approfondimenti

PRECARIETÀ

La controrivoluzione del capitale umano

La costruzione del capitalista umano è l’obiettivo delle politiche del workfare. A partire dal libro Capitale Disumano di Roberto Ciccarelli, una riflessione sulla radice teorica delle politiche attive e sulla loro funzione di disciplinamento della forza lavoro

Quelle che seguono sono brevi riflessioni a partire dall’ultimo libro di Roberto Ciccarelli, Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (manifestolibri, 2018, pp. 222, € 16). Un testo che propone un’efficace critica della nozione beckeriana di capitale umano, incardinata all’interno del paradigma neoliberale delle politiche attive. Sin dalle prime pagine si chiarisce che a sperimentare l’alternanza scuola lavoro non sono solo 1,5 milioni di studenti obbligati a partecipare a questo programma (introdotto in Italia nel 2015), ma complessivamente l’intera forza lavoro sempre più spesso incentivata, o talvolta obbligata, a muoversi tra continui momenti di accumulazione di competenze e occupazioni precarie.

 

Affrontare la critica del capitale umano all’incrocio con le politiche attive ha una serie di vantaggi, tra cui quello di individuare le istituzioni del welfare che contribuiscono a fabbricare socialmente il «capitalista umano». Secondo questa prospettiva, il capitalista umano smette di essere il prodotto spontaneo di una serie di dispositivi economici, sociali, culturali, simbolici – come talvolta viene superficialmente presentato anche in una certa letteratura critica – per diventare il risultato di politiche di workfare che regolano il funzionamento del mercato del lavoro in tutte le economie avanzate.

Proviamo a interrogare il libro a partire da una specifica domanda: all’interno di questo ciclo reazionario globale come stanno cambiando i programmi di politica attiva e come vanno trasformandosi in particolare i dispositivi workfaristici di costruzione del capitale umano?

 

L’active labour market policy e le teorie del capitale umano

Quando in genere si parla di politiche attive ci si riferisce a un complesso sistema di politiche pubbliche che oltre a promuovere la formazione o altri interventi più rivolti al capitalista umano, hanno complessivamente lo scopo di aumentare i tassi di attivazione nel mercato del lavoro. Si va dalle azioni più elementari di profilazione dei disoccupati ai cosiddetti interventi personalizzati di matching (incrocio di domanda-offerta di lavoro), dai programmi complessi di ricollocazione di gruppi di lavoratori espulsi da crisi aziendali alla promozione dell’auto-imprenditorialità. La rete dei job center costituisce l’infrastruttura istituzionale (pubblica o privata) su cui esse poggiano e per le quali lo Stato mantiene la sua funzione di regolazione. I dispositivi di workfare rivolti ai poveri sono parte di tali programmi, ma allo stesso tempo rappresentano la filosofia generale dell’intero sistema di active labour market policy (ALMP).

 

La radice teorica affonda nella reazione anti-keynesiana sviluppatasi a partire dagli anni ‘60, come risposta all’impetuoso ciclo di lotte operaie e femministe. Una controrivoluzione tuttavia preparata già dalla seconda metà dei ‘30, a opera di alcuni primi economisti (da Hicks a Modigliani) che riaffermarono l’ottocentesca ideologia borghese della disoccupazione come fenomeno volontario.

 

Sfociata, all’inizio dei Duemila, grazie alla Job search theory, al “realismo” ipocrita dei “fallimenti del mercato”, basato sull’idea che tra domanda (imprese) e offerta (lavoratori) di lavoro vige una distribuzione asimmetrica di informazioni. Per cui lo Stato, allo scopo di ripristinare l’efficienza del mercato attraverso i servizi per il lavoro e le agenzie private, ha il compito di “attivare” i disoccupati favorendo l’efficiente incrocio domanda-offerta. Con il sostegno di queste teorie e parallelamente all’affermazione della forma-Stato neoliberale, l’ALMP ha condensato quelle funzioni statutali volte a ostacolare lo “stato di natura” degli individui, che spinge a minimizzare gli sforzi (gli scansafatiche) nella ricerca del lavoro, promuovendo articolate azioni di controllo e di stimolo di specifiche condotte “attive” degli individui. L’origine fondamentale di tali politiche, dunque, come sostiene Ciccarelli, non può che risiedere in una filosofia morale finalizzata a instillare nei soggetti la razionalità dell’auto-valorizzazione e della competizione.

L’autore chiarisce anche che l’origine dei programmi pubblici sul capitale umano in Europa, deriva dagli anni ‘90 e la diffusione si deve innanzitutto alla programmazione delle politiche europee. Nel dibattito europeo sulle origini ricorrono solitamente due date. Quella del 1993 – un anno dopo il trattato di Maastricht che riconosceva all’UE competenze nell’istruzione – viene varato Libro Bianco dell’UE che segnava un’apertura decisiva della formazione alle esigenze delle imprese. La seconda data è quella del 1997, quando viene definito un importante documento di “Strategia europea per l’occupazione”, che lega la dinamica dell’occupazione agli investimenti in capitale umano. La produzione dei documenti istituzionali è ovviamente proceduta dalla simultanea affermazione, nel campo delle forze neoliberali, del principio secondo cui work is the best welfare, per cui la disoccupazione si sarebbe dovuta combattere solo responsabilizzando i disoccupati e i poveri.

Sin dall’origine le teorie del capitale umano, se si pensa al lavoro seminale di Gary S. Becker (comparso in forma di articolo già nel 1962), sono state oggetto di critiche severissime. L’intento originario dell’economista americano era quello di fondare una teoria su base empirica, dimostrando che i differenziali salariali americani erano dovuti principalmente alla diversa accumulazione di capitale umano impressa nei soggetti. Una infinità di lavori ha successivamente dimostrato l’irrilevanza della nozione sul piano teorico quanto su quello empirico. Il limite di questa sterminata «economia critica», tuttavia, risiede nel fatto di non aver compreso che quella nozione, insieme alla gran parte delle altre nozioni neoliberali (o più in generale del marginalismo), piuttosto che avere la funzione di descrivere un fenomeno, hanno avuto quella di prescrivere, creare, stimolare, un determinato comportamento degli agenti di mercato indipendentemente dalla realisticità delle ipotesi di partenza.

Un limite assolutamente compreso da Ciccarelli che chiarisce che il capitale umano è piuttosto una nuova legge morale, che induce il soggetto a investire su sé stesso in termini di formazione, laddove la logica dell’investimento è quella manageriale. Investire su di sé, poiché solo da se stessi dipende la propria fortuna nel mercato del lavoro. Questo piano di investimento presuppone formalmente la libertà del soggetto (disoccupato o occupato che sia) di scegliere il proprio campo di formazione e di desiderare la propria realizzazione. Ovvero la libertà di ricostituire continuamente il proprio stock di capitale umano, un «capitale fisso» proprietà dell’individuo, un asset separato dalla corporeità del soggetto, ma che il lavoratore porta al mercato in cambio di ricevere (o sperando di) un salario commisurato allo sforzo necessario alla sua costruzione.

 

Se da un lato c’è l’apparente libertà formale del capitalista umano, dall’altro c’è però la sostanza della sua completa alienazione.

 

Questo perché il capitalista umano è portato a non considerare che le sue scelte sono sempre condizionate dall’ombra della domanda di lavoro delle imprese, che non può mai avere nulla di equivalente all’offerta (per buona pace degli economisti borghesi), essendo fondata su uno squilibrio di potere irrisolvibile. Per giunta un’ombra fantasmatica, poiché tale domanda non è mai certa: probabilmente si realizzerà in futuro, altrettanto probabilmente non si realizzerà affatto, generando quel sentimento di frustrazione e di psicosi che è la cifra della clinica della precarietà.

In definitiva lo sviluppo di politiche a sostegno del capitale umano ha proceduto sulla scorta dell’affermazione di politiche di intervento nel mercato del lavoro dal lato dell’offerta, basate sull’ipotesi, che l’origine di tutti gli squilibri (disoccupazione, gender unemployment gap, gender pay gap ecc..) derivino solo dalle caratteristiche dell’offerta: alti salari, troppi diritti ed eccessive rigidità, scarsa o cattiva formazione. Secondo questa prospettiva, tanto la disoccupazione quanto il successo nella competizione globale (degli individui come dei paesi) dipendono solo dalle qualità intrinseche della forza lavoro.

La crisi dei sistemi di welfare state e l’affermazione di questi programmi, ha portato l’inglese Bob Jessop sin dall’inizio degli anni Novanta a parlare di Schumpeterian workfare state, inteso come espressione di un intero modello di accumulazione in cui le politiche statuali per la crescita trainata dall’innovazione sono realizzate ricorrendo ad un doppio standard. Mentre da un lato sono stati promossi interventi coercitivi sul versante dell’offerta, subordinando le politiche sociali alle esigenze delle imprese, dall’altro, le imprese, in Europa (e negli Usa) sono state finanziate con programmi pubblici che hanno lasciato loro completa libertà nella definizione dei campi su cui sviluppare ricerca e innovazione capitalistica.  

 

La nascita del regime delle politiche attive in Europa e il primo punto di svolta

A partire dalla crisi economico globale abbiamo assistito in Europa alla conclusione di una prima fase dei regimi di workfare e delle politiche attive, diffusisi dall’inizio degli anni Novanta. Tutte le riforme che si sono susseguite dopo la crisi hanno generalizzato le politiche a favore del capitale umano, estendendole anche ai poveri, rendendo più concretamente evidente quanto sostiene Ciccarelli nel libro: che tutta la popolazione è in alternanza scuola lavoro.

Il Consiglio della CE adotta nel 1992 una raccomandazione (92/441/CEE), con la quale riconosce il diritto individuale di godere della protezione del reddito a condizione che tale diritto sia «subordinato alla sussistenza di una disponibilità attiva al lavoro». Viene riconosciuto come l’atto di nascita formale del workfare europeo. Da lì in poi seguirà uno sviluppo secondo una doppia traiettoria: da un lato i paesi che avevano già adottato a partire dagli anni Settanta schemi di protezione del reddito, dall’altro quelli che per la prima volta introducono tali schemi.

Tra quelli del primo gruppo, ad esempio, è il caso della Danimarca che nei primi Novanta, attraverso l’Active social policy legislation (comunemente conosciuto come parte del sistema di flexsicurity), introduce un aumento del carico di doveri per i beneficiari, applicando il principio dell’attivazione e diminuendo la durata del sussidio, obbligando i destinatari ad accettare il lavoro segnalato. In Francia il Revenu minimum d’insertion si trasforma nel Revenue de Solidarité Active e, nell’estendere il sistema degli incentivi, è stato ulteriormente orientato il beneficiario alla ricerca attiva del lavoro.

 

Ciò che accomuna le prime riforme workfaristiche di questi paesi è il fatto che la condizionalità è concentrata soprattutto nell’accettazione del lavoro.

 

Viene data meno attenzione in questa prima fase a programmi obbligatori di formazione del capitale umano per i poveri. Al contrario questi interventi sono riservati inizialmente ad alcuni target, ai lavoratori con alti skills, ai soggetti espulsi da crisi industriali, dando luogo a una strategia di targhettizzazione della formazione e di inclusione differenziale nel mercato del lavoro.

I paesi del secondo gruppo, invece, che introducono per la prima volta forme di reddito minimo tra la fine degli anni Novanta e inizio Duemila, se da un lato contribuirono a formare una nuova geografia dei mercati del lavoro in Europa grazie alla diffusione di schemi di reddito minimo nei paesi dell’Est, dall’altro iniziarono a sperimentare forme di condizionalità più dure, ma anche in tal caso concentrate sull’accettazione del lavoro.

È con la crisi economica mondiale che si è assiste a un’estensione dei programmi per il capitale umano. Nell’esperienza concreta dei vari paesi si inizia a premere sulla condizionalità facendo pesare l’obbligo alla partecipazione a programmi di formazione. Come nel caso della riforma dell’Hartz IV tedesco nel 2018, oppure l’introduzione della Universal Credit in Inghilterra nel 2012, o ancora i casi del workfare autoritario dei paesi che compongono il blocco orientale di Visegrad.

Anche in Italia si è assistito (parzialmente) alla medesima dinamica, pur considerando le specificità del workfare italiano, tra l’incompletezza e la frammentarietà del modello regionalizzato. L’aumento della disoccupazione, le crisi aziendali e il ricorso agli ammortizzatori sociali, sfociò nel 2009 nella costituzione di un primo coordinamento nazionale delle politiche attive. Fu così istituita una “cabina di regia nazionale” degli ammortizzatori sociali in deroga e fu legata la prestazione monetaria a favore dei lavoratori all’obbligo di frequentare corsi di formazione.  Solo recentemente, nel 2017, con il REI, appena due anni dopo la costituzione dell’Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro, il primo e inconsistente schema di reddito minimo prevede, almeno sulla carta, forme di condizionalità legate anche alla formazione del capitale umano.

 

La logistica della forza lavoro

La generalizzazione delle politiche per il capitale umano e l’irrigidimento delle condizionalità nei dispositivi di reddito minimo ha evidentemente lo scopo di amplificare la funzione di controllo sociale della forza lavoro.

Secondo una recente ricerca in Germania nell’80% dei casi i disoccupati usano i Job center come canale per la ricerca del lavoro, nel Regno Unito la percentuale scende al 60%, in Francia al 58%, in Italia è appena al 31% dove i disoccupati preferiscono di gran lunga le reti informali[1]. Il progetto giallo-verde di potenziamento dei Centri per l’Impiego, connesso alla proposta governativa impropriamente definita «reddito di cittadinanza», che prevede di condizionare fortemente l’erogazione del reddito e di incentivare le imprese al matching presso gli uffici pubblici, ha evidentemente lo scopo di avocare allo Stato la funzione di comando sulla forza lavoro e sul governo del mercato del lavoro, recuperando i ritardi rispetto ad altri paesi europei.

 

L’irrigidimento dei dispositivi di workfare in Europa e il ruolo giocato dallo Stato sul controllo della mobilità dei lavoratori ci autorizzano a parlare dei sistemi di politica attiva quali modelli di logistica della forza lavoro.

 

La logistica industriale intesa come estensione della «linea di produzione», scienza dell’organizzazione produttiva, arte del movimento delle merci nello spazio e nel tempo, capacità politica di programmazione dei flussi, sembra racchiudere tutte quella razionalità che possono essere estese ai contenuti delle politiche attive.

Dal momento che il capitalista umano deve conformarsi alla domanda futura delle imprese e alle traiettorie di innovazione tecnologica investendo anticipatamente sulla propria formazione. Dal momento che i Job center gestendo le funzioni di matching e attraverso i criteri di condizionalità al lavoro possono controllare gli spostamenti della forza lavoro da una branca all’altra dell’economia, i sistemi di workfare sembrano davvero rappresentare un’estensione dei modelli della logistica industriale. Lo Stato, avocando a sé la funzione del controllo sulla mobilità della forza lavoro, servendosi talvolta anche delle agenzie private preposte a tale scopo, sembra svolgere una doppia funzione logistica nel mercato del lavoro. Da un lato, le politiche attive, i sistemi di workfare, sembrano riprodurre internamente la razionalità logistica applicata all’approvigionamento di lavoratori per le imprese, come fossero un comune altro input produttivo, che deve arrivare al momento giusto, con le caratteristiche necessarie in termini di competenze e capitale umano. Dall’altro, ciò che chiamiamo logistica della forza lavoro, sembra costituire una fase interna alla più generale global supply chain che caratterizza l’organizzazione logistica della produzione a livello internazionale. Non a caso la chiusura dei regimi di welfare ai migranti intraeuropei ed extra-comunitari ha proprio l’effetto di controllare indirettamente non solo i flussi migratori, ma gli effetti sul mercato del lavoro.

Anche per tali ragioni, durante questo ciclo reazionario costruire lotte sul welfare, contro i regimi di workfare e la cosiddetta proposta di «reddito di cittadinanza» del governo giallo-verde non significa solo realizzare lotte sul terreno della riproduzione sociale, significa al contempo muoversi contestualmente sul terreno dell’organizzazione della produzione.

 

Immagine di copertina è di Kumi Yamashita

 

[1] Rossotti L., et al, Il welfare del lavoro, Franco Angeli, 2018.