Petraeus Impeachment

Dietro il siluramento del generale l’evoluzione e il fallimento della strategia estera americana.

Per capire l’affare Petraeus e il prevedibile coinvolgimento in esso dell’attuale comandante delle forze internazionali in Afghanistan, J. Allen, non è necessario frugare fra le lenzuola e le mail dell’imprudente ex-generale e direttore della Cia e delle sue litigiose relazioni extra-coniugali, Paula Broadwell e Jill Kelley (la seconda, guarda caso, legata anche ad Allen). La stampa americana non ha abboccato alla love story e ha agganciato le dimissioni in prima battuta a controversie interne sulla sicurezza (rivalità fra servizi), in seconda a divergenze di lungo periodo sulla strategia mesopotamico-afghana, cioè al fallimento della dottrina della contro-insorgenza (COIN) e più in generale allo stallo della politica estera americana, messa in evidenza dall’oscura e comunque fallimentare vicenda dell’uccisione dell’ambasciatore Usa a Bengasi e probabilmente influente anche sulla decisione di Hillary Clinton di abbandonare la Segreteria di Stato.

Petraeus è un intellettuale militare (più che Clausewitz una variante più professionale dell’americano tranquillo di Graham Green, idealista kennediano e cinico terrorista nel Vietnam dei primi anni ’60), che si era addottorato a Princeton nel 1987 con una tesi su “L’esercito americano e le lezioni del Vietnam”, in cui sosteneva che «più della realtà conta quello che i politici ritengono sia accaduto», dunque un teorico della percezione (saper vendere la sconfitta) come chiave per la vittoria. Riformulazione americana e post-moderna, cioè in regime di libertà di stampa e relativismo culturale, delle sanguinose e fallimentari dottrine di controguerriglia elaborate dai francesi in Indocina e in Algeria e di cui il colonnello Massu e l’Oas (rivedersi la Battaglia di Algeri di G. Pontecorvo) sono stati gli ultimi alfieri, prima dell’impiego in Vietnam. Capisaldi della counter-insurgency in terra d’Irak e poi di Afghanistan sono il massiccio impiego di truppe di terra e la promozione di milizie collaborazioniste, edulcorata con la fraseologia della ricostruzione delle relazioni con la popolazione locale e del sostegno a un governo credibile, senza disdegnare di cambiarlo in caso di insuccesso (Vietnam) o di svuotarlo affidandosi alle divisioni settarie (Irak) o ai signori locali della guerra (Afghanistan, una volta fallito Karzai). Il fatto è che la storia delle contro-guerriglie è una storia di scacchi irrimediabili che la palude afghano-mesopotamica non fa che confermare e per cui occorre trovare un capro espiatorio.

Non a caso, quando il capro in oggetto fu S. McChrystal, il grande Immanuel Wallerstein scrisse, niente meno che il 1 luglio 2010, un articolo che profetizza con sorprendente precisione le vicende attuali. McChrystal aveva rilasciato un’intervista provocatoria costringendo Obama a licenziarlo, esattamente allo scopo di farsi licenziare e passare ad altri il cerino della sconfitta. Sebbene allievo di Rumsfeld, fautore del massacro sommario e dell’occupazione a tempo illimitato dell’Irak, il generale si era convertito nel 2006 alla dottrina COIN, dunque a un approccio più articolato e soft, che puntava alla collaborazione selettiva delle tribù sunnite contro al-Qaeda. Passava dunque la linea di Petraeus, che perfino W. Bush e poi Obama considerarono un salvatore e cui concessero, con il contagocce, il cosiddetto surge, cioè un incremento delle truppe di terra per l’«ultimo» sforzo pacificatore. Ovviamente il prezzo dell’apparente successo fu –scriveva Wallerstein– «permettere la pulizia etnica a Baghdad, trasformando una città multietnica in due zone segregate, una zona più grande sciita e una più piccola zona sunnita sotto assedio. Questo ha ridotto la violenza contro i soldati americani a prezzo di un’accresciuta violenza fra iracheni», favorendo alla lunga l’egemonia iraniana sul governo sciita di Baghdad e sulla regione, attraverso la mediazione di Mokhtar al-Sadr. Obama ha apprezzato la trasformazione mediatica della sconfitta irakena in una «ritirata a testa alta», ha promosso Petraeus alla testa della Cia e ha nominato McChrystal, neo- COIN, comandante in Afghanistan. Ma i successi non sono arrivati e il successivo coinvolgimento in Libia –dove l’assassinato ambasciatore Chris Stevens aveva egregiamente applicato le dottrine della contro-insorgenza, anzi addirittura dell’insorgenza pilotata– è finito con un disastro totale, che ha raffreddato anche l’interventismo in Siria. Ben prima di questi eventi nord-africana, Wallerstein aveva ipotizzato che, dopo il siluramento di MacChristal, «per il prossimo anno o due», il 2012 appunto!, «ci sarà un gioco di velocità in cui Obama e Petraeus proveranno a spostare uno sull’altro la colpa della sconfitta di fronte al pubblico».

Previsione perspicace, tanto più che nel frattempo stava passando per la testa dei repubblicani l’idea (oggi bruciata) di una candidatura del super-generale a Presidente o vice-Presidente nel 2012 o magari nel 2016. L’endorsement appassionato di Giuliano Ferrara vi ha aggiunto il consueto tocco di sfiga.

Ma qual è l’alternativa militare, sponsorizzata dal sottovalutato Biden (il Cheney di Obama) e dai suoi probabili agenti, i capi dell’Aviazione e del Jsco (Operazioni Speciali) parte dell’Fbi, la gelosa Jill e il fluviale suo corrispondente J. Allen (30.000 mail), transfugo dal surge? È la guerra per droni, versione miniaturizzata e mirata degli indiscriminati bombardamenti aerei della scuola Rumsfeld. Ma questa è l’ultima e altrettanto illusoria versione della guerra dall’alto, di cui l’Italia fu ingloriosa pioniera nelle pratiche (Libia 1911 e fine anni ’20, Etiopia 1936) e nella teoria con Giulio Douhet, il cui Dominio dell’aria ispirò, in campi opposti, il maresciallo Harris, i generali sovietici e Carl Schmitt. Quella strategia, che avrebbe dovuto rendere marginale lo scontro sul terreno, si era rivelata inadeguata già nella seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti a tappeto furono meramente complementari a Kursk, Stalingrado e allo sbarco in Normandia per piegare i nazisti, è ri-fallita in Vietnam e ha definitivamente dimostrato la propria inconcludenza in Irak. Forse l’insorgenza è una cosa troppo complicata per militari e politici imperiali e determina la rovina dei fautori delle differenziate tecniche di controllo. Il troppo lento disimpegno obamiano dal teatro di guerra inacidisce la nomenclatura.