EUROPA

Squatting is not dead! Uno sguardo da Madrid

Come il punk, gli squat non sono morti. L’occupazione di edifici per arginare l’emergenza abitativa e la mancanza di strutture per l’aggregazione sociale è in continuo aumento. Madrid ne è un esempio, come vediamo in questo articolo pubblicato su menelique #2 La città muta

Punk in not dead! Sentivo spesso questa esclamazione quando cominciai a girare per gli squat di Madrid alla fine degli anni 80. Se devo essere sincero, la musica punk non ha mai fatto per me. Amavo band e cantanti non puramente punk, come i Clash e Patti Smith, per esempio, e invece molti degli artisti punk che vedevo negli squat spesso erano molto lontani dal mio gusto, sebbene molto eclettico. Ma non importa. Il mondo punk che gravitava attorno allo squatting era una specie di porta di accesso a una specifica azione diretta che scatenò subito il mio interesse: occupare palazzi vuoti nel centro di una città capitalista. Madrid, nel mio caso. Come mai l’attitudine punk era ancora viva e vegeta negli anni 90? Perché anche lo squatting se la passava benissimo?

Se vogliamo essere realistici, entrambi i fenomeni erano delle anomalie e eccezioni rispetto ai trend mainstream, e io non ero niente di più di uno studente universitario curioso, avido di nuove intuizioni sulla vita e sulla società. È così che mi resi conto che i punk, dietro le loro giacche di pelle nera e le loro creste colorate, promuovevano stili di vita antiautoritari, antifascisti, antirazzisti, fai da te e low cost che si guadagnavano una meritata eco attraverso gli squat. Alcuni si accostavano allo ska, al rock e anche alla musica latina, per la mia gioia. A ogni modo, osservai anche le condotte autodistruttive e di autoisolamento di diversi uomini bianchi (in stile ghetto, come erano conosciuti) che spesso si associavano al loro piagnucolare ‹senza futuro›, piuttosto lontano dalle mie nascenti aspirazioni rivoluzionarie.

 

Il comunismo libertario, l’autonomismo e il femminismo marxista mi sembravano degli approcci molto più interessanti e coerenti, soprattutto dopo aver letto Murray Bookchin o Silvia Federici, per esempio, tra i vari volantini, fanzine e pubblicazioni radicali che circolavano nella cultura underground.

 

Negli anni, mi accorsi che le feste e i concerti negli squat presentavano una grande varietà di stili musicali, dal flamenco e dai cantanti folk all’hip hop e alla techno. Cosa più sorprendente, le discussioni politiche che avvenivano tra le più ampie reti sociali di cui gli squat erano nodi centrali erano molto più ricche di quanto il background del punk old school avesse promesso, specialmente dopo la sollevazione zapatista del 1994 e nel periodo del movimento per un’altra globalizzazione dei primi anni 2000. Ho vissuto a Madrid a momenti alterni in periodi diversi, ma ho tenuto traccia di questo mondo dello squatting fino a ora, perciò un breve resoconto della sua natura e della sua resilienza varrebbe la pena farlo.

Il principale interesse che guida la mia narrazione è la diversità sociale dello squatting. Ma perché diversità? In teoria, questo è un concetto che tendo a rifiutare perché elogia una visione liberale della società, fatta di individui unici (o solo di differenti gruppi) e che al contrario appiattisce i conflitti sociali, le polarizzazioni e le disuguaglianze che corrono lungo linee di classe, di genere e di etnia, per citarne alcune. La pratica dello squatting mi è sempre sembrata un potente strumento per rendere visibili questi ultimi aspetti: chi non possiede niente contro chi ha delle proprietà; lo squatting come protesta ‹qui e ora› contro le speculazioni di mercato e, nello stesso tempo, come contestazione delle insufficienti, o assenti, politiche abitative per i poveri; gli squat come luoghi di sperimentazione politica, aggregazione e mobilitazione.

 

Quando vivere è un lusso, lo squatting è un diritto. Una lotta per i bisogni sociali, da un lato; un crudele mondo di squali immobiliari e di fondi avvoltoio, dall’altro.

 

Senza dubbio una guerra di classe (ma anche di genere e di razza). E ancora, esistevano diversi tipi di squat, di squatter e di visioni del praticare squatting. E credo che anche questa diversità sia importante.

Oltre a svariati tipi di musica, negli squat si facevano un sacco di attività – da hackerspace a ciclofficine, da sale prove a corsi di lingue, da campagne di solidarietà a dibattiti politici. Alcuni squat erano più inclini a ospitare partiti politici, sindacati e organizzazioni riconosciute. Altri erano più interessati al cibo biologico, a ospitare migranti e a essere luoghi di incontro per artisti. C’erano squatter che passavano con rapidità da un posto occupato a un altro, in genere solo persone giovani, e squatter che rimanevano nello stesso per decenni, anche con la loro prole. I centri sociali occupati e autogestiti hanno seguìto dei percorsi diversi, se comparati alle esperienze di squatting finalizzate solo a trovare un tetto. Non erano infrequenti sovrapposizioni, intersezioni e conflitti interni anche tra tutte queste categorie. La mia prima risposta è: la diversità è un ricco, vivace e nascosto patrimonio dello squatting, ma anche il risultato di una politica troppo frammentata, in cui l’autonomia di ogni progetto di squatting prende il comando.

Per rafforzare la mia tesi, lasciatemi ricordare due episodi. Uno è l’emergere di un gruppo di estrema destra, l’Hogar Social, che dal 2014 ha occupato diversi palazzi imitando quello che Casa Pound aveva fatto a Roma. La loro prima occupazione ebbe luogo a pochi metri di distanza da altri due squat autonomi e consolidati, La Enredadera e Coko. Si scatenò subito uno scontro tra questi due tipi di squatting.

 

Malgrado i media mainstream abbiano ritratto tutti gli squatter come persone violente e estremiste, quante tra loro erano fasciste e xenofobe vennero rapidamente respinte da una larga coalizione composta da tutti gli squat di sinistra (o della sinistra libertaria), da altri centri sociali non occupati e da molte altre organizzazioni riconosciute di tutta la città.

 

Manifestazioni, affissioni, comunicati stampa e altre azioni allontanarono gli squatter fascisti. Lo squatting poteva includere identità politiche molto sparse sul territorio, ma uno squat fascista in una zona proletaria del centro cittadino (Tetuán) rese chiaro il confine tra due significativi tipi di squatting. Altre piccole differenze all’interno delle fitte reti di squat e non squat che furono costruite nel corso dei decenni diventarono insignificanti. Suppongo che torni sempre in mente il Fronte Popolare contro il fascismo nato negli anni 30. In ogni modo, l’Hogar Social non è scomparso e i suoi membri hanno continuato a fare squatting dopo quell’iniziale tentativo, per fortuna senza ottenere grande legittimazione sociale e supporto.

Un secondo episodio accadde qualche anno prima, nel 2009, sempre nel centro cittadino, ma in un’area più gentrificata (Malasaña). Lo squat Patio Maravillas fu attaccato da un gruppo clandestino anarco-vegano. Un pollo putrefatto riempito di petardi esplose una notte davanti allo squat. Inoltre una scritta sui muri criticava il fatto che gli squatter del Patio consumassero carne e negoziassero con il governo locale per ottenere un accordo legale. Tra gli attivisti le interpretazioni dell’attacco furono diverse. Per alcuni, la questione del veganismo era controversa, ma non aveva creato delle grandi spaccature tra le reti che univano gli squatter tra di loro. A ogni modo, la questione della legalizzazione era una cosa più delicata. Precedenti esperienze di legalizzazione, come nel caso dello squat femminista Eskalera Karakola o di quello di Seco, rivolto più al quartiere, mostrarono che il dibattito in merito aveva profondamente attecchito nei movimenti radicali della città. Allora la maggior parte degli squat scelsero di resistere il più a lungo possibile, senza rivolgersi al Comune per ottenere finanziamenti o sedi legali.

Tuttavia non esisteva una voce comune per il movimento dello squatting. Comparato a altri squat, il Patio era uno dei pochi in grado di mobilitare nelle strade un gran numero di sostenitori. Solo il Laboratorios (che si trovava a Lavapiés, un’altra zona proletaria in centro città) e La Casika (nel periferico comune di Móstoles) riuscivano a radunare grandi folle come il Patio.

 

Manifestazioni organizzate da altri squat anarchici o antifascisti non raggiunsero mai una partecipazione simile, se non quando un sedicenne, Carlos Palomino, fu ucciso da un militare fascista.

 

Sebbene il mondo dello squatting fosse senz’altro diviso tra varie reti di affinità, ricordo quei cortei e il ‹Piccolo campionato del mondo antirazzista› di Alcorcón (un comune metropolitano vicino a Móstoles), che si tennero alla fine dell’estate del 2009 come segnali di un’unione informale ma resistente. Ironicamente, durante le partite dei mondiali di Alcorcón la squadra del Patio indossò magliette con la stampa di un pollo armato.

Guardando indietro, gli anni 90 sono stati attraversati dagli invani tentativi di egemonizzazione del movimento dello squatting da parte di Lucha Autónoma. Un’altra iniziativa è durata una settimana all’anno per tutto il decennio del 2000, la Semana de Lucha Social ‹Rompamos el Silencio›, che aveva lo scopo di far convergere lotte diverse. Il progetto ha anche contribuito a rianimare lo squatting, ma aveva certamente un obiettivo politico più ampio. In ogni caso, il cambiamento più rilevante è avvenuto con le manifestazioni del 2011 e le occupazioni delle piazze, il cosiddetto Movimento 15M. La crisi economica globale scatenò una nuova ondata di occupazioni, molte delle quali esclusivamente a scopo abitativo. L’ultima, guidata dalla PAH (Piattaforma per le vittime dei mutui ipotecari), puntava a immobili vuoti di proprietà delle banche e diede forza a migliaia di donne e di migranti indigenti. Ma le loro principali rivendicazioni erano affitti accessibili e case popolari. Alcuni dei centri sociali occupati nel tempo vennero legalizzati (Montamarta, Salamandra), alcuni attivisti di precedenti squat (La Traba, per esempio) si unirono a centri sociali autonomi non occupati (EVA), e squat autonomi emergenti (come EKO) guadagnarono influenza come luoghi di incontro per molti gruppi locali anti-austerity. Lo squatting come modo alternativo e collettivo di abitare visse un momento di rinascita, come per esempio nel caso di La Barraka e di Cambalache, nel quartiere di Lavapiés. Da allora si sono create nuove alleanze, come la rete REC (Red De Espacios Ciudadanos) e, più di recente, la rete REMA (Red de Espacios de Madrid Autogestionados), che include centri sociali con tanti diversi status legali e che promuovono ancora progetti di squatting, come La Ingobernable. Di conseguenza, gli strappi rispetto alla legalizzazione hanno perso la loro capacità di fare a pezzi il movimento. Anche gli squat fascisti sono stati completamente schiacciati.

In conclusione, la diversità interna tra gli squatter è ancora là fuori ma il movimento continua a mutare e a poggiare su deboli e/o forti legami di politiche autonome. Quello che ho imparato dallo squatting a Madrid è che il coordinamento formale, strategie comuni e mobilitazioni di massa non erano possibili e non servivano. Nonostante ciò, le molteplici esperienze di autogestione e i collegamenti di parecchi movimenti sociali tra loro hanno reso le infrastrutture dello squatting e le reti abbastanza solide nel corso del tempo.

 

Molto dello spirito punk non è morto. E neppure lo squatting.

 

Tuttavia, al contrario di come il punk è stato inglobato dai brand della moda con l’impressione che la sua spinta sovversiva sia stata domata, ho visto l’intero movimento di squatting di Madrid come una forza in grado di sfidare i ricchi e i potenti, una forza capace di aprire delle spaccature nel sistema capitalistico creando spazi liberi per una vera cooperazione sociale. È importante riconoscere la sua varietà, la sua ibridazione e la sua porosità come caratteristiche principali del suo sviluppo, così come i suoi alti e bassi in differenti periodi storici. Ma a mio parere, in fin dei conti, è ancora più importante comprendere l’autonomia del movimento di per sé, la sua continuità e la lotta comune. Ecco qualcosa che riceveva sempre apprezzamenti quando la cantavo: Un desalojo, otra okupación (Uno sgombero, un’altra occupazione!)

Pubblicato originariamente su: menelique #2 La città muta

Titolo originale: Squatting is not dead!

Traduzione in italiano: Silvia De Marco

Immagine di copertina di: Matteo Dang Minh