MONDO

Una strategia internazionalista per il movimento di Hong Kong

Il piano di sanzioni approvato dal senato degli Stati Uniti e finalizzato a bloccare la nuova legge sulla sicurezza nazionale, si è dimostrato del tutto inefficace e controproducente per il movimento di Hong Kong. È arrivato il momento di guardare oltre i confini rivolgendo però lo sguardo ai movimenti dal basso più che alle élite politiche

La nuova legge di Hong Kong sulla sicurezza nazionale, che criminalizza il dissenso, apre la fase più buia del movimento antisistema della città. Nel tentativo di bloccare la legge e di preservare lo status speciale di Hong Kong, il senato statunitense ha approvato all’unanimità un piano di sanzioni contro la Cina condiviso da democratici e repubblicani, che però non ha impedito a Pechino di imporre la sua legge. In realtà, le sanzioni non hanno fatto che peggiorare la situazione di Hong Kong, nonostante l’intenzione di preservarne l’autonomia. Con la legge ormai in vigore, Demosisto, guidato da personalità del calibro di Joshua Wong e considerato da tempo il gruppo del movimento più abile nel mobilitare la solidarietà internazionale, è sbandato, rivelando i limiti della linea “internazionalista” del movimento.

In effetti, la richiesta d’aiuto rivolta da Hong Kong al governo statunitense ha rubato la scena agli attivisti attivi negli USA e alle organizzazioni di base. Da quando è nato il movimento di Hong Kong, questa strategia internazionalista ha preferito fare la corte ai funzionari eletti piuttosto che solidarizzare con la società civile, le organizzazioni sul territorio, i sindacati nel mondo. Eppure le lotte antisistema sono scoppiate dappertutto (come le proteste contro l’ineguaglianza economica dell’anno scorso in Cile, la richiesta di dimissioni del governatore di Portorico, le proteste dei gilets jaunes in Francia, fino al movimento per la liberazione degli afroamericani di quest’anno). La fiducia nei governi degli Stati è crollata in tutto il mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, dove la partecipazione alle elezioni lambisce appena il 60%, l’operato del Congresso è approvato da meno del 20%, ed entrambi i candidati dell’imminente elezione presidenziale sono assai poco apprezzati.

A differenza del governo statunitense, il cui sostegno a Hong Kong ha preso la forma della sanzione (che finisce per danneggiare innanzitutto la popolazione di Hong Kong), i movimenti americani di base possono fare molto di più per Hong Kong.

 

In effetti, il movimento di liberazione dei neri americani attualmente in corso può mostrare a Hong Kong come si costruisce un movimento di massa.

 

Anche se può sembrare privo di dirigenza, il movimento antirazzista è stato invece costruito dall’instancabile attività delle organizzazioni di base. Lo storico afroamericano Robin D. G. Kelley rileva come «la protesta “Black Lives Matter” non costituisce una risposta spontanea alla pandemia ma è il risultato del “lavoro enorme” compiuto dai gruppi, dai dirigenti di movimento, dagli studiosi impegnati e dalle organizzazioni di base».

Gli organizzatori neri ci hanno mostrato che non ci sono scorciatoie nella costruzione del potere. A Minneapolis, se la loro campagna per sciogliere il dipartimento di polizia in una delle città più razzialmente inique della nazione è stato un successo straordinario, questo si deve agli anni di lavoro organizzativo e di coalizione svolto in primo luogo da organizzazioni locali come “Reclaim the Block” and “Black Visions Collective”, che vi sono riuscite senza delegare a porte chiuse questo o quel politicante ma mettendo in condizione di agire i membri delle comunità, coinvolgendoli in discussioni sulla tattica (p. es. la mobilitazione dei vari distretti per fare pressione sui propri rappresentanti nei consigli comunali) e sulla teoria (per esempio l’analisi di come le lotte politiche locali siano il riflesso del fallimento sistematico della rappresentanza elettorale). Una lezione simile la dà il movimento di Puertorico, costruito nel corso di una lunga storia di organizzazione femminista di gruppi quali La Colectiva Feminista en Construcción.

Dallo studio dei movimenti nel mondo, Hong Kong può anche imparare a costruire il movimento attraverso l’organizzazione del lavoro. All’inizio di quest’anno i lavoratori di Hong Kong hanno lanciato un movimento di sindacalizzazione senza precedenti nella storia della città, imparando dai sindacalisti esperti che si sono fatti le ossa sui luoghi di lavoro. In alcuni casi, hanno già cominciato a prendere piede scambi internazionali. La Confederazione Sindacale di Hong Kong (Hong Kong Confederation of Trade Unions, HKCTU) ha visto i suoi dirigenti allacciare contatti con le organizzazioni di patrocinio dei lavoratori del genere di Labor Notes, con sede negli Stati Uniti, e lavoratori nella sanità statunitensi e di Hong Kong hanno condiviso le loro strategie in incontri in rete.

Studiare i movimenti altrui e scambiare tattiche è un primo passo positivo, ma si può fare molto di più. Con centinaia di migliaia di cinesi del continente e di Hong Kong sparsi per il mondo, la diaspora cinese si trova in una posizione unica per poter fare da tramite fra i vari movimenti. I gruppi della diaspora, come il NY4HK, l’Hong Kong Forum, il Northern California Hong Kong Club, l’Alliance Canada Hong Kong, dispongono di sedi in tutti gli Stati Uniti e in Canada proprio dove l’attivismo comunitario sta montando, rendendoli il tramite ideale per gli scambi fra i movimenti. Per esempio, Hong Kong può lavorare insieme, e imparare dalle Chinatown e dagli attivisti asioamericani per contrastare la diffusione di propaganda pro-PCC tramite WeChat fra le comunità di emigrati asiatici. Molte di queste narrazioni pro PCC si basano su una retorica della “legge e ordine” mirante a indurre gli emigrati asioamericani a opporsi al movimento “for Black lives”.

In effetti, la diaspora di Hong Kong è estremamente mobile, con un numero in aumento di emigrati nati negli anni 90, tornati a Hong Kong nel primo e secondo decennio di questo secolo, ed emigrati di nuovo di recente a causa dell’atmosfera politica, noti come “ri-rimpatriati”.

 

Anche solo semplicemente per ragioni culturali o linguistiche, la diaspora – costantemente in bilico fra leggi occidentali e stati cinesi – si trova in una posizione unica per facilitare il dialogo internazionale.

 

Dulcis in fundo, esaminando come le altre organizzazioni di base agiscono si possono a propria volta scoprire i limiti del proprio movimento. Per esempio, l’atteggiamento di rifiuto di ogni coordinamento da parte dei dimostranti di Hong Kong si è convertito, da compromesso strategico, a dogma e la sua mistica della “assenza di dirigenza” è sfociata in mancanza d’organizzazione e in una visione politica annacquata. È stato un tipo di decentramento che ha beneficiato i dimostranti sotto diversi aspetti importanti, ma non senza implicare gravi limitazioni.  Al contrario, il movimento per la liberazione dei neri è riuscito, grazie ad anni di educazione politica e lavoro organizzativo, a restare decentrato ma contemporaneamente ad articolare richieste impellenti chiaramente incentrate su un’ampia critica anticapitalistica del regime vigente.

Tramite il lancio nel mondo di parole d’ordine radicali come quella di sciogliere il dipartimento di polizia, Hong Kong può individuare nuove line di collaborazione internazionale. Tuttavia, invece di continuare nella strategia seguita in questi ultimi anni, di dare la priorità a politicanti statunitensi, che poi hanno finito per trattare Hong Kong come un pedone sulla scacchiera geopolitica, è venuto il momento di collegarsi con le organizzazioni militanti di base e d’imparare a elaborare tattiche sostenibili ed efficaci nella lotta anti-regime di Hong Kong.

 

Foto di copertina di Beryl_snw, dal sito Lausan

Articolo ripreso da Lausan 

Traduzione italiana per DINAMOpress di GioGo.