nell’inconscio non può che riemergere nella forma di un ritorno del rimosso sul corpo: le macchie sulle mani di Cossiga, la sua ossessione per le intercettazioni o i suoi momenti di isolamento in una stanza ovattata, la crisi di vomito di Andreotti o la cintura di cilicio di Paolo VI. Sono proprio gli episodi che ci raccontano il caso Moro come un fantasma tutto interno alle stanze del potere quelli dove Bellocchio sembra trovare il registro più efficace di questa serie. Ed è proprio questo coté psicoanalitico (più che quello storico o politico) tanto caro al regista che lo mette al riparo da ogni teoria del complotto che è sempre in agguato quando si parla di Moro (come dice l’uomo dei servizi americano, «dietro alle BR non c’è nessuno. Siete voi italiani che avete sempre bisogno di cercare delle spiegazioni recondite e nascoste») e che riesce a restituire l’evento in tutta la sua traumaticità soggettiva, a un tempo collettiva e individuale. [Pietro Bianchi]

WE OWN THIS CITY

di George Pelecanos e David Simon (HBO)

Nessuno nel panorama televisivo ha affrontato la violenza strutturale nelle sue diverse forme come David Simon, da The Wire, passando per Treme, Show Me a Hero e The Deuce, fino a We Own This City. Un aspetto meno celebrato della sua produzione è il funzionamento quotidiano di quei grandi ingranaggi che sono le istituzioni ed è proprio questo il focus del suo ultimo lavoro. We Own This City parte dallo scandalo legato alla Gun Trace Task Force di Baltimora, unità speciale creata con l’unico obiettivo di sequestrare armi da fuoco, che, lasciata libera di agire viste le altissime percentuali di armi confiscate, si impose per le strade della città con modalità criminali. La brutalità è tuttavia solo una parte del puzzle narrativo, We Own This City infatti racconta come a partire dalla “War on Drugs” inaugurata da Ronald Reagan, alcuni dei vizi strutturali dell’istituzione poliziesca abbiano avvelenato lo svolgimento quotidiano di dipartimenti apparentemente slegati da quelli legati al narcotraffico, portando a conseguenze pratiche come l’impossibilità di trovare testimoni per gli omicidi o quella di trovare persone con i requisiti necessari per far parte di una giuria. Simon è da sempre più interessato all’ordinario che allo straordinario (un meraviglioso saggio di questa posizione è l’ultima stagione di The Wire, con il suo focus sul lavoro redazionale di un quotidiano di Baltimora) e anche in una città dove la violenza della polizia è una piaga pluridecennale, con l’omicidio di Freddie Gray e la furiosa risposta della cittadinanza a prendersi le cronache nel 2015, decide di guardare le zone opache del quotidiano, delle atrofizzazioni istituzionali e il deficit di democrazia che queste comportano. [Jacopo Favi]

EUPHORIA

di Sam Levinson (HBO)

Le tematiche su cui la quasi totalità dei teen drama vuole oggi far leva sono ansia sociale, malattia mentale, questioni legate alla sfera sessuale o della disabilità, alla proliferazione di schermi e immagini: rappresentazioni del mondo dei giovani senz’altro meno rassicuranti ma sicuramente più efficaci e soprattutto inclusive, attraverso cui anche soggettività queer, trans, lesbiche e gay possono finalmente vedersi riconosciute. Ma dove si colloca Euphoria in questo vastissimo panorama? Prodotta da Hbo, Euphoria è un oggetto alieno. La tossicodipendenza di Rue è il filo conduttore di questo racconto in tre atti e la seconda stagione è la storia della sua ricaduta: ancora scossa dall’abbandono di Jules, Rue si dà a traffici di droga, rischia di avere un infarto dopo un cocktail di cocaina e anfetamine varie, non riesce a fermarsi né a guardarsi più intimamente; quando capita, ha reazioni spropositate, violente, tanto più con chi le sta vicino. E lo sguardo umanista di Levinson sta proprio in questo guardarla da lontano, in maniera circospetta e attenta, senza mai feticizzare o estetizzare il suo dolore: i suoi movimenti e l’incresparsi del volto guidano l’andirivieni della macchina da presa da una stanza all’altra della casa, nei corridoi di scuola, ma lo fanno anche i campi lunghi, le carrellate, le sequenze di corse a perdifiato. Tuttavia, nella seconda stagione di Euphoria, Lexi Howard/Maude Apatow è il personaggio che più fa sul serio. Da osservatrice passiva e silente, diviene il centro della narrazione: la messa in scena di un’opera teatrale che racconta la sua vita e quella dei suoi compagni e delle sue compagne diviene fondamentale per una più acuta presa di consapevolezza su di sé. Con un rocambolesco gioco di mise en abyme, la pièce che immagina ci fa capire, tra le tante cose, il senso del suo rapporto con la sorella e con Rue, senza, quindi, raccontarlo in maniera logico-consequenziale, dal momento che ne veniamo a conoscenza soltanto alla fine della stagione. In scena Lexi è raggiante e luminosa: non sta “entrando” nel personaggio, ma in se stessa. Il teatro e la scrittura, e l’autofiction, potremmo dire, diventano un modo per conoscersi meglio e pensarsi come al centro delle cose e non più al margine. [Elvira Del Guercio]

IRMA VEP

di Olivier Assayas (HBO)

Nel 1996 Olivier Assayas fece un film, intitolato Irma Vep, che raccontava di un remake (film nel film) in chiave moderna di un celebre serial cinematografico in dieci puntate dell’epoca del muto, Les Vampires, girata da Louis Feuillade 1915 (che poi divenne oggetto di culto per i surrealisti e non solo). Irma Vep è infatti il personaggio che Musidora, l’iconica star del film di Feuillade, interpreta nel serial dell’epoca. La serie Irma Vep del 2022 (quella di cui parliamo qui e che è uscita su HBO quest’estate dopo la première a Cannes) aggiunge uno strato ulteriore in quello che è ormai un dedalo centrifugo di riferimenti e scatole cinesi: una starlet americana del cinema di oggi (Alicia Vikander), stanca di fare l’eroina nei film pieni di CGI e tutti creati in post-produzione a Hollywood, va a girare una serie TV colta e indie a Parigi dove il regista René Vidal (interpretato da Vincent Macagne) rivisita in chiave contemporanea un suo precedente film del 1996 (che naturalmente è anch’esso un remake di Les Vampires di Louis Feuillade). L’ulteriore complicazione è data dal fatto che René Vidal è stato sposato con Jade Lee, l’attrice del suo film del 1996 (ed è ancora posseduto dal suo fantasma), esattamente come lo stesso Assayas sposò l’attrice hongkongese Maggie Cheung dopo il suo film del 1996. La serie non solo mischia realtà e finzione, vita biografica e vita cinematografica, mettendoli garrellianamente l’uno dentro l’altro, ma soprattutto si perde in una stanza degli specchi, dove l’immagine non è mai immagine di qualche cosa, ma è sempre immagine di un’immagine di un’immagine. Non c’è fondo, non c’è un’ultima istanza: non c’è modo di mettere in ordine le rappresentazioni in base al loro grado di realtà. Si può solo abitarle e farsene possedere così come l’attrice Mira Harberg/Alicia Vikander si fa possedere dallo spirito di Musidora (e forse anche da quello di Jade Lee o di Maggie Cheung). Se oggi l’immagine digitale è ormai parte integrante del tessuto stesso della nostra esperienza e degli oggetti del mondo in un indistinto dove soggetto e oggetto ormai si fondono in un Uno naturalizzato – e Irma Vep ce lo mostra benissimo nelle parti più contemporanee della serie, piene di social, cellulari e video di YouTube – Assayas, come spesso accade nel suo cinema, si ferma un passo prima di diventare autenticamente “integrato”. E riesce a guardare questo regime dell’immagine con quel tanto di straniamento che gli permette di non farsene completamente risucchiare. D’altra parte, quando si è smarriti in un labirinto, non si prova comunque a cercare una via d’uscita? [Pietro Bianchi]

FIVE DAYS AT MEMORIAL

di John Ridley e Carlton Cuse (Apple TV+)

Tratta dall’omonima inchiesta che la giornalista Premio Pulitzer Sheri Fink pubblicò nel 2013, Five Days at Memorial racconta gli eventi realmente accaduti presso il Memorial Medical Center di New Orleans nei giorni dell’uragano Katrina e dei catastrofici allagamenti che colpirono l’intera città, e ricostruisce in particolare le decisioni che il personale medico della struttura, guidato dalla dottoressa Anna Pou, dovette prendere tra il 28 agosto e l’1 settembre 2005 per curare al meglio i propri pazienti in condizioni igienico-sanitarie precarie e nel caos generato dal ritardo dei soccorsi. Pou fu in seguito incriminata per l’omicidio di molte delle oltre 40 vittime dell’evento attraverso un’iniezione letale di morfina e altri sedativi, ma una giuria ritenne di archiviare i capi d’accusa senza visionare un ricchissimo dossier di prove scientifiche a suo sfavore. Dilemma etico – le iniezioni puntavano ad alleviare il dolore di pazienti impossibilitati a essere evacuati, abbandonati a se stessi e a una morte potenzialmente atroce – e martellante battage mediatico, in pieno stile americano, tra compravendita delle testimonianze, delega delle responsabilità e fratture corporative, con un ingombrante sentimentalismo religioso a condire le più varie retoriche. Parte soprattutto come un disaster medical drama di assoluto impatto visivo, che unendo l’ampio uso dell’archivio a una generosa effettistica digitale colloca lo spettatore nell’immediatezza orrorifica dell’azione, dando forma a qualcosa di inimmaginabile per chi non l’ha vissuto; ma nel corso dei suoi otto episodi diventa un legal thriller venato di sottilissima ambiguità – la dottoressa Pou ha fatto o no la scelta più obiettiva, in un’emergenza estranea a qualsivoglia protocollo? – suggerendo nella catastrofe ambientale e nelle sue conseguenze l’emersione di un rimosso stratificato, fatto di precarietà civile, interessi economici, immobilismo politico a tutti i livelli, razzismo, cristianità di facciata, oltre che di un dolente, non meglio definibile, senso di abbandono rispetto alle leggi dell’uomo e di Dio. [Marco Longo]

SEVERANCE 

di Dan Erickson (Apple TV+)

In “Americanismo e fordismo”, Gramsci mostrava come nel lavoro taylorizzato di inizio ‘900, si compia il distacco tra «lavoro manuale» e «il contenuto umano del lavoro». Non solo l’opera è separata dall’attività, ma nell’automatizzazione anche «il cervello resta libero e sgombro per altre occupazioni». In questa separazione si apre lo spazio, non tanto della riduzione dell’uomo stesso a macchina, ma anche di potenziale sovversione del lavoro meccanizzato tramite un esperimento di libertà. Il riconoscimento di questa strategia di separazione degli affetti e dell’attività nel lavoro manuale, intellettuale e di cura, è stato – per altri versi –  agitato nella forma del “rifiuto del lavoro” anche dai movimenti e dai marxismi autonomi e dal femminismo europeo e americano degli anni ’70 e negli anni successivi. In un prossimo futuro distopico, il thriller psicologico Severance (in italiano, Scissione), affronta provocatoriamente la questione dell’inseparabilità tra intelletto e mano, affetti e lavoro. La bianchissima e igienizzata corporation, Lumon Industries, infatti, propone ai suoi dipendenti una procedura medica di scissione per separare completamente la vita personale da quella lavorativa. Non solo vita e lavoro sono completamente isolati, ma anche le mansioni all’interno della corporation vengono divise categoricamente l’una dall’altra, mentre l’attività del lavoratore è al massimo un bullshit job, spacciato come importantissimo ma che non consiste, né più né meno, nel data cleaning. In Severance sono presenti tutti gli elementi del lavoro contemporaneo; ritorno alla mansione segmentata e ideologia premiale o punitiva della performance del lavoratore; feste aziendali e meditazione durante le pause dal lavoro. Sembra quasi di trovarsi in una warehouse di Amazon. Ma in questo scenario  taylorizzato, reificato, e gamificato che  realizza l’impossibile – cioè la separazione tra la vita del lavoratore e il lavoro stesso – si insinuano dei sospetti e il mistero s’infittisce. Sarà Mark Scout (Adam Scott), capo reparto che ha voluto sottoporsi alla procedura di “severance” dopo l’insopportabile morte della moglie,  che comincerà non solo a solidarizzare con gli altri lavoratori della sua unità, ma a scavare nei misteri della Lumon Industries. Cosa si cela dietro la volontà di separare forzatamente i ricordi del lavoratore mentre lavora? Qual è il vantaggio dal punto di vista capitalistico di separare vita e lavoro, se non quello di avere dei lavoratori che diventino delle macchine monouso? Di cosa si occupa, veramente, l’azienda che spaccia il data cleaning come “green economy”? [Tania Rispoli]

 BAD SISTERS

di Sharon Horgan, Dave Finkel e Brett Baer (Apple TV+)

Se c’è un sottogenere che beneficia davvero della struttura seriale è quello del whodunnit: alcune delle serie TV che ci hanno tenuto incollati allo schermo negli scorsi mesi cominciano con un cadavere e settimana dopo settimana disseminano indizi per spettatori stanchi del binge watching, che si godono l’attesa febbrile dell’episodio successivo. È il caso di Bad Sisters, serie di Apple TV creata da Sharon Horgan insieme a Dave Finkel e Brett Baer: la serie si apre con la morte di “JP” Williams, un’apparenza da buon padre di famiglia e un soprannome, “the prick”, che lascia intuire tutt’altro. JP, infatti, è un concentrato di aggressività e di mascolinità tossica: la sua attività preferita, quando non è occupato a umiliare, manipolare e controllare la gentile moglie Grace Garvey, sembra essere quella di rovinare con compiaciuto sadismo la vita alle sorelle di lei Eva, Bibi, Ursula e Becka. Tutte le sorelle Garvey, dunque, hanno un movente per ucciderlo e di certo ne hanno il desiderio. Ma compiere il delitto perfetto è più complicato di quando credano. Bad Sisters è un racconto al femminile con un villain maschio, interpretato dall’ottimo Claes Bang, assolutamente irredimibile, eppure evita ogni deriva manichea e consolatoria. Anzi, mette lo spettatore in una posizione scomoda, costringendolo ad ammettere l’inconfessabile: man mano che gli episodi procedono, ci ritroviamo non solo a voler scoprire l’assassino (o le assassine) di JP, ma anche a desiderare per lui la più orrenda delle morti, salvo poi scoprire insieme alle protagoniste che non ci si può vendicare senza sporcarsi le mani e soprattutto la coscienza. E se il personaggio maschile è volutamente bidimensionale, le “Garvey girls” sono scritte con delicatezza e attenzione: sono donne irrisolte e segnate dal trauma, che trovano la loro forza nella sorellanza. Grazie a un perfetto equilibrio tra tenerezza e humor nero, umanità e cinismo, Bad Sisters non è solo una delle serie dell’anno: è la catarsi che ci meritiamo. [Chiara Grizzaffi]

Menzioni:

  • SHERWOOD di James Graham (BBC One)
  • BETTER CALL SAUL di Vince Gilligan e Peter Gould (AMC)
  • BETTER THINGS di Pamela Adlon (FX)
  • INDUSTRY di Mickey Down e Konrad Kay (HBO)
  • RAMY di Ramy Youseef (Hulu)
  • PACHINKO di Soo Hugh (Apple TV+)