ROMA

Sapienza occupata contro la guerra, le voci dellə studentə

Alla Sapienza due giornate di occupazione con molti incontri tesi a elaborare collettivamente un discorso un pacifismo radicale che vada oltre la narrazione dominante. La prospettiva? La costruzione un movimento europeo contro la guerra

Nell’ateneo più grande d’Europa, le giornate conclusive di marzo hanno visto un’occupazione che ha rotto il soffocante silenzio degli ultimi anni vissuto dagli/lle studentə. Questo evento, tuttavia, dà l’impressione di essere diverso da altri passati, perché chi l’ha promossa è una generazione nata precaria. Giovani che probabilmente hanno associato le tappe di crescita personale con gravi crisi globali, pensando a queste come elementi endemici del proprio quotidiano. «Una crisi che sussegue l’altra: dalla crisi finanziaria del 2008, alla crisi sanitaria della pandemia, alla crisi militare delle ultime settimane. Sento che questo è uno scenario che attraversa la nostra generazione e ci porta piano a non immaginare un futuro», racconta I. mentre sediamo sulla panchina di fronte alla facoltà occupata. Continua: «Dopo due anni ci sentiamo soli, perché siamo stati allontanati non solo dai nostri luoghi sociali, come l’università, ma anche dalle persone intorno a noi».

Stare insieme fa sembrare tutto più sopportabile, perché consente di sentirsi parte di qualcosa. Dice infatti una ragazza: «Non potrei essere da nessun’altra parte che qua, perché qui sento che c’è speranza. Infatti, essere parte di una comunità è la cosa più rivoluzionaria che si possa fare mentre tutto nella testa dice che sei sola». Gli studenti e le studentesse raccontano come, rientrando all’università, non solo viene ridato spazio alla mobilitazione e alla lotta, ma anche alla comunità studentesca che da due anni si è atrofizzata. Dunque, riattraversare i corridoi e le aule di Lettere Occupata ha un effetto «dirompente e quasi vertiginoso».

Sono anni che gli studenti e le studentesse si sono abituati ad attraversare l’ateneo con regole di distanziamento e con sistemi tecnologici spesso mal funzionanti, vivendosi solo le lezioni e gli esami.

Così come afferma C.: «Ci siamo abituati a stare a casa, seguire online, e non andare più all’università. Quindi, oltre ad essere un piacere, rientrare negli atenei è uno sforzo e una responsabilità: ci vuole coraggio. Tuttavia, università e scuole devono tornare a essere nostre. A partire da noi deve nascere il desiderio di desiderare di attraversare questi spazi».

Si sa, tuttavia, che la guerra in atto sul territorio ucraino sta superando già i quaranta giorni senza sintomi di risoluzione pacifica. Per questo motivo, nel contesto attuale anche il solo desiderio di desiderare sembra difficile da raggiungere. Nelle settimane precedenti, si sono già create le occasioni sul piano cittadino di discutere di ciò che sta accadendo. Roma No War, una rete di diversi spazi sociali e di singoli individui nata nella capitale, si sta riunendo da diverse settimane con l’obiettivo di mobilitarsi contro una guerra non solo ingiusta, ma che è simbolo e culmine di un sistema economico, sociale e culturale divisorio. «Le vittime delle guerre sono sempre i popoli che, in questo conflitto deflagrato con l’invasione russa dell’Ucraina, pagano con la loro vita gli interessi economici e politici del governo russo, di quello ucraino e di quelli dei vari paesi Ue e Nato», si legge in uno dei comunicati. Proprio perché la guerra è un fatto sistemico che va ad attaccare, in primis e soprattutto, le popolazioni civili, vivere in un paese che prevede quasi 13 miliardi in più per gli armamenti fa emergere le controversie del pacifismo promosso nelle ultime settimane dai capi di stato del blocco occidentale del mondo.

Per questo, il movimento No War romano chiede non solo la ricostruzione di un pacifismo radicale e la risoluzione diplomatica del conflitto, ma anche un miglioramento delle condizioni di vita a fronte del caro-vita in crescita, facendo in modo che quei 13 miliardi «siano stanziati per sanità, istruzione, salario minimo, politiche attive del lavoro, vera transizione ecologica».

Come emerso nell’assemblea di questa rete, organizzata giovedì scorso alla facoltà di lettere, diventa necessaria la costruzione di una forma di resistenza civile che si mobiliti contro «tutte le guerre del capitalismo, il riarmo e per la pace». In quest’ottica, moltə si stanno organizzando per far partire delle carovane solidali nei territori ucraini, come quella “Stop The War” in viaggio ora verso Leopoli. Inoltre, alla luce della condizione in cui versano le popolazioni civili in territorio europeo, è emersa la necessità di riformulare i concetti di resistenza e liberazione verso il 25 aprile e il 1 maggio, affinché siano delle date di mobilitazione contro ogni forma di guerra.

Così l’occupazione dell’università ha sancito un’importante evoluzione dell’analisi. Gli e le occupanti, infatti, hanno ben chiare le responsabilità che hanno sia l’università in quanto istituzione sia La Sapienza nello specifico. Nel comunicato stampa che promuoveva le due giornate si può leggere: «Abbiamo bisogno di disertare e sabotare a partire dagli spazi che viviamo quotidianamente. Sappiamo bene come il pacifismo delle nostre università e di tutte le istituzioni europee in realtà nasconda una logica guerrafondaia. Le università italiane hanno preso posizione rispetto al conflitto tramite atti di censura che riteniamo inaccettabili come la cancellazione del corso di Paolo Nori su Dostoevskij all’università Milano Bicocca e note di diffida a professori che hanno espresso pubblicamente posizioni non allineate alla politica del governo come nel caso del professor Alessandro Orsini della Luiss. Mentre continuano a ricevere finanziamenti da aziende come Leonardo S.p.a., una delle principali aziende produttrici di armi a livello mondiale, con cui l’università La Sapienza che dal 2002 sigla accordi di partnership».

Parlando con F., emerge che: «A partire dall’Accademia e dall’Università, per quel che riguarda molti ragionamenti politici, viene propagandato il punto di vista della classe dominante. Così facendo, queste istituzioni spariscono dal dibattito pubblico e, invece di fronteggiarsi criticamente con le posizioni vuote e populiste della maggioranza, se ne fanno portavoce».

Continua I. :«La Sapienza sta depotenziando il concetto di pace, privandolo del suo unico e vero significato, che è di pace sociale e pacifismo radicale. Per le materie scientifiche è importante riflettere sulla non neutralità della ricerca e della scienza: interfacciarsi con industrie belliche significa dare spazio e legittimità a tutte le guerre, posizione che in quanto studentə disertiamo».

Lo slogan “Disertiamo La Guerra; Costruiamo Il Futuro!” assume dunque un significato forte che rende il concetto di pacifismo il motore principale per la costruzione di un movimento nuovo e determinato. «Occorre disertare la guerra per poter agire il presente e immaginare il futuro» dicono i presenti. Una studentessa spiega:

«Negli ultimi anni, i collettivi universitari si sono isolati, ma, di fronte a una situazione così drammatica, stanno facendo fronte comune per sabotare una guerra che mette in crisi un futuro già incerto e che è l’apice di una politica che sta agli antipodi rispetto al mondo che vogliamo. È una guerra maschile, di forza, militare. L’occupazione è un primo passo per disertare la guerra perché ci permette di stare insieme, confrontarci su quello che sta succedendo e costruire comunità in senso allargato. Nelle prossime settimane continueremo un lavoro comune e politico per cambiare ciò che non ci piace all’università. Tornare a immaginarci l’università e l’intero mondo come luogo che noi desideriamo è una sfida, ma la vogliamo accogliere».

Perché, in realtà, si tratta di un movimento che non ha intenzione di arrestarsi all’occupazione: «Questo che è iniziato è un processo vitale che non si arresta qua, lo vedo negli occhi delle persone intorno a me e penso sia fondamentale per alimentare un movimento studentesco, cittadino, nazionale ed europeo. Non a caso, proprio oggi (giovedì 31 marzo, ndr) c’è stata un’assemblea nazionale ed europea in cui ci siamo confrontati sulla diserzione della guerra e sul pacifismo radicale come risposta comune all’ennesimo fallimento dello stato-nazione. La prospettiva ora, è di costruire un movimento transnazionale e non è solo una speranza, ma un processo in divenire».

Tutte le immagini di Sabrina Aidi