ROMA

Patrimonio pubblico: Tronca vuole incastrare la prossima amministrazione

Le realtà sotto sgombero denunciano con una lettera pubblica il tentativo di Tronca di imporre misure vincolanti alla prossima amministrazione comunale, andando ben oltre la “gestione ordinaria” cui dovrebbe attenersi.

La rete «Roma non si vende – Decide Roma» scrive ai Commissari straordinari di Roma. Sceglie di farlo pubblicamente, attraverso una lettera aperta inviata anche ai candidati sindaco di Roma e al Prefetto Gabrielli. Al centro della lettera, la necessità di ribadire con fermezza alcuni punti fondamentali, unici presupposti possibili per un’interlocuzione tra le realtà sotto sgombero e un’a’mministrazione commissariale giunta ormai alla vigilia della scadenza del suo mandato. Quell’interlocuzione, faticosamente aperta tramite l’occupazione del Dipartimento Patrimonio a febbraio, tramite il corteo moltitudinario a marzo e tramite la scalata della Basilica di Massenzio ad aprile, aveva un obiettivo: ricercare le soluzioni tecniche e strettamente transitorie che potessero garantire ad associazioni e spazi sociali l’esercizio delle loro attività, almeno fino all’insediamento della prossima giunta. Obiettivo, però, che rischia di essere tradito dall’intenzione dei Commissari, benché soltanto paventata, di adottare provvedimenti che inciderebbero pesantemente sulla possibilità di aprire un dialogo concreto sul riconoscimento dei beni comuni urbani con la prossima giunta politica. Di seguito, la lettera che esplicita la contrarietà a questo tipo di misure, che tradiscono la natura “costituente” del commissariamento della città. La rete avanza anche una proposta concreta ed articolata – quella dell’affidamento in custodia – che, invece, risponde ai criteri del garantismo e della transitorietà.

La lettera

Al Commissario di Roma Capitale

Spett.le Dott. Francesco Paolo Tronca

Al Sub-Commissario di Roma Capitale

Spett.le Dott. Bruno Spadoni

al Sub-Commissario di Roma Capitale

Spett.le Dott. Ugo Taucer

e per conoscenza

al Direttore della Gestione Amministrativa

Dipartimento Patrimonio Sviluppo e Valorizzazione

Spett.le Dott. Angelo Gherardi

al Prefetto di Roma

Spett.le Dott. Franco Gabrielli

ai Candidati Sindaco di Roma

On. Stefano Fassina

On. Roberto Giachetti

On. Virginia Raggi

Oggetto: tavolo di interlocuzione – riordino patrimonio pubblico utilizzato per finalità sociali

La campagna «Roma non si vende – Decide Roma» ha avanzato, nel mese di febbraio, la richiesta di interlocuzione con questa Amministrazione Commissariale con un intento chiaro e definito: ottenere una moratoria giubilare sugli sgomberi e sugli sfratti degli spazi sociali e delle realtà associative romane. L’attuazione del programma di riordino del patrimonio pubblico, infatti, rischiava di non tenere debitamente conto della differenza abissale tra coloro che, in città, hanno animato il circuito corrotto e mafioso di affittopoli e chi, invece, in questi anni, del patrimonio pubblico ha fatto un vero e proprio bene comune, praticandone un uso effettivamente sociale. Benché la richiesta di moratoria non sia stata, finora, ufficialmente accolta, abbiamo favorevolmente registrato nelle ultime settimane segnali di mutamento – di atteggiamento e di prospettiva – anche da parte di questa Amministrazione Commissariale, consapevole oggi che l’improvviso sgombero di tutte le realtà sociali romane comporterebbe non solo (e non tanto) un problema di ordine pubblico, quanto piuttosto un pregiudizio grave ed irreparabile per migliaia di abitanti di Roma che, negli spazi sociali, cercano, trovano o auto-organizzano le risposte ai loro bisogni, quelle stesse risposte che il pubblico non è troppo spesso in grado di fornire.

Abbiamo così avviato, in questo contesto, un’interlocuzione “tecnica” con questa Amministrazione, finalizzata all’individuazione di soluzioni in grado di garantire – in via transitoria – legittimità formale a tutte quelle realtà associative attualmente costrette in una situazione di completa incertezza formale, causata soprattutto dall’imperizia delle amministrazioni passate e della scarsa lungimiranza della recente produzione normativa comunale, a partire dalle delibere n. 219/2014 e n. 140/2015. Abbiamo avviato questo confronto nella convinzione ferma che le soluzioni tecniche eventualmente trovate non potessero che essere transitorie: e ciò perché siamo sempre stati, e siamo tuttora, assolutamente convinti che una soluzione politica vada discussa e maturata nell’ambito di un confronto con un’Amministrazione democraticamente eletta e quindi legittimata a produrre atti così impegnativi per il futuro della città a partire da valutazioni e criteri squisitamente politici.

È per questo stesso motivo che, parallelamente alla campagna in difesa degli spazi sociali e del loro valore, che ha portato più di 20.000 persone in piazza lo scorso 19 marzo, abbiamo avviato un processo pubblico, democratico e partecipato di scrittura di una «Carta per Roma Comune», ossia di una proposta normativa che stabilisca i principi fondamentali per un uso comune del patrimonio pubblico. La Carta si inserisce nel più ampio movimento di riconoscimento dei Beni Comuni Urbani da parte di decine e decine di Comuni italiani e che trova il suo apice nell’esperienza del Comune di Napoli, nel cui contesto il ritardo romano appare incomprensibile ed inaccettabile, stante comunque il fatto che la Giunta Marino aveva prodotto una simile proposta di deliberazione sui beni comuni urbani, previa elaborazione di una commissione di esperti, e che altre proposte simile vennero contestualmente presentate da alcune forze politiche. Una Carta capace di andare oltre le strettoie imposte dalle delibere n. 219/2014 e n. 140/2015 – strettoie che riconsegnano intatte alla città e all’amministrazione i problemi prodotti dall’attuale gestione del patrimonio comunale: inefficienza, scarsa trasparenza, impossibilità di garantire continuità e pieno riconoscimento a progetti di effettiva utilità sociale – vuole costituire la base per un confronto con i candidati sindaco e per una proposta scritta dalla città, in una prassi politica diametralmente opposta a quella tipica delle campagne elettorali, più aperta e più democratica. Si tratta di una proposta innovativa e impegnativa dal punto di vista politico, nel senso migliore del termine. E proprio per l’impegno che questa proposta comporta, non abbiamo mai – neppure lontanamente – pensato che essa potesse essere oggetto di confronto con un’Amministrazione Commissariale dotata, necessariamente, di margini angusti di apprezzamento e di poteri limitati. Sulla scorta di queste valutazioni, apprendiamo con preoccupazione delle intenzioni che questa Amministrazione Commissariale ha manifestato negli ultimi giorni: le soluzioni “tecniche” che si stanno da ultimo prospettando, infatti, sembrano avere carattere tutt’altro che transitorio, bensì vincolante per il futuro amministrativo e politico di questa città. Invitiamo quindi a riflettere sul fatto che le soluzioni finora da voi paventate mettono seriamente a rischio innanzitutto la possibilità – per l’Amministrazione ventura, qualunque essa sia – di poter decidere, all’interno di un confronto finalmente democratico, di cui Roma è priva da ormai troppo tempo.

Proviamo ad entrare nel merito delle questioni:

• In primo luogo, crediamo quantomeno inopportuno, se non illegittimo, che un’amministrazione commissariale, quindi straordinaria, metta mano, in scadenza di mandato, alla scrittura del nuovo «Regolamento delle concessioni». Regolamento che ha carattere generale e complessivo e che ha bisogno semmai di attenta riforma che coinvolga necessariamente anche i Municipi e i soggetti interessati. Ad una manciata di giorni dai comizi elettorali, e in assenza di una direzione politica chiara, non ci sono le condizioni per una consultazione né tanto meno per la riscrittura del Regolamento, un atto tanto impegnativo, tanto politico, tanto rilevante per la città, che non per nulla è rimasto immutato addirittura dal 1983. Non è possibile farlo, in rapidità e in silenzio, senza rischiare di compromettere e vincolare negativamente il lavoro delle amministrazioni future e del corpo sociale che legittimamente dovrebbe avere accesso al patrimonio comunale. Non è possibile farlo senza una discussione democratica e trasparente sulle proposte, le procedure, le eventualità contemplate in quel regolamento. A maggior ragione, non è possibile scrivere quel regolamento seguendo i canoni dettati dalla delibera n. 219/2014, proprio sulla base della più controversa e della più contestata tra le delibere della Giunta Marino.

• In secondo luogo, crediamo che non sia ammissibile cercare soluzioni transitorie che si basino sulla declassificazione da indisponibile a disponibile di ampi settori del patrimonio pubblico. È vero che il TAR del Lazio, in alcune recenti sentenze, ha inteso seguire un orientamento (invero assolutamente minoritario) della giurisprudenza, secondo il quale i beni pubblici sono disponibili in tutti i casi in cui non siano affidati a soggetti pubblici. È altrettanto vero, però, che questo non è l’unico orientamento possibile, e che soprattutto questo è lo schema giuridico che più di ogni altro toglie, alle amministrazioni presenti e future, e con esse dunque anche ai cittadini stessi, la possibilità di decidere e di disporre liberamente del proprio patrimonio. È possibile, di fatto e di diritto, concedere a finalità sociali il patrimonio pubblico, senza per questo declassarlo a patrimonio disponibile. Appare irragionevole e contrario al pubblico interesse che un provvedimento che dovrebbe sanare una situazione di presunta malagestione del patrimonio pubblico ne predisponga l’alienabilità in termini generalizzati, assumendo una interpretazione rigida e ristretta di servizio pubblico ampiamente superata nella pratica diffusa degli Enti Locali. Appare francamente assurdo ipotizzare che lo stesso provvedimento che dovrebbe salvaguardare gli spazi sociali ne disponga, contestualmente, la vendita, la dismissione, anche solo in ipotesi. Si tratterebbe di un arretramento inaudito persino rispetto a quanto sancito dalla Giunta Marino che, con la delibera n. 6/2015 che disponeva le dismissioni del patrimonio pubblico, espressamente escludeva gli immobili riguardati dalla delibera n. 26/1995.

• In terzo ed ultimo luogo, crediamo che occorra prestare estrema cautela nella proposta di eventuali soluzioni normative che abbiano il rango di una legge nazionale, di cui pure si discute in questi giorni. Siamo convinti che un’eventuale legge nazionale debba perseguire l’obiettivo di ristabilire il criterio politico come l’unico atto a definire il campo d’azione delle amministrazioni locali, a ridefinire competenze e sfere di intervento tra politica, amministrazione e enti di controllo. Riteniamo quindi che non debba in alcun modo pregiudicare le esperienze municipaliste che in tutta Italia, in atto o in potenza, riconoscono e promuovono i Beni Comuni. In particolare, siamo convinti che sarebbe illegittima, sia sotto il profilo politico che sotto il profilo costituzionale, una norma che imponga il bando pubblico (o le procedure di evidenza pubblica) come unico strumento utile alla concessione del patrimonio pubblico per finalità sociali e che al tempo stesso toglie ai Comuni prerogative loro proprie. Una vulgata troppo diffusa, ma giuridicamente infondata, asserisce che sia il diritto comunitario ad imporre il bando pubblico: eppure questa vulgata è effettivamente falsa, come confermano i più autorevoli giudizi della dottrina. Nessuno, neppure tra i migliori “tecnici”, sa dire quale sia effettivamente la direttiva europea che, in proposito, imporrebbe le procedure di evidenza pubblica alle amministrazioni: e questo perché semplicemente non c’è una direttiva in questo senso, stante il fatto che la direttiva n. 23/2014/UE riguarda solo ed esclusivamente le concessioni e gli appalti di servizi ed è riferita soltanto agli operatori economici, e non anche alla concessione di spazi pubblici per finalità sociali prive di qualunque fine di lucro. Il punto in questione è un punto assolutamente rilevante, nella misura in cui il criterio del bando pubblico è diametralmente antitetico ai principi fondamentali dei Beni Comuni, basandosi sulla concorrenzialità il primo, e sulla cooperazione, sulla partecipazione e sulla democrazia il secondo.

Sappiamo, nonostante quanto chiarito finora, che nessuna interlocuzione produttiva può nutrirsi soltanto di “no”. Proprio per questo, fermi restando questi principi per noi irrinunciabili, abbiamo avuto cura di elaborare una proposta, concreta ed articolata, per una soluzione che sia effettivamente transitoria e che lasci alla politica che verrà i doverosi margini di apprezzamento. Una proposta che fotografi semplicemente la realtà quale è oggi, e che le conferisca la legittimità che merita. Una proposta basata sull’affidamento in custodia, almeno fino a quando le regole non verranno – democraticamente e pubblicamente – riscritte. Un affidamento in custodia, con facoltà d’uso, agli unici soggetti in grado di custodire al meglio i questi beni immobili: e cioè esattamente le comunità ed i soggetti che li hanno custoditi, li hanno resi fruibili, li hanno aperti, li hanno manutenuti, li hanno resi utili e vi hanno erogato servizi. Si tratta di uno strumento a disposizione delle amministrazioni di prossimità, già ampiamente utilizzato al fine di evitare il degrado del patrimonio immobiliare pubblico compatibilmente con la ristrettezza di risorse a bilancio per la sua manutenzione e salvaguardia. Una proposta che va quindi incontro alle esigenze dell’Amministrazione, che non corre così il rischio di lasciare centinaia di immobili pubblici al degrado e all’abbandono, o in alternativa di spendere cifre esorbitanti per i servizi di guardiania e per le manutenzioni necessarie. Una proposta che va incontro alle esigenze di Roma e dei suoi abitanti, che non corrono così il rischio di vedersi privati, improvvisamente, di quanto di più bello e di più vivo c’è in questa città.

Roma Non Si Vende

Decide Roma