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Euphoria. Concedersi la paura

Prodotta da Hbo, la serie tv diretta da Sam Levinson racconta lo spazio e il tempo sospesi dell’adolescenza, sregolati e camaleontici, senza feticizzarne i dolori e le passioni.

Rispetto ai contesti sociali e culturali in cui erano calati gli adolescenti di Skins o Gossip Girl, dagli anni Dieci in poi il mondo dei teenager non è più lo stesso. Per parlare di questo cambiamento, showrunners e autori non si sono potuti non interrogare sull’ambiente in cui i giovani oggi vivono e sul modo in cui la diffusione di Internet e dei social network abbia influito sulle loro vite e relazioni. Un ambiente in cui la tecnologia non è più circoscritta a uno specifico ambito ma permea profondamente il dispiegarsi della vita quotidiana, in una continua sovrapposizione di piani. Le tematiche su cui la quasi totalità dei teen drama vuole oggi far leva sono ansia sociale, malattia mentale, questioni legate alla sfera sessuale o della disabilità, alla proliferazione di schermi e immagini: rappresentazioni del mondo dei giovani senz’altro meno rassicuranti ma sicuramente più efficaci e soprattutto inclusive, attraverso cui anche soggettività queer, trans, lesbiche e gay possono finalmente vedersi riconosciute.

L’obiettivo di queste serie tv è, in tal senso, concedere maggiore visibilità a categorie sociali spesso poste al margine dall’audiovisivo: ricentralizzare punti di vista diversificati e prospettive fuori norma, anche quando a stemperare la durezza e complessità dei temi ci sono una storia fantasy, horror o dai toni scanzonati e leggeri, come nella maggior parte delle produzioni Netflix, basti pensare a Sex Education, Never Have I Ever o Stranger Things. Anzi, è proprio a partire dalla lente del genere che oggi il cinema horror, fantasy e la serialità televisiva lasciano trapelare tutta la carica violenta della scoperta di sé in una fase di transizione, quella adolescenziale: per fare giusto due esempi abbastanza recenti, in Junior e Raw di Julia Ducournau, la giovane protagonista, da un lato, sta subendo una metamorfosi (la sua pelle si squama…), dall’altro, scopre una duplice pulsione con cui dar vita a una creatura libera di esplorare la propria identità e i propri desideri. In His Dark Materials, serie tv basata sui romanzi di Philip Pullman, invece, il viaggio dell’eroina si misura con il passaggio dall’innocenza all’età adulta, con il perenne divenire altro da sé della protagonista e del suo daimon – che nell’universo della serie e dei romanzi di riferimento muta forma finché l’umano non diviene compiutamente adulto.

Il risultato è, come abbiamo visto, una vera e propria rimodulazione delle categorie estetiche, narrative e stilistiche dei teen drama, che guardano, in maniera acuta e intelligente, al contesto storico, sociale e culturale in cui i personaggi agiscono. Ma dove si colloca Euphoria in questo vastissimo panorama? Prodotta da Hbo, Euphoria è un oggetto alieno. Un prodotto extraterritoriale che pur situandosi in questo nuovo universo seriale costellato da narrazioni teen alternative e ricontestualizzate per molti aspetti se ne distanzia. Uno dei motivi è anzitutto il “marchio” stilistico che Sam Levinson ha impresso alla serie fin dall’inizio, così come il suo il virtuosismo estetico e narrativo: la profetica voce fuori campo spezzata e flebile di Rue/Zendaya che squaderna ognuno dei vissuti raccontati dalla serie; i corpi degli attori e delle attrici al servizio dell’iper-definizione delle immagini, il montaggio frenetico e convulso e gli “altmaniani” colpi d’occhio cumulativi con cui Levinson ci ripropone lo spazio e il tempo sospesi dell’adolescenza, sregolati e cangianti così come devono essere, sono solo alcuni dei caratteri di Euphoria che magnetizzano l’attenzione dello spettatore.

La serie tv è in poco tempo diventata un fenomeno pop e di culto tra i giovani e non solo: su Instagram e sui vari social network è già un susseguirsi di video, meme e immagini ispirati alla serie, specialmente al look e al trucco dei personaggi, tanto da aver creato un vero e proprio “mood Euphoria”, aderendo a un modello produttivo e distributivo ben preciso. Infatti, seguendo la tesi di Jenkins sulla cultura convergente, sappiamo che nell’era del modello culturale partecipativo, vecchi e nuovi media collidono e “la distinzione tra spettatore e produttore di contenuti cessa di avere dei contorni definitivi, lasciando il posto a dinamiche creative inedite” (A. Maiello. Mondi in serie. L’epoca post-mediale delle serie tv). Ed è proprio in questo nuovo spazio mediale, in cui i media perdono i loro confini di riferimento, che le immagini di Euphoria agiscono sul pubblico, per l’appunto (anche) con storie Instagram, video tutorial e mash-up vari, che vanno così a definire una nuova modalità di fidelizzazione. Attraverso uno stile fondato sul grado più alto di artificio e stilizzazione dell’immagine, eccentrica e coi piani scomposti, la messa in scena bizzarra e difforme e aderente al mondo raccontato, Levinson costruisce un teen drama a sé stante, che intende dissigillare e mandare in crisi le categorie rappresentative del suddetto genere. Il regista ha colto tutte le potenzialità e gli strumenti che gli sono stati offerti dai nuovi modelli culturali riportandone caratteristiche e proprietà nell’universo della serie.

Quello a cui ci sembra di aver assistito alla fine della seconda stagione è una sorta di storia in tre atti, narrativamente e linguisticamente differenti. La prima stagione è quasi interamente costruita intorno al personaggio di Rue e al racconto della sua tossicodipendenza: è evidente la sua centralità perché è dal suo punto di vista che le vicende vengono raccontate, costituendone il moto propulsore. Un punto di vista, il suo, che permane anche nella seconda stagione, dove emergono maggiormente la sua paura e quella dei suoi coetanei, tormentati dal fantasma dei padri – Nate Jacobs è una figura chiave nella seconda stagione, dal momento che vengono sviscerate le contraddizioni del suo rapporto con il padre – e da aspettative e ansie. Ma sono le puntate speciali girati durante la pandemia e diffuse lo scorso anno in streaming che disvelano tutta la complessità delle due protagoniste di Euphoria: Rue e Jules/Hunter Schafer. Queste puntate sono da un punto di vista di organizzazione narrativa quasi speculari: il confronto con la propria individualità passa per la mediazione di un terzo che ascolta – finalmente Rue e Jules si fermano, e così fa la storia, per concedere spazio e tempo a quella forma d’ascolto pura mancante nelle vite degli adolescenti di Euphoria – per cercare di insinuarsi in quelle zone dell’anima fino a quel momento silenziate dal fragore generale.

La tossicodipendenza di Rue è il filo conduttore di questo racconto in tre atti. Se con la puntata ambientata nella tavola calda, le parole di Ali/Colman Domingo sembravano aver sortito finalmente un effetto sulla giovane, la seconda stagione è la storia della sua ricaduta: ancora scossa dall’abbandono di Jules, Rue si dà a traffici di droga, rischia di avere un infarto dopo un cocktail di cocaina e anfetamine varie, non riesce a fermarsi né a guardarsi più intimamente; quando capita, ha reazioni spropositate, violente, tanto più con chi le sta vicino. E lo sguardo umanista di Levinson sta proprio in questo guardarla da lontano, in maniera circospetta e attenta, senza mai andare a feticizzare o estetizzare il suo dolore: i suoi movimenti e l’incresparsi del volto guidano l’andirivieni della macchina da presa da una stanza all’altra della casa, nei corridoi di scuola, ma lo fanno anche i campi lunghi, le carrellate, le sequenze di corse a perdifiato.

Spesso quando si commenta un fotogramma o una ripresa si dice che sia la macchina da presa a “cogliere” delle cose: nel caso di Euphoria, invece, sono le attrici, gli attori e i loro corpi a darsi allo sguardo del regista, a concedere qualcosa di sé, spogliati nei loro caratteri più intimi e silenziati. È il caso di Cassie Howard/Sydney Sweenwey a cui in questo seconda stagione viene concesso spazio e tempo in abbondanza. Lei e Maddy/Alexa Demie diventano, in maniera antitetica, delle vere e proprie “villain”, con cui però si riesce a empatizzare: sono insicure, fragili e più spaventate degli altri; vediamo, ad esempio, Cassie cercare continuare continuamente la perfezione con la sveglia quotidiana alle quattro del mattino per prepararsi, credendo di aver trovato l’amore in Nate Jacobs, incapace di cogliere quanto sia l’ennesima relazione tossica a cui decide di sottoporsi. A diciassette anni non si può essere seri, scriveva Arthur Rimbaud. A diciassette anni dell’amore, della violenza, del desiderio, si conosce una piccola parte, piuttosto contratta una miniatura di ciò che da lì a pochi anni accadrà: preliminari di vita vera. A diciassette anni si può pensare che sia una buona idea decidere di fare affari illegalmente; che non sia così tanto grave innamorarsi dell’ex fidanzato della tua migliore amica o mentire spudoratamente su un tumore terminale al cervello per lasciare il proprio ragazzo. Ma a diciassette anni si può anche fare sul serio. Nella seconda stagione di Euphoria, Lexi Howard/Maude Apatow è il personaggio che più fa sul serio. Da osservatrice passiva e silente, diviene il centro della narrazione: la messa in scena di un’opera teatrale che racconta la sua vita e quella dei suoi compagni e delle sue compagne diviene fondamentale per una più acuta presa di consapevolezza su di sé. Con un rocambolesco gioco di mise en abyme, la pièce che immagina ci fa capire, tra le tante cose, il senso del suo rapporto con la sorella e con Rue, senza, quindi, raccontarlo in maniera logico-consequenziale, dal momento che ne veniamo a conoscenza soltanto alla fine della stagione. In scena Lexi è raggiante e luminosa: non sta “entrando” nel personaggio, ma in se stessa. Il teatro e la scrittura, e l’autofiction, potremmo dire, diventano un modo per conoscersi meglio e pensarsi come al centro delle cose e non più al margine.