Riflessioni sul cinema “artistico” e se ne vale la pena

Vabbè, parlar male dell’ultimo Malick è come sparare sulla Croce Rossa.

Vabbè, parlar male dell’ultimo Terrence Malick è come sparare sulla Croce Rossa, vista la media dei commenti e dell’affluenza di pubblico, ma non vorrei che lo si ritenesse il classico prodotto di nicchia sul quale costruire fantasie e recriminazioni. Viaggio in Italia di Rossellini deluse la critica, Straub e Huillet respingono mediamente il pubblico e pure Godard, dopo gli sfolgoranti anni ’60, è risultato problematico, mentre Garrel si è conquistato visibilità dopo un faticoso apprendistato avanguardistico. Eppure si tratta di pietre miliari della storia del cinema, valide quanto John Ford e Renoir o Tarantino, con cui del resto strettamente si connettono in un gioco reciproco di ispirazione e citazione. Sono le tante facce del cinema: dal pensiero all’immagine allo spettacolo. Del cinema-pensiero, del cinema-immagine, del cinema-spettacolo, cioè di tre modalità (ma ce ne sono altre) che si esprimono nello specifico del cinema. L’opposto di un cinema filosofico, di un cinema fotografico, di un cinema teatrale, cioè di un cinema s-naturato. Che qui invece trionfano alla grande, sempre in bilico fra la pretesa di usare il cinema come fosse poesia o pittura e le banalità del film turistico-paesaggistico, del che-palle-ma-che-bella-fotografia: la sempre incantevole Parigi, le meraviglie della marea a Mont Saint-Michel, il respiro delle pianure dell’Oklahoma già care ad Andrew Wyeth, il perenne scorrere delle acque e delle nuvole –insomma, il sogno di chiunque abbia preso in mano, a successivi stadi della vita e della tecnologia, una 16 mm., un Super 8, una camera elettronica e, infine, uno smartphone minimamente decente…E come ci stanno bene, sotto, alberi scossi dal vento, ruscelli, ciottoli e tramonti, un po’ di flusso sonoro wagneriano: qui il lagnoso Parsifal, nell’inizio funzionale di The New World, l’Oro del Reno. Confrontare, però, con il vero uso di Wagner nel vero cinema, cioè il Tristano in Melancholia di Lars von Trier, che sarà nichilista, crede alle streghe e all’anticristo, farà dichiarazioni un po’ nazi, ma è un regista di gran classe.

Tornando a To the Wonder, non c’è trama, passi, non c’è quasi dialogo, che al confronto gli Antonioni più ostici della fase alienazione sono conversazioni salottiere. Ben Affleck non apre mai bocca, se ne sta bello e legnoso senza una variazione espressiva dall’inizio alla fine e non si sa cosa vuole, visto che dalla vita ha avuto una meravigliosa Olga Kyrilenko, sempre danzante e dal volto cangiante, un altro paio di donne di passaggio niente male (altre sono state tagliate nel montaggio), una figliastra per metà film simpatica, un mestiere ispettivo misterioso e ben pagato che allude all’inquinamento della terra (il veleno del Parsifal), case sempre vuote da rivista di architettura e, certo, la sventura di vivere in un pallosissimo Oklahoma, con bravi vicini noiosi, mucche, cavalli, orizzonti western e, Dio ne scampi, un parroco cattolico (Javier Bardem) che vacilla nella fede e compie opere buone senza convinzione. Alla fine è trasferito in Kansas, dove presumibilmente si trasformerà nel molto più convincente killer dai lunghi capelli di Non è un paese per vecchi.

Il cinema può essere facile o difficile, di massa o di nicchia, venire incontro a stati d’animo diversi (anche per la stessa persona), ma bisogna pur capire dove vuole andare a parare. In altri film, Malick (sebbene sempre un po’ sopravalutato) ci è riuscito, pensiamo alla Rabbia giovane e, a intermittenza, a La sottile linea rossa, qui decisamente no. Troppo Heidegger fa male.