MONDO

Perché è importante parlare della situazione in Xinjiang

Una introduzione alla pubblicazione della traduzione di una serie di articoli sul Xinjiang pubblicati in inglese su Made in China Journal, una rivista in cui la profondità scientifica incontra felicemente l’analisi e la critica del presente

Della questione del Xinjiang, così come di quella di Hong Kong, è oggi importantissimo scrivere, non solo per la “terribilità” degli eventi in sé, e per l’eventuale sdegno morale e civile che questi possono suscitare, ma anche e soprattutto perché essi coinvolgono aspetti e producono implicazioni che vanno ben oltre questi due territori e queste due popolazioni. La questione è infatti globale. Già questa affermazione basta a trovare in disaccordo la Cina, che come in una reazione pavloviana continua a rigettare qualsiasi intromissione nelle questioni interne. Una posizione oggi sempre più contraddittoria, perché l’eccezionalità sovrana che riduce le molteplici crisi del mondo globale alla propria ragione, non fa che aumentarle. Il problema sta proprio in chi decide cosa è interno e cosa esterno, chi è amico è chi è nemico, chi e cosa giustifica l’azione violenta dello stato, che sia essa caratterizzata dalla violenza repressiva o dalla violenza di un bio-potere che disciplina nuove soggettività produttive. 

Tuttavia ancora in questi giorni si continua, per fortuna, a parlare di Xinjiang, tanto nei media quanto nella politica internazionale. Sia l’articolo di Darren Byler che quello di David Brophy mettono in luce come le politiche di colonizzazione interna attuate da un regime che ha nell’eccezione la sua norma, pur adattate al contesto cinese, siano in realtà strettamente connesse alle pratiche imperialiste di controinsorgenza e di definizione del terrorista intraprese dagli Stati Uniti, da Israele e da altri paesi. Questione globale, quindi, ove ogni riduzione strumentale della complessità rischia di ridurre vite e culture ai conflitti che, una volta chiamati “inter-imperialisti”, oggi ironicamente vengono denominati come “nuova guerra fredda”. 

Le forme assunte dalla colonizzazione interna certamente differiscono nel caso di Hong Kong e in quello del Xinjiang. In quest’ultimo una retorica modernizzatrice e civilizzatrice giustifica l’ingresso dello Stato negli spazi più privati delle persone, dal corpo alla famiglia alla casa, e, per quanto riguarda la dimensione pubblica, dalle relazioni e pratiche sociali alla memoria storica e collettiva che viene o feticizzata per lo sguardo museale del turista Han o interamente cancellata in una guerra di distruzione e produzione dello spazio, come analizza in dettaglio l’articolo di Riam Thum. 

L’investimento via via sempre più massiccio nelle infrastrutture avviato dagli anni Novanta si è accompagnato a fenomeni estrattivi che vanno sotto il segno di una prolungata accumulazione “originaria”,  o di accumulation by dispossession secondo la nota definizione di David Harvey. Ma l’enclosure dei beni comuni, compresi quelli digitali, ha visto emergere, negli ultimi anni, qualcosa che l’economia da sola non riesce a spiegare, e che anche il tema del “racial capitalism” non afferra a pieno. La violenza epistemica che si dispiega in modo chiaro nel Xinjiang e che Byler analizza in altri articoli, è il portato di un progetto effettivo di “replacement”. 

Piuttosto che di un ritorno del rimosso (l’uso della psicanalisi per i fenomeni sociali è sempre problematico), si tratta di una nuova articolazione che la cosiddetta ascesa cinese va componendo da oltre dieci anni, vagamente rintracciabile nel discorso del modello cinese (中国模式), poi più chiaramente diventato “soluzione cinese” (中国方案). Un’articolazione in cui due elementi si stanno pericolosamente saldando, ovvero la “nuova” definizione di sovranità cinese da un lato e le questioni che ruotano attorno alla “differenza” culturale, sociale e politica della Cina dall’altro. Scrisse Stuart Hall, con la sua solita profondità e precisione, che ciò che è socialmente marginale è simbolicamente centrale. In breve, quando l’autorità dello Stato, in tutte le sue diverse articolazioni, tenta di ridurre la differenza alla propria ragione, sragiona e diventa ironica, quando non addirittura ridicola. L’ironia per esempio del diritto, con leggi create ad hoc e frutto di una pratica eccezionale, piuttosto che normale. Il caso della Legge sulla sicurezza nazionale imposta a Hong Kong è il più eclatante. 

Qui ci basta notare due termini altamente ironici: fazhi 法制 e xin changtai 新常态, dei quali il primo deforma il “governo della legge” in “legge del potere” (da rule of law a rule by law), il secondo partendo da una crescita economica qualitativamente “nuova”, annuncia una prolungata normalizzazione del sociale. Tutti e due legati all’idea del primato del potere politico sopra ogni cosa. Quando poi questo primato attraversa, per sottometterla, la differenza, ecco che il dominio appare in tutta la sua evidenza: il confine, l’omogeneità culturale, l’appartenenza nazionale, i “geni”: tutto concorre a giustificare l’ordine e la stabilità. La differenza che Hong Kong ha reclamato da ultimo con la rivolta del 2019, ha preso forma in realtà proprio nell’ultimo decennio, in relazione e come reazione alle politiche cinesi. Se diamo uno sguardo ai conflitti che hanno animato la Cina negli ultimi dieci anni, troveremo dapprima la differenza di classe, sostenuta dalle nuove soggettività subalterne che hanno prodotto il “miracolo” cinese, e poi più recentemente la differenza di genere delle classi medie cinesi che prende forma sotto il peso di un potere politico che non riconosce o vuole come subalterno il terreno della riproduzione sociale.

Le sovranità graduate studiate da Aihwa Ong sono state forse un “metodo” che ha consentito alla differenza di esistere, svilupparsi e, in molti casi, resistere al potere. Oggi sembra però che anche quei margini, garantiti dallo spazio dell’eccezionalità neoliberale e dell’eccezione al neoliberismo, stiano scomparendo. 

Che tipo di soggettività stanno emergendo in questo quadro così fosco? Affermare l’esistenza della differenza è un primo passo per la resistenza. I resoconti e le analisi prodotte da Hong Kong e sullo Xinjiang sono dunque fondamentali, e la sinologia dovrebbe considerare questo come uno dei suoi compiti principali. Se la sinologia ha avuto nel proprio DNA l’orientalismo, essa possiede anche un’idea e una pratica del sapere basata sulla critica al potere.

Introducione pubblicata su sinosfere.

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