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Apollo 10 e mezzo: nel parco giochi senza Storia

Inserendosi curiosamente nella tendenza biografista delle produzioni Netflix d’autore, l’ultimo progetto in rotoscopio di Richard Linklater si cala nella descrizione filologicamente maniacale dello Zeitgeist culturale della Houston anni ‘60, tutta capitalismo sfrenato e sogni lunari, interrogandoci sulle sfumature di retromania, nostalgia e memoria.

Era dal 2004 che Richard Linklater cercava di portare sul grande schermo Apollo 10 e mezzo e non si può dire che ci sia riuscito: il regista texano ha realizzato il proprio progetto in rotoscopio per il piccolo schermo, grazie a Netflix. Dopo i film di Cuarón, Scorsese, Fincher e Sorrentino, quello di Linklater è solo l’ultimo caso di una serie di progetti personali, quasi intimi, a lungo irrealizzati ma improvvisamente resi disponibili grazie al presupposto mecenatismo di Netflix: è da qualche anno ormai che il colosso streaming offre carta bianca agli autori del cinema mainstream che, per le condizioni dell’industria, la carta bianca non possono vantarla più. Malgrado si sia detto molto su questa raffinata strategia di legittimazione culturale mascherata da scommessa produttiva – grazie alle firme sopra citate, Netflix ha sbancato nei premi festivalieri e dell’industria –, si è discusso molto meno della natura tutta particolare che accomuna i progetti prodotti. E invece ci sarebbe molto da dire, in primis sul carattere di evidente autobiografismo che sembra accomunare i film figli di questa logica da “riserva protetta per cineasti a rischio estinzione”: che si tratti della storia della propria tata, dello specchietto da cui si riguarda in prospettiva senile il proprio cinema, del film non realizzato del proprio padre, del racconto della morte dei propri genitori, fino alla storia della propria immaginifica infanzia, i film d’autore di punta del servizio riguardano questioni personali, privatissime. Netflix sembra essere diventato in questo senso l’avamposto dell’autorialismo biografista, il luogo di accesso privilegiato al cinema di qualità, o meglio, alla psicologia della qualità, cioè ai film che raccontano la formazione o la personalità del regista o della regista in questione – e che in quanto tali si sostanziano come film passe-partout per le loro filmografie (accuratamente disposte come contorno in bacheca), chiavi sintetiche adatte a una comprensione globale e globalizzata di un immaginario. 

Apollo 10 e mezzo si inserisce in questa cornice produttiva precisa, rinforzandola: il film è lo splendido gesto diaristico di un autore “libero” di procedere incontrastato, secondo la regola del proprio gusto e il metro di una volontà registica sganciata da qualsiasi necessità di mediazione con un pubblico specifico (qual è lo spettatore di Netflix?), e quindi pronta a disinteressarsi di qualsiasi sforzo di avvicinamento al convenzionale conforto di una narrazione. Chi avrebbe mai detto che la sperimentazione anti-narrativa sarebbe stata a portata di mano di tutti gli abbonati Netflix? Ecco invece disponibile in bacheca un film che per buona parte della sua durata devia dalla storia principale – l’alter ego del regista, il piccolo Stanley, è assoldato dalla Nasa per una segretissima missione lunare precedente a quella dell’Apollo 11 – crogiolandosi nella descrizione filologicamente maniacale dello Zeitgeist culturale della Houston anni ‘60, tutta capitalismo sfrenato e sogni lunari, abbaglianti programmi tv e giochi da tavolo, sale giochi e drive in; ecco pronto per essere esperito un film che consente di abbandonarsi alla magia rammemorativa del proprio regista, da sempre ossessionato dalla messa in scena dell’inevitabile scolorir della vita intensamente vissuta in memoria perduta; ecco in ultima analisi l’occasione per vivere sullo schermo la memoria privata e pubblica (la scrittura di Linklater aggancia saggiamente l’una all’altra) di un’epoca che non si può vivere ed eppure sembra quasi di abitare. Se non fosse un film così libero di essere se stesso si potrebbe per assurdo dimostrare che Apollo 10 e mezzo è un film molto funzionale alla piattaforma che lo ospita; e in effetti non è forse un caso che Netflix abbia puntato la sua bussola sulla produzione di questo regista così da sempre pericolosamente interessato a costruire dispositivi nostalgici: il film di Linklater in effetti non soltanto rinforza la logica dell’accesso biografista, ma sembra anche legittimare più o meno consapevolmente la dinamica di formattazione del gusto operata da Netflix dal momento della sua trasformazione in servizio streaming. 

Apollo 10 e mezzo è un vero e proprio viaggio impossibile in un’epoca che non si ha vissuto ma che a distanza di sessant’anni si può vestire come un’esperienza della propria identità; è, in altre parole, una straordinaria macchina di feticismo retromaniaco (l’animazione porta a una partecipazione inedita di un mondo completamente ricreato in ogni suo specifico dettaglio), in grado di offrire al fruitore un sollievo dalla ricerca di certezze identitarie: quel sollievo proprio dell’immersione in un tempo ormai mitologico che distoglie dai problemi contemporanei e garantisce comunque esperienze risolutive per l’identità. Siccome non è questa la sede per ripercorrere le strategie di gestione del gusto di Netflix – è dai tempi di Stranger Things, prima testa d’ariete con cui il servizio ha sventrato le abitudini globali, che la linea editoriale riguarda la produzione di contenuti incentrati su immaginari passati riabitati ad hoc –, la scena determinante di Apollo 10 e mezzo basta e avanza per dare l’idea dei raffinati processi di manipolazione dell’identità in gioco: mentre la famiglia di Stanley guarda alla televisione l’allunaggio dell’Apollo 11, Stan si sta addormentando e assiste all’evento in uno stato di dormiveglia; il bambino chiaramente non è per nulla eccitato, perché ha provato sulla propria pelle l’esperienza degli astronauti: nello stato di equilibrio impercettibile tra veglia e sonno che spesso si prova di fronte alle immagini ripensa al proprio allunaggio e sostituisce le immagini della televisione con le immagini della propria memoria. Trasportando a letto il bambino ormai crollato nel sonno la madre di Stan consola il marito, un dipendente della Nasa tutto preoccupato che il figlio abbia mancato l’evento: «Beh, sai come funziona la memoria: anche se dormiva crederà di avere visto tutto». 

Al di là di ogni possibile identificazione tra la corporation produttrice e la corporation protagonista (la Nasa è descritta come la condizione di tutto l’immaginario e di tutti gli ideali di chi abita nella sua orbita), oltre ogni possibile elogio di soppiatto alla centralità della televisione (tutta la vita del protagonista ruota intorno alle serie tv e anche il cinema è vissuto come un contenuto seriale), e  superando le somiglianze tra le condizione di sospensione atemporale che sembra pervadere la quotidianità dei personaggi e lo stato di evasione dalle restrizioni temporali che si può vivere sui non-luoghi delle piattaforme («Qui non c’era nessun senso della Storia. Tutto, a perdita d’occhio, era nuovo di zecca», confessa la voce di Jack Black nella parte di uno Stan idealmente adulto che ricorda i bei tempi innocenti), al di là di tutto il film, insomma, questo è il segnale della funzionalità di Apollo per il servizio che lo ha prodotto: legittimazione della retromania come stato catatonico in cui non si è fatto esperienza di nulla ma si è stati spettatori di tutto, retromania come valida risposta agli interrogativi del presente tramite l’illusione di una risposta già ricevuta dal passato – in questo caso il progresso capitalistico non è sogno ma realtà a portata di bambino. Legittimazione quindi di una dinamica nostalgica che fa un’identità per tutti, un’identità che va bene a chiunque, figlia dell’ideologia televisiva incurante delle singolarità e infatti indifferente all’interrogazione dello spettatore, alla problematizzazione della sua posizione o della sua assenza – diverso è il caso di The Irishman, che attua dall’interno un gesto di sovversiva storicizzazione della soggettiva, in grado di responsabilizzare uno spettatore anche dove strutturalmente non c’è. 

Apollo 10 e mezzo è girato nella stessa tecnica di Waking Life e A Scanner Darkly, ma in quei film l’equilibrio tra realtà e illusione era al servizio di una ristrutturazione sensoriale molto lontana da quella con cui si inquadra l’innocenza di un parco giochi senza Storia: poteva essere estrinsecazione di ossessioni private (magari di altri autori, vedi Dick), ma trovava un’universalità commovente passando dal contraddittorio reale del singolo, fisico, spettatore e dallo spauracchio pur debole della narrazione, cioè da una dialettica interna irrinunciabile e qui invece abbandonata a favore della regressione nei propri desideri e nelle proprie angosce. La stessa dialettica, tra l’altro, che in altri film del regista (il dittico La vita è un sogno/Tutti vogliono qualcosa è in questo senso esemplare) funzionava come punto prospettico da cui partecipare all’inevitabile srotolarsi del tempo all’indietro, e alla contestuale impossibilità di riviverlo se non attraverso il dolore e l’assenza, al di là di ogni personalissima soddisfazione biografica.