PRECARIETÀ

Riders, la posta in gioco al tavolo con Di Maio

L’avvocato della “Riders Union Roma” ripercorre la breve, e tumultuosa, storia di un decreto atteso ma ora congelato dal ministro del lavoro: annettere o sottrarre l’attività dei riders al contratto collettivo nazionale e dall’alveo della subordinazione è la vera posta in gioco. Il prossimo incontro tra lavoratori e piattaforme digitali è previsto lunedì 2 luglio al ministero del lavoro a Roma

Dopo il primo incontro del ministro Di Maio con i ciclofattorini («riders») sono trapelate alcune norme, contenute nel «decreto dignità», in seguito congelate. Nella loro prima formulazione avrebbero dovuto adeguare la definizione di lavoro subordinato rendendola applicabile anche all’attività dei riders. Oltre ai ciclofattorini, che sarebbero usciti da una zona grigia priva di tutele, le norme avrebbero investito una fetta più ampia di lavoro autonomo mascherato e para-subordinato. Approvando il «decreto dignità» in quella formulazione, il governo si sarebbe allineato a un orientamento prevalente in tutto il mondo come dimostrano sentenze recenti in California, Inghilterra, Spagna ma diffuse anche in Italia. Oggi la scelta del tempo di lavoro da parte del lavoratore non esclude affatto la sua subordinazione. Sostituire il rapporto diretto con il datore di lavoro con una «app» non rimuove la condizione di dipendenza socio-economica del lavoratore, in assenza di ogni controllo sull’organizzazione del lavoro e sull’utile derivato dalla prestazione.

L’efficacia potenziale di quelle norme sui riders è emersa poche ore dopo la loro circolazione. L’ad di Foodora Italia, Gianluca Cocco, ha minacciato di abbandonare il paese in caso di approvazione. Il 18 giugno, Di Maio ha incontrato le imprese del settore Deliveroo, JustEat, Foodora, Domino’s Pizza e Glovo: le stesse che hanno disertato il tavolo di contrattazione aperto dai riders a Bologna e che ha condotto alla firma di una «Carta» sotto la garanzia del sindaco Merola. Improvvisamente, si sono dette disposte a sottoscrivere un accordo pur di schivare il decreto. A quel punto Di Maio ha riposto il decreto nel cassetto e concesso tempo alle imprese di raggiungere un accordo con le parti sociali.

Evidentemente, annettere o sottrarre l’attività dei riders al contratto collettivo nazionale e dall’alveo della subordinazione è la vera posta in gioco anche per le imprese: verrebbero così garantiti il rispetto del salario minimo, il risarcimento in caso di infortunio, il diritto a ferie, malattia e maternità, e la tutela contro i licenziamenti anti-sindacali, avallati invece da una recente sentenza di Torino sulla base della libera rescindibilità contrattuale.

Invece, nella migliore delle ipotesi, la trattativa riprodurrà le stesse problematiche sostanziali della pur meritoria Carta di Bologna, conquistata dai riders dopo un percorso di auto-organizzazione che li ha portati dall’invisibilità alla ribalta nazionale. Innanzitutto, garantire tutele salariali e assicurative minime per i soli riders, senza affrontare il nodo del finto lavoro autonomo, li lascerebbe in condizioni di ricattabilità. Ampliare tali garanzie sarebbe difficile in assenza di tutele per chi sciopera, come dimostra il caso torinese di Foodora. Anche la recente proposta di legge della Regione Lazio, analoga alla Carta di Bologna, presenta le stesse criticità.

Resta infine il nodo della rappresentatività. Cgil, Cisl e Uil, chiamate al tavolo delle trattative e senza aver in alcun modo incrociato il percorso di lotta dei riders, a quale titolo interverranno? E che valore avrà un ipotetico contratto, se rimanendo entro il perimetro del lavoro autonomo sarà applicabile solo ai dipendenti delle piattaforme firmatarie?

La palla è in mano ai sindacati convocati ad un tavolo che non hanno promosso. Dovranno scegliere se difendere la sostanza del decreto legge ora congelato, magari adottandola come piattaforma negoziale; o assecondare gli interessi delle aziende che promuovono la trattativa, limitando corporativamente gli interventi a una singola categoria e supportando la finzione del regime di autonomia.

Diversamente, servirebbe generalizzare la vertenza al precariato di ogni latitudine e adeguare le definizioni di lavoro subordinato, autonomo personale o di tipo imprenditoriale, all’attuale contesto sociale e tecnologico. Si tratterebbe di rafforzare le prime due figure con un’effettiva tutela dal recesso illegittimo, reintroducendo la causale temporanea per i contratti a tempo determinato e istituendo un reddito di cittadinanza che non può limitarsi a qualche centinaio di lavori socialmente utili.

 

 * Avvocato del lavoro, consulente della Riders Union Roma

*L’articolo è stato pubblicato la prima volta su Il Manifesto