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CULT

The best of 2021. Le serie TV

In un panorama seriale segnato materialmente e diegeticamente dalla pandemia, il 2021 è stato, almeno in Italia, l’anno di Zerocalcare e il suo Strappare lungo i bordi, ma anche di Squid Game, The White Lotus e Midnight Mass. Ecco le serie TV che abbiamo amato di più nell’anno appena trascorso.

MIDNIGHT MASS

di Mike Flanagan (Netflix)

Mike Flanagan è una delle voci più interessanti dell’horror contemporaneo e anche uno dei pochi (ce ne vengono in mente davvero pochissimi) cineasti a essere riusciti a imporre una propria coerenza artistica e poetica all’interno del grande macinatutto di Netflix (dal cui appiattimento coatto non è uscito indenne nemmeno Ryan Murphy). Dopo due annate notevoli di case infestate, Hill House e Bly Manor, confeziona per la piattaforma una nuova miniserie, questa volta a partire da un suo soggetto originale: non più una magione, ma un’intera isola condannata ad affrontare i propri demoni interiori mentre è impegnata a combattere un demone reale. Di forte ispirazione kinghiana, sia per l’ambientazione che pone una minaccia atavica all’interno di una dimensione collettiva ristretta e intrisa di ipocrisie da scoperchiare, sia per le tensioni tra Bene e Male rese sfumate e complesse da una scala di grigi, la miniserie porta all’estremo alcune cifre estetiche di Flanagan, come la rarefazione dei tempi, i movimenti di macchina lentissimi e ininterrotti, la quasi totale mancanza di jumpscare ed effetti sonori a squarciare un tessuto in cui il perturbante si fa strada strisciando con oscena calma. Densa di dialoghi su temi filosofici ed esistenziali, Midnight Mass oppone resistenza sia al binge watching (difficile sorbirsi in un’unica soluzione le sue quasi sette ore di horror cupissimo e riflessivo) sia a meccanismi seriali più classici, costruendo un’escalation di orrore tanto misurata quanto assolutamente (e letteralmente) incendiaria nel suo apice, e costringendo lo spettatore a restare seduto davanti all’enunciazione di un vero e proprio sermone seriale. Ieratico e umanissimo, monsignor Pruitt si trasforma gradualmente in un vero e proprio leader carismatico da setta, il santone di un culto che arriva a una sinistra somiglianza con Jim Jones, convincendo i suoi seguaci a “bere il Kool-aid” in nome di un folle Bene superiore. Proprio questo è uno degli aspetti più interessanti della serie, che tratta il vampirismo come, appunto, un culto, un credo, una missione: qualcosa che potrebbe rendere l’umanità “migliore”, meno malata, meno debole, meno “difettosa”. Una deviazione dalle narrative classiche da confrontare con l’altra notevole “epidemia” di succhiasangue televisiva dell’anno, quella della prima parte di American Horror Story: Double Feature, dove il contagio vampirizzante è un tutt’uno con il capitalismo interiorizzato e la smania di produttività. [Ilaria Feole]

STRAPPARE LUNGO I BORDI

di Zerocalcare (Netflix)

La prima serie di Zerocalcare è già un cult che ha attraversato i confini romani e persino italiani – all’estero il linguaggio biascicato non è evidentemente un problema. Come in altri pezzi dell’epopea zerocalcariana (graphic novel in primis) ci sono temi e personaggi ricorrenti, come Genova, la madre Lady Cocca o l’amico Secco. Sei episodi in totale, circa 15 minuti l’uno, ogni episodio è diviso a metà: una storia che li percorre tutti e che ha il suo apice nel finale (il viaggio verso Biella) e alcune vignette su altri aspetti della vita del personaggio-autore Zerocalcare. Se all’inizio sembra prevalere un linguaggio e un modo di raccontare più proprio della cultura young adult, alla fine prevale l’amara riflessione generazionale. Nell’ultima puntata c’è un cambio netto di linguaggio, sottolineato anche dalla voce dei personaggi: se per tutta la serie ha una voce diversa da quella di Michele Rech solo l’Armadillo (è Valerio Mastandrea), nell’ultima sono altri attori e attrici a dare la voce a Secco, Sarah e gli altri. È solo alla fine quindi che diventa chiaro che la serie è soprattutto una lunga elaborazione del lutto (e non solo di un lutto specifico) e una riflessione su cosa si diventa quando si cresce e si perde qualcosa. Il tema delle macerie è del resto ormai stabilmente uno dei topoi dell’opera di Zerocalcare. E se in Strappare lungo i bordi ci sono meno macerie è solo perché sono state in parte sostituite dai rimpianti – e superati i trentacinque, pesano anche quelli. Il tempo che passa quindi, i lutti, i traumi. La serie si apre con Genova, con le mazzate prese, e si chiude con il funerale dell’amica e mai fidanzata Alice. Ma il padre di Alice ha le sembianze del padre di Lorenzo Orsetti detto Orso, ucciso in Siria combattendo con le YPG. Da Genova a Orso, sono i nostri traumi, i nostri lutti, le nostre sconfitte a strutturare Strappare lungo i bordi. Qui come altrove, e forse meglio che altrove, Zerocalcare attraverso un lavoro attento di cesellatura tra personale e collettivo riesce a rendere una storia generazionale. Per trovarsi, come tanti e tante, smarrito, o meglio immobilizzato – «la mia vita congelata», rivela a un certo punto. E allora forse la capiamo bene noi questa serie, noi che non siamo «quelli ordinati e pacificati», la cui vita è un po’ «congelata» e ha senz’altro «forme frastagliate». Noi che insomma, per fortuna o purtroppo, c’è Zerocalcare che ci racconta. [Luca Peretti]

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THE WHITE LOTUS

di Mike White (HBO/Sky Atlantic)

È difficile credere che The White Lotus, una delle serie più interessanti del 2021, sia stata scritta e realizzata da Mike White in tempi brevissimi essenzialmente per rimpinguare l’offerta seriale di HBO, inevitabilmente ridotta dalla pandemia. L’unica traccia delle drammatiche circostanze legate al suo sviluppo è la scelta di ambientare tutti e sei gli episodi in un unico luogo, un resort di lusso a Maui in cui le vite di un gruppo di facoltosi turisti si intrecciano con quelle del personale dell’hotel. Come suggeriscono gli stessi titoli di testa, che mostrano della carta da parati dalle stampe esotiche e vivaci aggredita dal marciume, The White Lotus è una serie in cui la complessa recita di sé e dei ruoli sociali messa in atto dai personaggi si incrina quel tanto che basta perché affiorino le ipocrisie, le contraddizioni, e soprattutto le diseguaglianze sociali. Le Hawaii grigie e livide che fanno da sfondo alle vicende raccontate sono, infatti, un paradiso amaro per ricchi in cerca di ristoro, ma un vero e proprio inferno per chi vive a servizio dell’industria turistica. Nella sua satira pungente sull’America WASP, The White Lotus concede ad alcuni dei suoi protagonisti fragili epifanie, effimeri percorsi di crescita, illusorie consapevolezze. Ma le fondamenta delle diseguaglianze restano inamovibili e qualunque tentativo, da parte dello staff del resort, di smarcarsi dalla propria condizione di subalternità è destinato al fallimento. Che la classe lavoratrice e le minoranze siano rappresentate solo come vittime collaterali della catastrofe esistenziale dei ricchi ospiti del resort è forse uno degli aspetti problematici della serie. Ma del resto quello di White è – mi si perdoni il brutto gioco di parole – il white guilt di uno showrunner che si riconosce nel suo stesso bersaglio e proprio per questo riesce a essere lucidissimo nella sua satira sulle differenze di classe e sui processi di colonizzazione permanente innescati dalla turisticizzazione di alcune aree del pianeta. Anche se White, insomma, non riesce a rinunciare del tutto a un certo esotismo e al bisogno di credere a una realtà più autentica con cui riconnettersi, è tuttavia capace di mettere a fuoco, con brutale onestà, il prezzo altissimo che un’ampia fetta di mondo paga per tenere viva questa e le altre fantasie che nutrono l’immaginario del capitalismo. [Chiara Grizzaffi]

DAVE (seconda stagione)

di Dave Burd e Jeff Schaffer (Hulu)

Già capace nel tempo di formidabili riscontri musicali online, nell’arco degli ultimi anni il rapper e comico Lil Dicky, al secolo Dave Andrew Burd, ha ideato e realizzato due stagioni di una rutilante serie comica più che mai autobiografica, che porta nel titolo il suo nome di battesimo e racconta, attraverso un tortuoso percorso di self-awareness, le imprevedibili peripezie di un trentenne ebreo benestante intorno ai fantasmi del talento musicale e agli scherzi che l’insicurezza mascolina può giocare al desiderio di celebrità. Se la prima stagione, già notevolissima, serviva da set-up al mondo del personaggio, concentrandosi sulla sua ossessione per un lancio di carriera tutto trivialità e personal branding (presto ricompensata dal fallimento di una relazione sentimentale satura dei suoi individualismi), con la seconda stagione siamo di fronte a un piccolo grande miracolo che brucia nella coscienza dello spettatore proprio mentre strappa sguaiatissime risate: insofferente nel dare forma al tanto agognato album d’esordio, il rapper Dave non rappresenta soltanto il catartico, insopportabile alter ego del suo ideatore, ma riflette coi suoi comportamenti l’incessante, labirintico bisogno di visibilità del tempo presente, la plateale negazione del nostro narcisismo, la miopia con cui, per inseguire un presunto successo, siamo capaci di ferire le altre persone, anche quelle a noi più care. Un vero laboratorio di inventiva per toni, ritmi, linguaggio e ospitate d’eccezione (basti citare l’episodio con Kareem Abdul-Jabbar e quello, illuminante, della chat virtuale con Doja Cat), che ci ricorda come il primo ostacolo alla nostra realizzazione sia rappresentato proprio da noi stessi, dalle nostre cornici implicite, dall’incapacità di guardarsi da fuori e perdere tutto, restando davvero nudi, prima di ritrovare la propria voce, e finalmente comporre le proprie storie. Magari per cantarle al mondo con l’amico di sempre al proprio fianco. [Marco Longo]

MAID

di Molly Smith Metzler (Netflix)

È notte quando Margaret Qualley nei panni di Alex infila in uno zaino pochi oggetti e prende in braccio la figlia per fuggire quanto più lontano possibile in macchina dalla roulotte dove abita con il compagno alcolizzato che abusa emotivamente lei. In dieci puntate da cinquanta minuti, ispirate al memoir di Stephanie Land, Maid: Hard Work, Low Pay, and Mother’s Willto Survive, la miniserie racconta le traversie di questa giovane madre americana, bianca, non scolarizzata, divisa tra l’estrema precarietà economica, una madre artista e bipolare (Andie MacDowell), e un compagno che non la picchia mai direttamente, ma che tra urla, umiliazioni, e lanci di oggetti a pochi centimetri dal suo volto abusa di lei. Se, dal punto di vista giudiziario, è molto difficile comprovare che la violenza emotiva sia effettivamente violenza domestica se non accompagnata da collisioni fisiche, per le vittime che la subiscono si tratta di violenza a tutto tondo: lo stress, la paura e il senso di svuotamento e paralisi causano sofferenze e traumi concreti, spesso permanenti. La storia, tuttavia, non si ferma alla spiegazione didattica — a cui pure molte produzioni seriali di Netflix ci hanno abituato — e allarga il campo alle difficoltà kafkiane in cui le vittime di violenza incorrono in una società, come quella americana, in cui sono erose le strutture del welfare, ma anche ai blocchi psicologici e alle forme di dipendenza e insicurezza che, molte volte, spingono la vittima a rimanere insieme ad un partner abusante. Come afferma la proprietaria del centro antiviolenza in cui Alex si rifugia, sono pochissime le donne che riescono a lasciare un partner violento al primo tentativo. Alcune volte, come nel caso di Maid, c’è un passato di abuso familiare alle spalle in cui il trauma originario di violenza e dipendenza si ripercuote sulle generazioni successive – come prova perfettamente il padre della protagonista che spalleggia il compagno abusante, non solo non aiutando la figlia, ma rendendosi esplicitamente complice di una violenza patriarcale che si ripete. Ma in Maid c’è anche la violenza economica, dei pochissimi soldi (scalfiti in sovraimpressione, scena dopo scena) che Alex riesce a guadagnare senza mai riuscire a coprire le spese e della fatica del lavoro manuale, di cura, ed emotivo che pulire i bagni e le case altrui richiede. Questo lavoro, fatto di sfruttamento, cooptazione, bassissimo salario, e nessun benefit costituisce anche occasione di riscatto e motivo di alleanza con donne diverse da lei – come è il caso di Regina, una ricca cliente e donna in carriera black, che nel corso della serie divorzia dal marito a causa della genitorialità mancata e decide di avere un figlio tramite “gestazione per altri”. È in questo rapporto che non solo si ravviva una solidarietà (discutibilmente interclassista) tra donne, ma che viene reso esplicito quanto la maternità stessa sia un lavoro, solo socialmente naturalizzato e femminilizzato, che richiede tempo, denaro, fatica, collaborazione. In questa piccola opera sulla violenza domestica, i sintomi, le dipendenze, la povertà, il lavoro di cura, le insufficienze del welfare, la maternità rimane la questione che – pur costituendo il motivo profondo del riscatto di Alex (“mother’s will to survive”, come da titolo del libro) insieme alla scrittura (e l’aspirazione agli studi universitari) – è forse la questione che meno di tutte viene approfondita. [Tania Rispoli]

WANDAVISION

di Jac Schaeffer (Disney+)

Progetto parallelo e per molti versi antitetico a quello cinematografico, le miniserie Marvel hanno portato al Marvel Cinematic Universe quelle narrazioni dagli archi narrativi ampi e quell’attenzione al cesello dei personaggi che nei blockbuster supereroici vengono ignorati in favore di un effetto “porta girevole” di trame ed eroi affastellati. WandaVision è stata la prima, e sinora insuperata: vero e proprio viaggio nel subconscio dell’universo Marvel, nonché rilettura in chiave patologica del superpotere, ha mostrato il lato oscuro e intimo del trauma; se gli Avengers, quasi sempre ma in special modo nei due capitoli conclusivi della loro saga cinematografica, agiscono per rimuovere una ferita collettiva, Wanda soffoca il suo dolore privato architettando letteralmente una mondo a parte, una dimensione parallela, una nevrosi arredata con gusto. E cosa meglio delle sitcom, della finzione idealizzata e ingenua del nucleo familiare avvolto in un confortevole lembo di Sogno americano, può lenire quel dolore? Ed ecco che WandaVision esplicita la funzione escapista e normativa delle sitcom trasformando la miniserie in un palinsesto di show classici del piccolo schermo statunitense, da Io e Lucy a Vita da strega, da La famiglia Brady a Gli amici di papà, da Malcolm a Modern Family: un filologico, raffinatissimo studio dell’evoluzione seriale, rimesso in scena con cura del dettaglio e con una patina di perfezione scenografica sotto la quale si intravvedono le crepe perturbanti della vita reale. La sitcom come anestetico, come bugia collettiva, come prigione, perfino (tale è per tutti i comprimari, costretti da Wanda a recitare secondo il suo copione): un gioco metatelevisivo che, per nove episodi (e nonostante un finale più convenzionale), ha trasformato i supereroi Marvel in sinistre controfigure di noi spettatori. Annettendo anche, con il ritorno a una distribuzione settimanale delle puntate, un discorso sul tempo e un tenativo, quasi, di rieducazione all’attesa (quell’assillante «Please stand by» dopo ogni cliffhanger) e alla narrazione seriale che il binge watching e i blockbuster da 180 minuti hanno progressivamente eroso. [Ilaria Feole]

EXTERMINATE ALL THE BRUTES

di Raoul Peck (HBO)

Un film? Una serie? Un documentario? Un saggio? Exterminate All The Brutes di Raoul Peck per HBO, quattro ore di filmati e voce narrante del regista organizzati in quattro capitoli è difficile da classificare secondo i consueti standard. L’opera del regista, il cui titolo è un chiaro ferimento a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, si preoccupa principalmente di smontare alcune delle prospettive con le quali si è guardato e raccontato quel passato; la scoperta di nuove terre, l’arretratezza e l’inciviltà dell’altro, tutti elementi presenti in gran parte delle ricostruzioni storiche che raccontano quel passato vengono così messi alla prova dello sguardo, lo sguardo del colonizzato e dell’oppresso. E con quegli occhi Peck non vede alcuna terra nuova scoperta ma dei territori abitati che vengono sottratti ai legittimi abitanti, vede dei modi di organizzazione sociale ed economica legittimi, diversi da quelli degli europei, che vengono stravolti e cancellati per sempre dall’imposizione del capitale. La critica mossa non è indirizzata soltanto alle dinamiche del colonialismo ma al modo in cui la sua storia è stata scritta e raccontata, il più delle volte adottando la prospettiva del colonizzatore in maniera acritica. Il regista si chiede e ci chiede perché l’attenzione e la sensibilità con cui si è scritta la storia della Shoah non siano utilizzate per raccontare il genocidio dei nativi americani. Anche in questo caso Peck si ancora alla ricerca storica e fa un chiaro riferimento agli studi di Howard Zinn e al suo capolavoro A People’s History of the United States. Nonostante la rilevanza storiografica del lavoro di quest’ultimo, il regista fa notare come da quel racconto manchi una parte centrale ed essenziale, la storia dei nativi americani. Interrogato su questa mancanza lo storico statunitense aveva spiegato di non sapere come approcciare quella parte della storia e per questo motivo aveva preferito evitare di trattarla in uno dei volumi che hanno segnato un punto di non ritorno nella storiografia sugli Stati Uniti. In quella difficoltà Peck sembra invece immergersi anche se nel suo lavoro sembra prevalere la contrapposizione colonizzato/colonizzatore con poco spazio riservato all’indagine di tutte le dinamiche che fuoriescono dalla contrapposizione bianco/nero; Exterminate All The Brutes lascia poco spazio ai toni del grigio, e cioè a tutte le dinamiche di mescolanza determinate dall’incontro/scontro coloniale; è un’opera concentrata totalmente sulla decostruzione di una lettura eurocentrica del colonialismo. [Alessandro Pes]

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SQUID GAME

di Hwang Dong-hyuk (Netflix)

Nel “survival game” al centro della serie chi supera una prova passa alla successiva; chi perde, viene giustiziato (o muore in modo violento nel corso del gioco). La partecipazione al gioco è libera e volontaria, ma implica regole implacabili: una volta che si acconsenta a partecipare, non si può lasciare il gioco, salvo che la maggioranza dei giocatori non decida di sospenderlo. All’interno dell’isola dove si svolge la vicenda, vige infatti un formale egualitarismo. Tutti i partecipanti hanno lo stesso vestito, le stesse condizioni di gioco, lo stesso diritto di voto democratico e, in linea teorica, le stesse opportunità di vincere. In molti hanno attribuito alla serie un significato di critica sociale, una pista interpretativa suggerita anche da Hwang Dong-hyuk in una recente intervista, dove precisa che il suo è un atto di accusa verso l’ingiustizia sociale prodotta dal capitalismo: «sono convinto che l’ordinamento economico globale è fondato sulla disuguaglianza e che al 90% gli esseri umani sono convinti della sua profonda ingiustizia». Bisogna dire che la critica al modello economico capitalistico non è probabilmente l’aspetto più convincente della serie, che si fonda su distinzioni sociali troppo elementari (grassi ricchi uomini d’affari contro poveri disperati assetati di denaro) per poter seriamente illuminare la complessa natura della società capitalistica. La rappresentazione della ricchezza come forma di depravazione non offre maggior aiuto, tantomeno il fastidioso inserto nella serie di un trito topos omofobico per cui uno dei ricchi carnefici è rappresentato secondo il cliché hollywoodiano dell’”omosessuale degenerato”, come se l’omosessualità concorresse a comporre il quadro di degrado morale del soggetto in questione.

L’originalità della serie e forse anche la chiave del suo successo, risiede piuttosto nella capacità di costruire un sadico “laboratorio morale” dove è messa alla prova la capacità umana di scegliere in situazioni di estrema costrizione. Quella di Squid Game è una società distopica, semplice e schematica, priva di un reale contesto storico e fatta di personaggi che non mostrano particolare complessità psicologica, adagiati come sono su alcuni classici stereotipi cinematografici: l’ingenuo d’animo buono, il leader di intelligenza superiore ma senza cuore, il delinquente violento, la ragazza debole e misteriosa, il vecchio indifeso. Questo contesto astratto e formalizzato, che davvero ricorda gli esperimenti mentali dell’etica analitica, si dimostra particolarmente adatto alla formulazione di questioni etiche, sullo stile di quelle poste dalla Thompson. È come se il regista, dopo aver attirato lo spettatore in una torbida trappola di tensione, ansia e violenza insensata, riuscisse inaspettatamente a proiettarlo in un’arena metafisica, dove si trova costretto a partecipare al vero “Squid game”, uno scivoloso dialogo interiore che si innesca di fronte alle provocazioni etiche del film. Agiamo davvero liberamente? Chi è vittima e chi carnefice in questa guerra di tutti contro tutti? Che senso ha il merito in una società viziata dalla disuguaglianza? [Angelo Bonfanti]

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SCENES FROM A MARRIAGE

di Hagai Levi (HBO/Sky Atlantic)

Aggiornare Bergman per tenerne in vita le domande assolute sull’amore e i suoi legami fallimentari, impotenti, svuotati: sembra proprio questo lo spirito su cui si fonda la miniserie ideata e diretta da Hagai Levi (veterano dei racconti plurifocali – In Treatment – e dell’incompatibilità dei punti di vista – The Affair), quasi mezzo secolo dopo l’omonima pietra miliare del maestro svedese, di cui conserva fedelmente anche i titoli di (quasi) tutti gli episodi. Dimenticarsi Erland Josephson e Liv Ullmann per lasciare spazio ai pur talentuosi Oscar Isaac e Jessica Chastain non è affatto semplice: in questa operazione di forte prossimità aiuta certamente la sensazione di assistere a una sorta di reenactment, con tanto di troupe mascherinata in bella vista – la serie è stata accompagnata e interrotta dalla pandemia – e attori che entrano in scena e “scivolano” nel personaggio a ciak già battuto. Cinque momenti scanditi nel tempo per sintetizzare le promesse mancate di una coppia lacerata e “analfabeta” verso quei sentimenti che, se non una riconciliazione, permetterebbero quantomeno di assicurare un orizzonte di senso alla relazione, al suo lascito materiale e genitoriale. Fin da Bergman sappiamo però che il matrimonio è la cronaca temporanea di un’inconciliabilità annunciata, perché non si può controllare (verbalizzare, carnalizzare) ciò che cristallizzato non potrà mai essere, se non al costo di livori e sofferenze (“Sento che impazzirò se non me ne vado ora da questa casa”, proclama affranto il personaggio di Chastain). Colpisce in questa versione contemporanea la scelta di ribaltare i termini della partita, attribuendo alla donna, capitana d’azienda e breadwinner della famiglia, il ruolo di chi tradisce e abbandona, laddove nell’originale “spettava” all’uomo, e lasciando oggi a quest’ultimo, caregiver più per indolenza che per vocazione, l’irriducibile verbosità con cui tenta di afferrare quel mistero che nella migliore delle ipotesi può scorgersi soltanto nella voragine di un non detto, di un desiderio fuori tempo massimo. [Marco Longo]

MASTER OF NONE – MOMENTS OF LOVE

di Aziz Ansari e Lena Waithe (Netflix)

Master of None è un’ulteriore serie rappresentativa delle produzioni nell’era Covid, non solo perché si svolge in un unico luogo – un’enorme casa di campagna –, ma perché mette al centro la coppia. Siamo di fronte, infatti, all’ennesima versione di Scene da un matrimonio che quest’annata seriale ci propone: all’apparenza meno rischiosa, in tempi di lockdown e distanziamenti, delle app di dating o delle relazioni poliamorose, l’istituzione del matrimonio nella serialità della pandemia è spesso una gabbia nella gabbia, un microcosmo fragilissimo da osservare per capire come mai ogni tentativo di stabilire un equilibrio al suo interno sembra destinato allo scacco. E così, nei cinque episodi della serie assistiamo alla disgregazione del matrimonio fra Denise (Lena Waithe), personaggio secondario delle prime due stagioni di Master of None promossa qui a protagonista, e Alicia (Naomi Ackie). Come in certo cinema della modernità – e come accade, dopotutto, anche nella vita reale – la crisi non viene ricondotta ad avvenimenti precisi: il deteriorarsi della relazione, l’aumentare inesorabile delle distanze nei due percorsi di vita e di crescita delle protagoniste ci viene mostrato raccontando il banale, il quotidiano, ed è enfatizzato da un 4/3 che stride con l’ampiezza degli interni.

Per il ritorno della sua creatura, Ansari sceglie la via del cambiamento radicale, al limite dell’irriconoscibilità: non ci sono più New York e la frenesia della metropoli, il registro umoristico cede il passo a quello malinconico, la regia si rifà a certo cinema contemplativo (non senza vezzi manieristici), e perfino Dev/Aziz, protagonista delle prime due stagioni, è qui poco più di una comparsa. Probabile che non ci si sbagli nel leggere il farsi da parte di Ansari come un modo per sciogliere il nesso indissolubile fra lui e la serie, anche alla luce delle accuse di condotta sessuale inappropriata che lo hanno investito nel 2018. Da allora, infatti, il comico ha tenuto un profilo basso e ha lavorato per costruirsi un’immagine più matura. Tuttavia, il personaggio interpretato da Waithe, che firma di nuovo la sceneggiatura della serie, sembra costruito per esorcizzare la paura di entrambi di precipitare dopo essere arrivati in cima, di fallire dopo aver assaporato un successo che, per un attore di origine indiana e un’autrice nera e queer, assume anche una valenza politica. Master of None – Moments in Love getta uno sguardo sul futuro dei Millenial protagonisti delle dramedy degli anni dieci, convinti di prendersi il mondo grazie al loro talento, e non concede loro alcun lieto fine: nella sua fugace apparizione, Dev rivela a Denise di essere tornato a vivere nel Queens dai suoi genitori, e la stessa Denise deve fare i conti con la natura effimera della fama e la precarietà nel mondo delle professioni creative. La terza stagione di Master or None, dunque, è il risultato di una nuova consapevolezza: la vita, come l’amore, non è fatta di percorsi lineari, ma di slanci in avanti e ritorni indietro, brusche interruzioni e faticose ripartenze. [Chiara Grizzaffi]

LA CASA DE LAS FLORES (terza stagione)

di Manolo Caro (Netflix)

La casa de las flores è una serie messicana del 2018 che è giunta alla terza stagione.  Ideata e diretta da Manolo Caro è interpretata, fra gli altr* da V. Castro, C. Suárez, D. Yazbek Bernal e A. Ríos, A prima vista è una telenovela su una ricca famiglia borghese dei quartieri alti di Città del Messico – alti anche fisicamente, Las Lomas de Chapultepec, sotto cui si distende il resto della metropoli. I de la Mora possiedono la prima fioreria della capitale – ogni episodio ha il nome di un fiore e insieme allude al ruolo dei fiori come simboli del sesso, ereditato dalla mitologia precolombiana nahua – e mentre festeggiano un anniversario scoprono il cadavere di una loro dipendente impiccata. Parte di qui la disgregazione della famiglia, la suicida, Roberta, era l’amante del patriarca de la Mora, che le aveva intestato, con lo stesso nome della fioreria e della serie, un “cabaret” equivoco ma fruttuoso. Un perfetto melodramma, ma poco a poco tutti i personaggi rivelano un lato irregolare che finisce per essere accettato e compensato a favore dell’unità familiare: il padre ha fatto carte false per coprire i debiti dell’amante e ora fa accettare in famiglia la figlia segreta di quella relazione, il figlio è bisessuale e fa coppia con il commercialista della casa, una figlia è ninfomane e porta alla festa interrotta il fidanzato afroamericano, un’altra soffre per l’abbandono del marito che ha iniziato un percorso di transizione, tutti si danno da fare per incrementare i guadagni del bordello omonimo della fioreria per salvare quest’ultima e saldare i buffi fraudolenti del padre arrestato. La tragedia annunciata si trasforma in una commedia esilarante e spregiudicata in cui praticamente tutti i lati del sesso e della morale più alieni al perbenismo corrente sono sdoganati e spinti al paradosso. Tutto senza abbandonare la struttura e gli scenari della telenovela e ovviamente la sua fruibilità di massa. Niente di eccezionale e anche una palese ricaduta almodovariana, ma se pensiamo alla penosa “audacia” di certe serie italiane vale la pena di frequentarla e divertirsi. [Augusto Illuminati]

ALICE IN BORDERLAND / SWEET HOME

(Netflix)

Che Squid Game sia un precipitato della società della competizione e una sua critica feroce, appare chiaro. Ci sono altre due serie coreane, su Netflix, che appaiono ancora più radicalmente critiche nei confronti della società della prestazione. Una basata sui survivor games, meno fumettosa e più interessante, Alice in borderland, e adesso una apocalittica, Sweet home. La cosa interessante è che in ambedue è centrale la figura di un hikikomori, un ritirato sociale. Che prende in mano la situazione e si propone per la salvezza di tutti. Proprio perché estraneo alla logica di un mondo che ha rifiutato radicalmente, è in grado di tracciare una strada per la salvezza. Il ritiro sociale infatti è legato a richieste prestazionali particolarmente marcate e a una forma di protezione dall’angoscia data dallo sguardo dell’altro puntato addosso. Il terrore dello sguardo incombe giudicante sull’adolescente, che prende rifugio nell’intimo della sua camera, la sua nicchia ecologica di sopravvivenza e, molto spesso, nell’ambiente virtuale della rete. Ci si chiude nella propria caverna – ma, attenzione, una caverna da dove si vede il mondo – per far fronte allo smisurato sentimento della vergogna che prende davanti allo spettro dello sguardo altrui. La vergogna – sentimento che nell’epoca di Narciso ha sostituito il senso di colpa – erompe con esiti distruttivi a fronte del senso di fallimento e di inadeguatezza per le richieste performative a cui si è sottoposti prima dai genitori e poi dalla scuola. Se per la generazione precedente i sintomi ansiosi e depressivi erano sempre più sollecitati dall’affermazione della cultura prestazionale, per la generazione di adolescenti cresciuti in una società totalmente prestazionalizzata il senso della vergogna sociale e l’incubo del fallimento sono onnipresenti – e in alcuni si mostrano in questi esiti estremi, in un romitaggio parasuicidario nella propria camera. Se è vero che nel corpo dell’hikikomori precipitano le contraddizioni della società della prestazione, allora non può che essere lui a portare a compimento quella ribellione muta, implicita e fallimentare che aveva preso corpo nel suo ritiro. Chi aveva rinunciato volontariamente alla parola, decide di parlare, e parla per tutti. Chi aveva rinunciato all’azione, agisce per conto di tutti. In Alice in borderland la figura dell’hikikomori è speculare a quella di una ragazza altrettanto estranea alla società, che ha vissuto nei boschi e le rocce, e legge Thoreau. Ambedue, dalla loro postazione romitica, di estraneità assoluta, sanno orientarsi meglio degli altri nell’inferno di una città deserta come in Alice in borderland (e suona speculare quel che, in Sweet home, il doppio mostrificato dice all’hikikomori: «Volevi che sparissero tutti!») o in un condominio assediato dai mostri come in Sweet home. Nel collasso totale, a condurre il gioco è chi già aveva assunto su di sé il collasso sociale e, ripartendo da una minima comunità di affetti, l’hikikomori può procedere verso la salvezza, combattendo i propri mostri, che sono quelli di tutti. [Marco Rovelli]

Menzioni:

  • IT’S A SIN di Russell Davies (HBO Max/Starz Play)
  • RESERVATION DOGS di Taika Waititi e Sterlin Harjo (Hulu/Disney+)
  • INSECURE (quinta stagione) di Issa Rae e Larry Wilmore (HBO/Sky Atlantic)
  • SUCCESSION (terza stagione) di Jesse Armstrong (HBO/Sky Atlantic)
  • THE MORNING SHOW (seconda stagione) di Jay Carson (Apple TV+)
  • HACKS di Lucia Aniello, Paul W. Downs e Jen Statsky (HBO Max)
  • THE CHAIR di Amanda Peet e Annie Julia Wyman (Netflix)
  • STARSTRUCK di Rose Matafeo e Alice Snedden (BBC/HBO Max)