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Michael Haneke. La Storia e la sua immagine

È appena uscito per i tipi di Mimesis “Michael Haneke: lo spazio bianco. Cinema, storia e immagini del presente” di Lorenzo Rossi. Che non è soltanto la più completa monografia in lingua italiana su Michael Haneke, ma è anche una splendida riflessione sull’importanza della storia nella filmografia del registra austriaco

Lo notò già Sigmund Freud: uno dei fantasmi inconsci più comuni è quello di immaginarsi di stare in un mondo dove è possibile guardare se stessi dall’esterno. Come avviene in quei sogni dove il soggetto sognante diventa parte dell’immagine stessa del sogno: dove il proprio sé si stacca dallo sguardo e diventa un oggetto. Non è banale: l’idea di fondo di questa esperienza assolutamente comune è che sia possibile diventare un puro sguardo totalmente disincarnato. Che il proprio corpo non sia più attaccato alla propria esperienza di visione. In effetti al cinema facciamo esperienza di qualcosa di molto simile: perché vediamo un mondo senza doverne farne parte; perché oggettiviamo ciò che guardiamo là sullo schermo, riuscendolo a “staccare” completamente dallo spazio dove stiamo noi. È per quello che nella sala cinematografica si sta al buio: per fingere che il nostro sguardo non appartenga più a nessun corpo. O che, per meglio dire, il nostro corpo non faccia più parte del mondo. Guardare senza essere guardati. Guardare il proprio oggetto, senza che lui sappia che noi esistiamo.

Non si tratta di voyeurismo, come spesso si dice, dato che il voyeurismo non erotizza il fatto di guardare senza essere guardati, ma semmai erotizza il buco della serratura (e semmai gode della possibilità di essere sorpresi a guardare dal buco della serratura). Si tratta di rimanere sulla soglia del mondo: vedere quello che succede senza doverne essere responsabili; guardare senza che nessuno sappia della nostra presenza. Essere al mondo senza che nessuno lo sappia. In un certo senso è un fantasma di diventare invisibili. Forse persino di essere nella posizione di Dio.

È per questo che il cinema ha sempre intrattenuto un rapporto complesso con la colpa e la responsabilità dello sguardo. È un tema che troviamo in Hitchcock, Welles, Lang, Bresson, Bergman e chissà quanti altri. Non è forse rimanere sulla soglia a guardare le vicende umane – illudendosi di non esserne parte – un modo per rigettare la nostra implicazione verso il mondo? E non è viceversa un principio affatto materialista quello di dire che lo sguardo invece non può mai rifiutarsi di essere dentro le cose? Che il nostro sguardo è sempre attaccato a un corpo e che questo è dentro al mondo che stiamo vedendo?

Bisognerebbe prendere seriamente – come giustamente ci invita a fare Lorenzo Rossi in questo libro – quello che Michael Haneke dice dei propri film: «il tema della colpa è presente in tutti i miei film». A partire da quello sguardo in camera con cui finisce Funny Games o dai brevi momenti di sfondamento della quarta parete che vediamo in quel film e che ridefiniscono lo spazio delle sevizie e torture, includendovi i sentimenti di repulsione, disagio, intollerabilità ma anche di morbosa curiosità che tengono incollato lo sguardo dello spettatore sullo schermo. E non si tratta, nel caso di Haneke, di un gesto formalista o meta-cinematografico – che magari riesca a stemperare l’angoscia della vicenda nel gioco linguistico di superficie – dato che avviene solo in pochi punti di Funny Games in modo quasi subliminale. E la stessa cosa avviene nella sequenza del video del suicidio di Majid in Caché o nelle immagini delle videocamere di sorveglianza o in quelle dei telefoni cellulari all’inizio di Happy End: chi è il soggetto che guarda? Chi è il responsabile di quelle immagini? Qual è il corpo che occupa quello sguardo? Il problema del soggetto dell’immagine e quello della colpa e della responsabilità sono per questo due facce della stessa medaglia, in un mondo dove le immagini e i soggetti, dove le responsabilità e le colpe hanno rotto il loro legame naturale. Il mondo di Haneke è infatti quello dell’immagine digitale, diffusa, che per certi versi ha allontanato ancora di più il soggetto dal proprio sguardo: un mondo dell’immagine senza soggetto, immanente, e quindi un mondo dove colpe e responsabilità diventano sempre più opache, o meglio “annacquate” o “sbiancate”, come viene detto nel capitolo su Il nastro bianco, e dove Lorenzo Rossi giustamente insiste sull’ambiguità del bianco della purezza che si trasforma in un bianco dell’indistinzione e della copertura delle responsabilità.

E in effetti, nonostante il regime dell’immagine digitale sembrerebbe essere pervasiva e onnipresente (come testimonia la proliferazione di immagini video che si vedono in Caché o in Happy End) il campo visivo dei film di Haneke non manca mai di un punto cieco, e quindi rimane sempre in-totalizzabile e incomprensibile. E non si tratta solo del punto di vista del soggetto dello sguardo delle videocassette di Caché (forse il film contemporaneo per eccellenza che eleva il problema della dimensione non-tutta del campo visivo, per usare una formula cara a Jacques Lacan, a questione teorica e strutturale[1]) ma anche quello delle violenze di Funny Games, così come di Happy End. Ma forse, in maniera ancora più emblematica riguarda i crimini de Il nastro bianco, che rimangono sempre fuori campo, senza responsabilità, e che non hanno mai nemmeno il contro-campo dell’immagine del soggetto colpevole (cosa che invece esisteva ancora in Funny Games, dove lo sguardo enigmatico, inquietante e privo di emozioni di Arno Frisch faceva comunque da contrappunto ai crimini che rimanevano fuori-campo). In questo senso nell’universo visivo di Haneke le colpe e le responsabilità finiscono sempre per dissimularsi e auto-cancellarsi: le macchie vengono letteralmente “sbiancate” e lasciano semplicemente un’assenza o una traccia invisibile, di cui il film stesso si farebbe testimonianza.

In questo senso è fondamentale ricordare qual è il periodo storico in cui il cinema di Haneke inizia a prendere forma. È questo forse l’elemento più originale del libro di Lorenzo Rossi e il contributo più rilevante che offre agli studi e alla letteratura sul regista austriaco. Perché se è vero che il cinema di Haneke è un cinema che riflette sulla natura non-tutta e strutturalmente opaca del campo visivo contemporaneo nell’epoca dell’immagine digitale diffusa, e sul problema della rottura del nesso tra responsabilità/colpa e soggetto dello sguardo, è vero che questa problematica non acquisisce mai nel suo cinema una declinazione puramente formale o astrattamente teoreticista. Il suo cinema è sempre calato dentro una riflessione determinata storicamente.

Basterebbe vedere come nel primo capitolo di questo libro Lorenzo Rossi riflette sul contesto storico in cui nasce la vicenda di Funny Games. Siamo nella seconda metà degli anni Novanta, negli ultimi anni del cancellierato di Helmut Kohl e appena prima dell’inizio di quello di Gerhard Schröder. Siamo cioè pochi anni dopo la caduta dei regimi del socialismo reale, la riunificazione tedesca e la fine dell’Unione Sovietica, in cui sembra essere definitivamente tramontata ogni alternativa realizzata al capitalismo globalizzato. Nel 1992 esce The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama che popolarizza la tesi della “fine della storia” e a distanza di poco tempo Bill Clinton, Tony Blair, Romano Prodi e lo stesso Gerhard Schröder danno inizio a governi di centro-sinistra che sembrano definitivamente abbracciare, quanto meno in economia, i principi della destra neoliberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Sembra insomma che la politica non sia più attraversata dai conflitti sociali di due decenni prima, o da divisioni ideologiche fondamentali e che il problema fondamentale sia quello dell’efficienza e della buona amministrazione. Sono anche anni dove i paesi occidentali hanno un boom economico senza precedenti e dove sembra che le loro società possano prosperare senza che vi sia più alcun ostacolo interno e senza che alcuna grande questione sociale possa dividerle al loro interno. In questo panorama, dove appunto sembra che la Storia abbia per sempre abbandonato la lettera maiuscola, Haneke interviene con dei film che mostrano invece sempre un principio di divisione interno: non solo Benny’s Video, che inaugura il grande tema dei conflitti inter-familiari hanekeniani (mai annacquati dalle derive sociologizzanti del conflitto tra generazioni) ma anche e soprattutto Funny Games, con quell’hitchcockiano (o lynchiano, come ricorda Rossi) insinuarsi di un elemento estraneo e perturbante all’interno delle coordinate più confortevoli della vita borghese. In questo senso è proprio la crisi del confine tra spazio pubblico e spazio privato, tra familiarità ed estraneità, tra noto e ignoto, che espone il momento storico al proprio elemento rimosso e denegato.

Ma qual è questo elemento che gli anni Novanta (e poi gli anni Zero e i Dieci) hanno voluto reprimere? Da dove vengono i conflitti che squarciano la Storia, la famiglia, il campo visivo e il regime dell’immagine? Haneke non si lascia mai andare a facili risposte in questo senso: ogni discorso sulla disgregazione dei legami familiari, sul declino della società occidentale, sul confine tra realtà e immagine non assume mai i toni della causalità semplice. Non c’è ragione per cui il figlio di Benny’s Video faccia arrestare i genitori, così come non c’è ragione per cui Paul e Peter si mettano a torturare una normalissima famiglia borghese. Non sapremo mai perché i ragazzi de Il nastro bianco inizino a commettere quei crimini o da dove vengano le videocassette di Caché. C’è una non consequenzialità nei nessi causali del mondo di Haneke che parla innanzitutto di un’opacità di fondo e che il cinema non è in grado di dipanare. In questo senso la riflessione formale del suo cinema e quella sulla storia vanno di pari passo proprio perché – come spiega splendidamente Lorenzo Rossi in questo libro – sono il dritto e il rovescio della stessa questione. La Storia non è un repertorio di eventi su cui andare a posare il proprio sguardo e da cui trarre degli insegnamenti ma semmai un problema che l’immagine non può risolvere ma semmai solo abitare.

In questo senso vorremmo fare nostre le parole di Fredric Jameson che commentando la tesi di Louis Althusser sulla fondamentale e radicale opacità dei rapporti di produzione delle società capitalistiche – la cui determinazione “in ultima istanza” che dovrebbe rendere intellegibile e finalmente chiara la lettura del sociale, in realtà, non arriverà mai – in un passo insolitamente autobiografico, afferma:

[la determinazione in ultima istanza di Althusser] viene tradizionalmente interpretata come una sorta di cruda epifania in cui la produzione e la base economica si spalancherebbero improvvisamente davanti a noi come di fronte a un abisso. Ora invece penso che [Althusser] abbia voluto dire che non abbiamo mai un’esperienza diretta o immediata della Storia, e che i momenti in cui ci sembra più vicina o che sembra più drammatica – quel momento quando in un hotel viennese nel 1956 un bambino, sbirciando da una colonna, mi chiese timidamente: “Magiaro?”; o come quando nel giugno del 1959 sono passato vicino ad alcuni uomini barbuti all’aeroporto dell’Avana e non sono riuscito a trovare la Rivoluzione nella folla delle sue strade o nei negozi del centro – si riducono a dettagli empirici, e la loro oggettività viene rapidamente inghiottita dal soggettivo e assimilata a un aneddoto autobiografico. La memoria non esiste. Successivamente, naturalmente, la società tutta farà esperienza di questa confisca del reale tramite l’enorme sviluppo dei media, che sono fin troppo capaci e disposti a ridurre anche quel piccolo barlume di Storia a un’immagine e attraverso di essa a spingerci tutti verso ciò che abbiamo definito un simulacro (o la società dello spettacolo).[2]

La storia in questo senso ha sempre la struttura di qualcosa che si sottrae e che mai si palesa nella sua auto-evidenza o oggettività. Il regime dell’immagine – che non riesce mai a eliminare il punto cieco e quella separazione strutturale tra sguardo e soggetto – e il ritrarsi costante della storia da una sua presunta presentificazione auto-evidente, condividono quindi un’opacità comune. Prendono corpo entrambi – come ricorda Lorenzo Rossi commentando Caché – attorno a una rimozione fondamentale. È per quello che il cinema di Haneke ha provato a guardare l’una nell’altra, senza alcun feticismo per il fatto empirico o per un crudo storicismo lineare, ma senza nemmeno risolvere il problema dei “sintomi” della storia all’interno di un formalismo dell’immagine (come se i problemi “teorici” sull’ontologia dell’immagine potessero da soli sostituire l’opacità della storia). È un cinema, quello di Haneke, che si propone di usare l’immagine non come rappresentazione di quello che c’è (e che magari è dimenticato, come fa il cinema “socialmente impegnato” contemporaneo tutto proteso a bilanciare le giuste quote di rappresentazione) ma di farsi testimonianza di ciò che è rimosso, consapevole che la storia si produce per dissimulazioni, cancellature e rimozioni. E che, per riuscire ad abitarne le aporie, è necessario passare attraverso l’immagine.


[1] In questo senso, sempre per rimanere all’interno dell’apparato concettuale lacaniano, la sequenza del “rapimento” di Majid da parte dei servizi sociali al termine di Caché è a tutti gli effetti un’immagine-oggetto-sguardo, perché pur appartenendo allo stesso registro visivo delle videocassette, è una costruzione dell’inconscio di Georges (segnalata anche dal fatto, che viene “prodotta” quando Georges va a dormire): segnala cioè, l’inclusione dello sguardo di Georges all’interno del quadro. In questo senso si potrebbe parlare di un’immagine del soggetto dell’inconscio (o dell’oggetto-sguardo) proprio perché il suo grado di realtà è assolutamente indecidibile (o meglio, è reale, anche a prescindere dalla sua realtà empirica). Il suo statuto è semmai quello della Urszene di cui parla Sigmund Freud nel caso clinico de L’uomo dei lupi: una scena primaria traumatica, il cui grado di realtà non si misura dal fatto di essere empiricamente avvenuta, ma dal fatto di lasciare delle tracce sintomatiche nel presente/futuro. Se il rapimento di Majid può avere questo statuto di realtà, nulla vieta che tutte le immagini della videocassette del film abbiano il medesimo statuto ontologico. Cosa che verrebbe corroborata anche dalla primissima scena, la cui voce fuori campo di Georges andrebbe interpretata in modo affatto letterale: quella è un’immagine sua che gli è estranea proprio come gli è estraneo l’inconscio o il senso di colpa.

[2] Fredric Jameson, Allegory and Ideology, Verso, New York, pp. 334.

Tutte le immagini dell’articolo sono fotogrammi di film diretti da Haneke.