editoriale

Quando l’argine crolla, appunti dal confine mobile d’Europa

Centinaia di migliaia di migranti hanno camminato in questi mesi sulla Balkan Route. Non sono bastati i muri e le violenze a fermarli. Vi proponiamo le riflessioni di chi ha condiviso un pezzo del loro cammino travalicando frontiere e reti con il filo spinato.

 

Oh mean old levee taught me to weep and moan

Yeah the mean old levee taught me to weep and moan

Told me leave my baby and my happy home

(Kansas Joe and Memphis Minnie, When the Levee Breaks, 1929)

 

Quanto sta accadendo in queste settimane sulle frontiere europee è straordinario. Nelle parole di uno degli attivisti tedeschi che da più di un mese fanno la spola tra la Germania e i Balcani, portando aiuti e tentando di coordinare l’iniziativa spontanea di centinaia di volontari da tutta Europa, questo “è un momento fondamentale per la libertà di movimento in Europa”. Partiamo da questa affermazione che parrebbe stridere con le immagini e i resoconti che giungono da quelle stesse frontiere.

Una moltitudine di persone è in movimento incessante dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dall’Iran, ma anche da diversi paesi africani, per raggiungere la Turchia, prima tappa di un viaggio che poi continua verso la Grecia o la Bulgaria – dalla quale giungono resoconti di continue violenze poliziesche –, per poi proseguire lungo la cosiddetta Balkan Route verso nord. Le destinazioni finali, nelle intenzioni di chi parte, sono soprattutto Germania e Svezia. Ora per raggiungerle, dopo la chiusura definitiva della frontiera ungherese, rimasta ufficiosamente aperta per diverse settimane malgrado i cinici e folli annunci del governo Orbán, è necessario passare attraverso la piccola Slovenia, frontiera meridionale dell’area Schengen, e infatti ora vero e proprio collo di bottiglia lungo il tortuoso cammino dei migranti. Mentre scriviamo la Slovenia minaccia a sua volta di chiudere la sua frontiera, e anche l’Austria sembra intenzionata a fare altrettanto.

Rigonce è una piccola località nel sudest della Slovenia, a ridosso del confine con la Croazia, non distante dall’autostrada che collega le due capitali, Lubiana e Zagabria. Negli ultimi giorni è diventata in qualche modo uno dei simboli di quanto sta accadendo, in buona parte a causa dell’incapacità del governo sloveno a gestire la situazione nel tentativo di mostrarsi inflessibile nel rispetto delle regole. È con tutta probabilità vero che la Slovenia non è attrezzata per un simile flusso, ma è altrettanto vero che chi si è recato a Rigonce negli ultimi giorni ha dovuto assistere allo spettacolo penoso di un imponente schieramento di polizia ed esercito, del tutto inutile considerato che le persone che giungono qui non costituiscono nessun pericolo per la “sicurezza” del paese, ma sono piuttosto in pericolo per le condizioni precarie in cui sono costrette a proseguire il proprio viaggio. I militari presenti non allungano ai rifugiati nemmeno una bottiglia d’acqua.

A Rigonce le persone arrivano dopo aver attraversato la Croazia che, con molti limiti e una certa dose di calcolo elettorale da parte del governo di centro-sinistra guidato da Zoran Milanović, sta agevolando lo scorrimento del flusso verso nord. Questo ha innescato una serie di accuse tra i vari paesi ex-Iugoslavi, e in particolare la Slovenia si è appellata all’Unione Europea. Il risultato è stato un vertice europeo tenutosi domenica 25 ottobre che ha partorito il classico topolino, un accordo che in linea teorica dovrebbe appunto rallentare il flusso dei rifugiati a valle, in particolare in Grecia, Macedonia, Serbia e Croazia grazie al solito giochino delle contropartite economiche. Potremmo sbagliarci, ma nemmeno ventiquattro ore dopo il vertice, pareva già chiaro che nessuno si è impegnato in nulla di preciso, così come nelle settimane scorse era fallito il tentativo di consegnare alla Turchia – paese cinicamente dichiarato “sicuro” a tavolino, malgrado l’acclarato disprezzo dei più elementari diritti umani del suo governo – il compito di istituire sul suo territorio diversi campi profughi di dimensioni eccezionali.

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Il dato che emerge è quindi prima di tutto questo: arrestare il flusso dei migranti è impensabil. Ad essere in movimento sono moltitudini di persone che non hanno nulla da perdere e che di fatto stanno facendo saltare gli ipocriti meccanismi della fortezza Europa – a costo delle proprie vite, sia ben chiaro. E stavolta non ci sono barconi da affondare, libie da invadere, paesi con cui stipulare accordi bilaterali. Tutto questo sta accadendo nel cuore d’Europa – in quel cuore balcanico dove un secolo fa ebbe origine un conflitto mondiale e che venne abbandonato a un destino fratricida solo vent’anni fa. La sola strategia all’altezza dei tempi e del mondo globalizzato sarebbe prenderne atto e iniziare a pensare a come si presenteranno il volto e soprattutto l’anima dell’Europa nel giro di pochi mesi con l’arrivo di moltitudini che reclameranno cittadinanza, avendone pieno diritto dal momento che le guerre e la devastazione sociale da cui stanno fuggendo sono tutta farina del sacco europeo e occidentale, come ora ammette persino quel fenomeno di Tony Blair.

Altri aspetti andrebbero considerati di quanto sta accadendo. In particolare il fatto che l’UE sta pretendendo di far fare la parte del poliziotto cattivo nei confronti della moltitudine migrante proprio a quei paesi ai cui cittadini per anni ha negato la possibilità di muoversi liberamente verso il resto d’Europa – nel caso dei kosovari è ancora necessario il visto d’ingresso per l’area Schengen, mentre i rom perseguitati nei paesi dei Balcani ora considerati “sicuri” non hanno diritto a ottenere l’asilo umanitario. Ai cittadini degli altri paesi ex-Iugoslavi non-Schengen è ancora impedito l’ingresso in Gran Bretagna. Un primo esito ci questa situazione paradossale è che nel flusso dei migranti intenzionati a chiedere asilo in Germania e in altri paesi dell’Europa nord-occidentale stanno confluendo anche molti residenti di paesi della stessa regione balcanica.

In una complessa e interessante analisi della situazione attuale Catherine Baker osserva tra l’altro che le opinioni pubbliche di molti paesi balcanici oscillano in maniera imprevedibile tra l’accettazione del ruolo di guardiani delle frontiere per essere accettati nel contesto europeo – ovvero essere considerati a pieno titolo “occidentali” e compatibili con il contesto liberal-capitalistico dominante nella retorica comunitaria – e il recupero invece della memoria delle recenti discriminazioni, che in molti casi innesca in queste settimane straordinarie dimostrazioni di solidarietà nei confronti dei rifugiati – e le scelte del governo croato, ad esempio, andrebbero considerate anche sotto questo aspetto. È una lettura in linea con le più recenti interpretazioni storiografiche delle guerre iugoslave degli anni Novanta, che finalmente rimettono in primo piano le disuguaglianze sociali e la precarietà economica tra le cause dell’implosione, considerando invece le identità nazionali strumentali all’invenzione di tradizioni tra cui spicca quella di appartenenza “razziale” al contesto europeo.

Nel leggere quanto sta accadendo vale la pena tenere ben presenti questi elementi. Lo stesso attivista tedesco citato all’inizio affermava che “il passaggio successivo sarà riuscire a ricomprendere il tema dell’assistenza ai rifugiati in una questione sociale più ampia, che investa direttamente le politiche di austerity le cui conseguenze ci riguardano tutti”. È infatti vero che chi è giunto in Germania in queste settimane – ma il discorso vale per qualsiasi altro paese, e in Italia assume al solito i connotati grotteschi emersi con l’inchiesta su “mafia capitale” – ora si ritrova perlopiù bloccato dentro strutture di accoglienza militarizzate, impossibilitato a intraprendere percorsi di autonomia, in attesa di un verdetto che potrebbe riconoscergli il diritto di asilo ma anche condannarlo a tentativi di deportazione o alla clandestinità. Chi abbia guardato negli occhi anche solo per pochi minuti e parlato con qualcuno dei migranti in viaggio in queste settimane sa che difficilmente sarà possibile addomesticare queste moltitudini per fargli recitare a tempo indeterminato la parte dei bisognosi privi di capacità autonome, e che la trappola del trasformare tutti i migranti in potenziali terroristi rischia di essere inflazionata dalle stesse retoriche xenofobe.

Prendiamo i rifugiati siriani, per esempio. Provengono da una società laica, con standard di vita elevati, sono spesso appartenenti alla classe media, hanno livelli di istruzione alti. Nel fango del campo di Rigonce, in un contesto in cui manca tutto e quel poco a disposizione è garantito dai cosiddetti “volontari”, mi è capitato di parlare con diversi migranti che spesso erano laureati, giornalisti, medici, insegnanti. Un ex giornalista della tv siriana, costretto a dividere la scarsa zuppa calda che gli avevo offerto con la moglie e i tre figli, mi ha spiazzato chiedendomi se in Slovenia vi fossero scuole con lingua di insegnamento inglese: avendone la certezza non avrebbe disdegnato di chiedere asilo in quel paese. Un giovane laureato in economia mi ha tempestato di domande sulle possibili specializzazioni accademiche in quel settore in Italia. E ad alleviare l’immensa tristezza nel vedere bimbi di pochi mesi, donne in gravidanza e anziani ultraottantenni resistere a denti stretti al gelo della notte, ci hanno pensato diversi gruppi di ragazzi e ragazze, tra i venti e i trent’anni, che stavano viaggiando assieme da giorni, scacciando la paura, la sete, la fame e il freddo con l’ottimismo collettivo di una comitiva di boy scout o di un gruppo di amici storici in vacanza.

Rilevare questi elementi sarà forse stato un esercizio di ottimismo della volontà, il tentativo di trovare una scintilla di insubordinazione – che non mancano di certo, come testimonia questo video appena mandato dal secondo indecoroso campo allestito nei pressi di Rigonce – , ma prima di tutto è stato la conseguenza di una domanda banale che chi sta tentando di agire sulle frontiere a partire dalla propria posizione di privilegio di cittadino europeo finisce per porsi inevitabilmente: perché sto spendendo il mio tempo, le mie energie, il mio (poco) denaro, qui?

Se pensiamo al primo elemento basilare dell’accoglienza, l’alloggio, è evidente che la vicenda dei rifugiati andrebbe immediatamente connessa al tema dell’abitare più in generale, e quindi a una delle campagne principali dei movimenti contro l’austerità. Allo stesso modo si dovrebbero porre le questioni che riguardano il lavoro, il reddito, l’accesso ai servizi, scuola, formazione e sanità. In altre parole: l’opportunità che questa migrazione epocale ci sta offrendo è quella di immettere in questo continente vecchio, scarsamente abitato, opulento ed egoisticamente rancoroso – e per questo elemento affatto materiale e ben poco culturale, esposto all’insorgenza carsica di movimenti xenofobi – energie nuove per conflitti già in atto o a venire che ci riguardano tutti. Prospettiva che appare di certo più ricca e complessa di altre proposte di apparente “buon senso” emerse nelle ultime settimane, come quella di approfittare di questa situazione per ripopolare le aree depresse.

Le modalità di quanto sta accadendo non stanno scardinando solo i meccanismi di Schengen e delle politiche migratorie europee. Anche le abitudini dei movimenti di cui facciamo parte o che tentiamo di innescare sono messe a dura prova da una situazione quanto mai fluida, imprevedibile e di non facile lettura. Abituati alle scadenze pianificate, ad azioni ragionate e mirate, a concentrare ogni intrapresa collettiva a ridosso di vertici annunciati da mesi se non da anni, e nei fine settimana per favorire la partecipazione di massa, ci troviamo spiazzati e quasi infastiditi dal dato di realtà di queste settimane: le moltitudini migranti non aspettano le scadenze o i fine settimana, soprattutto sono del tutto incuranti delle rispettive agende politiche, per altro spesso in contrasto le une con le altre. E però sarebbe paradossale se lo sconcerto e l’impotenza che stanno travolgendo i tecnocrati europei finissero per trovare un doppio speculare nei movimenti che programmaticamente vogliono travolgere proprio la tecnocrazia dell’austerità.

Gli attivisti sloveni, croati, bosniaci e serbi che in queste settimane stanno tentando di portare aiuto e informazioni ai migranti e di fare da riferimento per chi arriva da altri paesi, lo stanno facendo a partire da soggettività molto diverse da quelle a cui siamo abituati “a occidente”. Provengono da storie diverse dalle nostre, portano sulle spalle il fardello di un’educazione politica che deve fare i conti con il lascito di quella che era stata l’anomalia socialista e autogestionaria iugoslava e con la seguente drammatica implosione di quell’esperienza dopo il 1989, con il suo corollario di rinascita dei nazionalismi. In alcuni casi sono essi stessi stati profughi durante le guerre iugoslave. Tuttavia oggi, nel pieno della vicenda dei rifugiati – e della crisi economica globale -, non è difficile intravedere che, proprio nel rigetto delle logiche dell’austerità e del disciplinamento sociale che passano attraverso il dogma del diritto neoliberista europeo, si presenta l’opportunità di costruire linguaggi e agende comuni, e di connetterli a loro volta con la spinta che dal basso proviene dal movimento poderoso dei migranti.

Le immagini di lunghe colonne di rifugiati scortate dalla polizia slovena che riempiono le pagine dei giornali in questi giorni sono di certo sgradevoli – le persone dovrebbero avere il diritto di giungere a destinazione in maniera sicura e non dopo viaggi lunghi e rischiosi e procedure di identificazione macchinose e umilianti -, ma va detto che agli occhi dei cosiddetti “volontari” presenti sui confini hanno però un significato del tutto diverso da quello tra l’allarmistico e il pietistico diffuso dai mass media. Un attivista sloveno descriveva la situazione nei giorni scorsi come un gioco di domino: se le tessere cadono in direzione nord è sempre una piccola vittoria per la libera circolazione delle persone. Quando una di quelle colonne si sta muovendo lo fa per andare avanti, ed è per agevolare questo movimento che appunto centinaia di persone si sono attivate in queste settimane, mutuando il loro operato da quello delle organizzazioni umanitarie, spesso silenziosamente e dovendo accettare di essere rappresentate in maniera distorta dai media, ma in realtà avendo come attitudine non il semplice aiuto a chi è in difficoltà, ma l’idea che è necessario essere fiancheggiatori e complici di chi è in movimento, in un rapporto di assoluta parità dove la necessità è reciproca.

La maggior parte dei “volontari” che si trovano ora sulla Balkan Route svolgono prima di tutto una funzione informativa indispensabile, senza la quale i migranti non sarebbero messi in condizioni di fare le scelte migliori, sui percorsi da prendere, sulle modalità con cui presentarsi alle autorità, sulle opportunità e i rischi, immediati e prossimi. Non è un caso che le autorità di diversi paesi facciano di tutto per ostacolarne l’operato, che però in molti casi è anche l’unica assistenza materiale che viene fornita in termini di cibo, vestiario, beni di prima necessità. È un’esperienza per molti nuova, in un contesto geografico che spesso si conosce poco, che obbliga a ridisegnare le proprie mappe di riferimento ma anche le pratiche con cui agire.

È però un’opportunità che va colta. Non solo per impedire che le tessere del domino ricomincino a cadere in senso opposto, nel tentativo di rinchiudere milioni di persone in un’arida terra di nessuno o, peggio, di tenerle imprigionate sotto il tallone della guerra e della miseria. È un’opportunità soprattutto per far sì che argini ormai corrotti e marci crollino finalmente e nuovi corsi d’acqua inizino ad irrigare lo sterile panorama del continente Vecchio in cui siamo intrappolati.

Lo scorso fine settimana le reti antirazziste slovene hanno promosso un incontro per una nuova carovana di mobilitazione e solidarietà europea. Per quanto il quadro sia ora più definito rispetto a un mese fa, anche stavolta non sarà semplice trasformare questa in una scadenza decisiva, forse perché di passaggi decisivi in questa vicenda non ce ne sono, mentre ciò con cui abbiamo a che fare è un processo di medio e lungo periodo. Tanto per dire: per quanto la libera circolazione interna a Schengen non sia stata ufficialmente sospesa, l’ultima frontiera a restare aperta in Europa meridionale è proprio quella tra Slovenia e l’Italia. Dovesse realizzarsi l’intenzione austriaca di costruire una barriera con la Slovenia, è verosimilmente qui che si dirigerà stavolta il flusso del movimento dei migranti. Non è un caso che personaggi come Giorgia Meloni e Louis Aliot abbiano scelto proprio Trieste per rilanciare il proprio delirio xenofobo. E non è un caso che l’argomento a cui hanno fatto riferimento con più foga sia stato la necessità di difendere non tanto la supposta purezza razziale, culturale e religiosa, ma “il nostro tenore di vita”.