EUROPA

Rotta balcanica: cosa ci dicono le frontiere chiuse dell’est

Attraverso gli accordi di respingimento bilaterali tra l’Italia e i paesi dell’est Europa si sta facendo passare l’idea che nei Balcani le frontiere (anche interne all’UE) esistano ancora, almeno per una parte della popolazione del mondo, almeno per chi non viene considerato, a priori, degno di costruirsi una vita in Europa.

La fine dell’estate porta venti di cambiamento. Per tutti, governanti e governati, ma non per chi è intrappolato in un gioco in cui o si vince o si perde tutto, nel tentativo di arrivare all’Europa attraverso la via di accesso balcanica.

A fine agosto l’associazione non governativa Border Violence Monitoring ha pubblicato un report, raccolto all’inizio del mese, in cui veniva descritta una pratica di respingimento operata da agenti italiani nei confronti di un gruppo di nove migranti alla frontiera italo-slovena vicino a Trieste, in località Fernetti. Quello che colpisce nell’operazione non è la sua violenza, anzi, l’esatto opposto.

Il gruppo viene portato in una stazione di polizia, gli viene fatto firmare un documento (di cui non capiscono il contenuto e che non gli viene tradotto dall’interprete a loro fornita) in cui designano un rappresentante legale, vengono prese le loro impronte digitali e gli viene scattata una foto. Dopodiché vengono semplicemente respinti tutti insieme, eccetto un minore che era con loro, e accompagnati dalla polizia slovena.

Il succedersi degli eventi denuncia un processo strutturato per far sembrare il respingimento a norma di legge, quando la realtà dei fatti mostra che a nove persone contemporaneamente sia stato negato l’accesso in Italia senza verificare il loro eventuale diritto all’asilo politico, in palese contravvenzione con quanto previsto dal principio di non-refoulement adottato della Convenzione di Ginevra.

Secondo quanto ha raccontato il volontario di No Name Kitchen (ong internazionale attiva nei Balcani) che ha documentato l’accaduto, questo tipo di illegalità incruenta è stata ampiamente utilizzata nell’ultimo anno da parte delle autorità slovene, anche se non ci sono abbastanza dati per dire se sia un trend anche per l’Italia.

Allo stesso modo è ancora difficile dire quale sia stato l’effetto pratico della cooperazione tra pattuglie di frontiera italiane e slovene iniziata a luglio su iniziativa dell’ex-Ministro degli Interni Matteo Salvini. L’effetto politico, al contrario, si è palesato immediatamente con l’opposizione slovena che domandava più controlli alla frontiera croata e che alla fine otteneva la costruzione di altri quaranta chilometri di barriera spinata lungo il fiume Kolpa. Il domino scatenato dalla scelta di inasprire la repressione non può che portare a confini più chiusi e difficoltà maggiori per i migranti.

In questa sfida tra “saltabarriere” e polizia è interessante anche notare come esista ormai un sistematico respingimento dei migranti fino al primo paese extra-UE nei Balcani, la Bosnia.

Il gruppo intervistato nel report, infatti, non ha finito il suo viaggio in Slovenia, ma da lì è stato portato al confine croato e infine di nuovo a Velika Kladusa, la città più a nord-ovest della Bosnia. Sebbene la polizia croata sia stata stranamente indulgente e abbia soltanto rotto loro i telefoni, quello che colpisce è ancora una volta il carattere di sistematicità che assume la pratica di respingimento. Gruppi interi di persone vengono rispediti come pacchi al mittente, senza nemmeno verificare se siano effettivamente mai passati per quel paese, una pratica che ricorre ormai immancabilmente nei respingimenti dalla Slovenia, almeno in quelli documentati da Border Violence Monitoring, che arrivano attraverso una cosiddetta “autostrada” direttamente in Bosnia.

Mascherando il tutto da pratiche legali con l’aiuto di accordi di respingimento bilaterali tra i diversi paesi, si sta facendo passare l’idea che nei Balcani le frontiere (anche interne all’UE) esistano ancora, almeno per una parte della popolazione del mondo, almeno per chi non viene considerato, a priori, degno di costruire una vita in Europa.

Questo messaggio è molto più pericoloso del becero #portichiusi e trascende la presenza o meno di Salvini nell’agone politico; è un messaggio condiviso dalla quasi totalità dell’arco parlamentare e dell’opinione pubblica, ed avrà degli effetti pratici di lungo termine che condurranno a una perdita di diritti per tutti e tutte, dalla quale sarà difficile poi tornare indietro.