MONDO

Il nostro Momentum Climatico è stato ucciso dal capitalismo, non dalla “Natura Umana”

Pubblichiamo la traduzione inedita di un articolo molto interessante di Naomi Klein apparso l’estate scorsa su “The Intercept”. La giornalista critica un’analisi del “New York Times” rispetto al ritardo mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici e fa emergere quanto più volte abbiamo denunciato sul nostro portale: la lotta ai cambiamenti climatici è una lotta al capitalismo, che strutturalmente si riproduce mettendo a profitto l’ambiente e quindi anche la sopravvivenza dell’umanità nel nostro pianeta

Il prossimo sabato [4 agosto 2018 – ndt] l’intero numero del “New York Times Magazine” sarà composto da un unico articolo su un singolo argomento: il fallimento nell’affrontare la crisi climatica degli anni ’80, un periodo in cui la scienza andava nella giusta direzione e la politica sembrava seguire di pari passo. Scritto da Nathaniel Rich, questo lavoro di cronostoria è pieno di rivelazioni di addetti ai lavori sulle strade non intraprese che, in molte occasioni, mi hanno fatto imprecare a voce alta. E per sgomberare il campo da ogni dubbio sul fatto che le implicazioni di tali scelte hanno scolpito per sempre la nostra impronta geologica, le affermazioni di Rich sono minuziosamente accompagnate da foto aeree a tutta pagina di George Steinmetz che documentano in maniera straziante il rapido dissolversi dei diversi ecosistemi di questo pianeta, dalle acque impetuose di quella che una volta era la Groenlandia alla proliferazione di alghe nel terzo lago più grande della Cina.

Questo articolo, della lunghezza di un romanzo, rappresenta quel livello di impegno mediatico di cui la crisi climatica ha sempre avuto bisogno ma non ha mai ricevuto. Abbiamo sentito tutti le varie scuse secondo cui la questione marginale sul saccheggio della nostra unica casa non farebbe più notizia: «Il cambiamento climatico è una questione troppo lontana nel tempo»; «Non è corretto parlare di politica mentre le persone perdono la vita in incendi ed uragani»; «I giornalisti seguono le notizie non le creano e i politici non parlano di cambiamento climatico»; e l’immancabile «Ogni tentativo che facciamo è un rischio per i rating».

Nessuna di queste scuse riesce a nascondere l’inadempienza del dovere. Il mondo dei grandi media avrebbe potuto, in qualsiasi momento, decidere in maniera autonoma che la destabilizzazione del pianeta fosse la grande storia del momento, molto probabilmente quella con più conseguenze nella storia umana. Hanno sempre avuto la capacità di imbrigliare le capacità dei loro reporter e fotografi per collegare scienze astratte a eventi meteorologici estremi e reali. Se lo avessero fatto con costanza avrebbero attutito la necessità dei giornalisti di anticipare la politica, perché più la collettività è informata sull’argomento e sulle possibili soluzioni, più spingerà i propri rappresentanti a intraprendere azioni concrete.

Ecco perché è stato così elettrizzante vedere il “Times” mandare la propria macchina editoriale a tutta forza a sostegno dello scritto di Rich, anticipandolo con un video promozionale, facendolo uscire con un evento live al Times Center e accompagnandolo con materiali didattici.

Ed ecco anche perché faccia così rabbia che la tesi centrale di questo pezzo sia così incredibilmente sbagliata.

Secondo Rich, tra il 1979 e il 1989 la dottrina base del cambiamento climatico era compresa ed accettata, la divisione partitica sull’argomento doveva ancora prendere piede, l’industria dei combustibili fossili non aveva cominciato seriamente la campagna di disinformazione e buona parte dell’agenda politica globale convergeva verso un accordo internazionale preciso e vincolante sulla riduzione delle emissioni. Scrivendo a proposito del periodo chiave di fine anni ’80, Rich afferma che «Le condizioni per il successo non avrebbero potuto essere più favorevoli».

Eppure, siamo riusciti a mandare tutto all’aria. “Noi” esseri umani, apparentemente così miopi per quel che riguarda la salvaguardia del nostro futuro. Giusto nel caso ci dovesse sfuggire con chi e con cosa prendercela per il fatto che ci ritroviamo a «perdere il pianeta», la risposta di Rich si presenta con un appello a tutta pagina: «Tutti i fatti erano noti e nulla intralciava il cammino. Nulla, ovviamente, tranne noi stessi».

Eh già, voi e io. Non, secondo Rich, le industrie dei combustibili fossili che partecipavano a ognuno degli incontri politici descritti nell’articolo. (Immaginatevi se i dirigenti dell’industria del tabacco venissero ripetutamente invitati dal governo statunitense a discutere sulle politiche sul divieto di fumo. Se questi incontri finissero con un nulla di fatto, giungeremmo alla conclusione che il motivo è semplicemente che gli esseri umani vogliono morire? Non decideremmo forse, che invece il sistema politico è corrotto e ha fallito?).

Questa errata interpretazione è stata denunciata da molti storici e scienziati del clima fin dall’uscita della versione online dell’articolo lo scorso mercoledì [1 agosto 2018 – ndt]. Altri hanno fatto notare le esasperanti invocazioni alla “natura umana” e l’uso del regale “noi” per descrivere un gruppo urlante e omogeneo di forti gruppi di potere americani. In tutto il resoconto di Rich non c’è traccia di quei leader politici del Sud del Mondo che chiedevano azioni puntuali in quel periodo chiave e in quelli successivi, gli unici in qualche modo capaci di preoccuparsi delle generazioni future nonostante siano anche loro esseri umani. Nel frattempo, le voci delle donne nel testo di Rich sono tanto rare quanto gli avvistamenti del picchio dal becco avorio (e laddove sono presenti, appaiono principalmente come mogli affrante di uomini tragicamente eroici).

Tutti questi errori sono già stati ampiamente discussi, quindi non starò a tirarli fuori di nuovo. Mi concentrerò sulle premesse fondanti dell’articolo: la fine degli anni ’80 presentava condizioni che «non avrebbero potuto essere più favorevoli» per intraprendere azioni decise. Al contrario, è difficile immaginare momento più inopportuno nella storia dell’evoluzione umana per trovarsi faccia a faccia con la nuda verità su come gli agi del capitalismo consumistico moderno stessero erodendo l’abitabilità del pianeta. Perché? Perché i tardi anni ’80 erano lo zenith assoluto della crociata neoliberista, un momento di picco ideologico per un progetto economico e sociale creato appositamente per screditare l’azione collettiva in nome della liberazione dei “liberi mercati” in ogni aspetto della vita. Eppure, Rich non fa menzione di questo sconvolgimento economico e politico.

In questa foto di archivio del 9 maggio 1989, James Hansen, direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa testimonia al Campidoglio davanti ad una commissione del Senato sui trasporti, un anno dopo la sua storica testimonianza nella quale comunicava al mondo che il riscaldamento globale esisteva e sarebbe peggiorato

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Quando alcuni anni fa mi immersi anche io nei medesimi dati storici sul cambiamento climatico, conclusi, come Rich, che il momento cruciale in cui lo slancio generale sembrava dirigersi verso un accordo generale preciso e basato su elementi scientifici fosse proprio il 1988. Era il momento in cui James Hansen, allora direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, testimoniava davanti al Congresso di «essere sicuro al 99%» di «un trend di riscaldamento reale» collegato all’attività umana. Più tardi, in quello stesso mese, centinaia di scienziati e di uomini politici parteciparono alla storica Conferenza mondiale sui cambiamenti atmosferici a Toronto all’interno della quale furono discussi per la prima volta gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Per la fine di quello stesso anno, nel novembre 1988, il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento climatico delle Nazioni Unite, il primo organo scientifico che consigliava i governi sulla minaccia climatica, tenne la sua prima riunione.

Il cambiamento climatico, però, non era una questione solo per i politici e gli addetti ai lavori ma era diventato argomento di dominio pubblico, così che quando gli editori del “Time Magazine” annunciarono “L’Uomo dell’Anno” del 1988 optarono per un “Pianeta dell’Anno: la Terra in via di Estinzione”. La copertina ritraeva un’immagine del globo tenuto insieme da uno spago, con un sinistro tramonto sullo sfondo. «Nessun singolo individuo, nessun evento, nessun movimento ha catturato l’immaginario o dominato i titoli di testa», spiegava il giornalista Thomas Sancton, «come quell’ammasso di roccia, terra, acqua ed aria che è la nostra casa comune».

(Interessante notare come, a differenza di Rich, Sancton non ha incolpato la “natura umana” per questa rapina planetaria. È andato più in fondo, risalendo fino al concetto giudaico-cristiano del “dominio” sulla natura e a come questo abbia soppiantato l’idea precristiana secondo la quale «la terra era vista come una madre, fertile portatrice di vita. La natura, il suolo, le foreste e i mari erano carichi di un significato divino e i mortali vi erano subordinati»).

Scorrendo le notizie sul clima di quel periodo, sembrava davvero che un cambiamento profondo fosse a portata di mano. Poi è svanito tutto tragicamente, con gli Stati Uniti che abbandonavano i negoziati internazionali e il resto del mondo che approvava accordi non vincolanti che si basavano su pericolosi “meccanismi di mercato”, come lo scambio delle quote e le compensazioni. Quindi vale davvero la pena chiedere, come fa Rich: Cosa diavolo è successo? Cosa ha interrotto l’impellenza e la determinazione presente contemporaneamente in tutti gli establishment elitari alla fine degli anni ’80?

Rich conclude, senza presentare alcuna prova scientifica o sociale, che qualcosa chiamata “natura umana” sia arrivata e abbia mandato tutto all’aria. «Gli esseri umani», scrive, «facciano parte di organizzazioni mondiali, di democrazie, di industrie, di partiti politici o come singoli, sono incapaci di sacrificare le comodità presenti per evitare di penalizzare le generazioni future». Sembriamo essere condannati a «ossessionarci per il presente, preoccuparci per il medio termine ed esiliare il lungo periodo fuori dalle nostre menti, come se dovessimo sputare un veleno».

Osservando lo stesso periodo, sono giunta ad una conclusione molto differente: ciò che a prima vista sembrava essere la nostra occasione d’oro per scelte di salvaguardia climatica, in realtà rappresentava un caso eclatante di tempismo storico errato. Questo perché, guardando indietro a quella congiuntura, quello che emerge chiaramente è che, mentre i governi erano concordi sugli impegni per imbrigliare il settore dei combustibili fossili, la rivoluzione neoliberista raggiungeva il suo culmine e i progetti di ingegneria sociale ed economica si scontravano a ogni pié sospinto con gli imperativi della scienza climatica e della regolamentazione societaria.

Il mancato accenno, anche solo un riferimento, a questo altro trend globale che si delineava verso la fine degli anni ’80 rappresenta un colossale punto cieco nel lavoro di Rich. Dopo tutto, come giornalista, il beneficio principale di ritornare su un periodo passato non così lontano è che ti è possibile vedere tendenze e dinamiche allora non ancora visibili per chi si fosse trovato ad attraversare quegli eventi tumultuosi in prima persona. La comunità ambientalista del 1988, ad esempio, non aveva idea di trovarsi all’apice della convulsa rivoluzione neoliberista che avrebbe sconvolto tutte le principali economie del pianeta.

Però noi lo sappiamo. E se c’è qualcosa che diventa più chiaro osservando la fine degli anni ’80 è che, lungi dall’offrire «condizioni per il successo [che] non avrebbero potuto essere più favorevoli», il biennio 1988/89 era il peggior momento possibile per l’umanità per poter decidere di fare sul serio per mettere la salute planetaria davanti ai profitti.

 

Durante una cerimonia alla Casa Bianca il 28 settembre 1988, il Presidente Ronald Reagan firma la legge che sancisce l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Canada

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Ricordiamoci cos’altro stava succedendo. Nel 1988, il Canada e gli Stati Uniti siglarono il loro accordo di libero scambio, un precursore del NAFTA [North American Free Trade Agreement – Accordo NordAmericano per il Libero Scambio – ndt] e di innumerevoli altri accordi. Il muro di Berlino stava per crollare, un evento che sarà poi sussunto dagli ideologi dell’estrema destra americana come prova della “fine della storia” e assunto come via libera all’esportazione in ogni angolo del globo della ricetta Reagan-Thatcher sulle privatizzazioni, la deregolamentazione e l’austerità.

È questa convergenza di tendenze storiche (l’emergenza di un’architettura che avrebbe dovuto attaccare il cambiamento climatico e l’emergenza di un’architettura globale molto più potente per liberare il capitale da ogni costrizione) che ha fatto deviare il momentum che Rich identifica correttamente. Perché, come egli fa notare più volte, rispondere alla sfida climatica avrebbe richiesto l’imposizione di una rigida regolamentazione per chi inquinava accompagnata da investimenti nel settore pubblico per trasformare il nostro modo di produrre energia, di vivere nelle città e di spostarci.

Tutto questo era possibile negli anni ’80 e ’90 (lo è ancora oggi), ma avrebbe richiesto uno scontro diretto con il progetto neoliberista che a quell’epoca aveva dichiarato guerra all’idea stessa di azione del pubblico («La società non esiste», ci disse la Thatcher). Nel frattempo, gli accordi di libero mercato siglati in quel periodo preparavano il terreno per rendere molte delle iniziative di sensibilizzazione climatica (come gli incentivi e i trattamenti preferenziali per le green industries locali o il rifiuto di progetti inquinanti come il fracking petrolifero o gli oleodotti) illegali secondo le leggi del mercato internazionale.

Ho scritto un libro di 500 pagine a proposito del conflitto tra il capitalismo e il pianeta e non ne ritirerò fuori qui i particolari. Questo passaggio, tuttavia, approfondisce in qualche modo la questione e ne citerò un breve stralcio:

Non abbiamo fatto ciò che era necessario per ridurre le emissioni perché, fondamentalmente, erano in conflitto con il capitalismo deregolamentato, ideologia dominante per tutto il periodo in cui abbiamo lottato per trovare una soluzione alla crisi. Siamo bloccati perché le azioni che ci darebbero le opportunità migliori per evitare la catastrofe (e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza della popolazione) rappresentano una seria minaccia per una minoranza elitaria che tiene per il collo la nostra economia, i nostri processi politici e molti dei principali mezzi di comunicazione. Il problema non sarebbe stato insormontabile se si fosse verificato in un altro momento della nostra storia. Ma la nostra grande sfortuna collettiva è che la comunità scientifica abbia stilato la sua precisa diagnosi sul pericolo climatico nel preciso istante in cui quelle élites godevano di un potere politico, culturale e intellettuale come non lo si vedeva dagli anni ’20. Infatti, i governi e gli scienziati hanno cominciato a fare sul serio riguardo i tagli radicali alle emissioni di gas nel 1988, lo stesso anno che segnava l’alba di ciò che venne successivamente chiamata come “globalizzazione”.

Perché è così importante che Rich non faccia menzione di questo scontro e, invece, ritenga che il nostro destino sia stato deciso dalla “natura umana”? Importa perché se la forza che ha interrotto lo slancio verso l’azione “siamo noi”, allora il titolo fatalista sulla copertina del New York Times Magazine (“Losing Earth” [“Perdere la Terra” – ndt]) è davvero un titolo azzeccato. Se un’incapacità al sacrificio nel breve termine per un vantaggio in salute e sicurezza nel futuro è insita nel nostro Dna, allora non c’è speranza di invertire la rotta in tempo per evitare un riscaldamento davvero catastrofico.

Se, invece, noi umani eravamo davvero sull’orlo della salvezza negli anni ’80 ma ci siamo impantanati a causa di un’ondata di fanatismo delle élites e del libero mercato (a cui si opponevano milioni di persone in tutto il mondo), allora c’è ancora qualcosa di concreto che possiamo fare. Possiamo affrontare quell’ordine economico costituito e provare a rimpiazzarlo con qualcosa che affondi le proprie radici nella sicurezza umana e planetaria, un sistema che non ponga al centro la ricerca della crescita e del profitto a tutti i costi.

Le buone notizie (sì, ce ne sono) sono che oggi, al contrario del 1989, un giovane e crescente movimento di socialisti verdi e democratici sta prendendo piede negli Stati Uniti proprio con questa stessa visione e rappresenta molto più di una semplice alternativa elettorale: è la sola e unica àncora di salvezza per il pianeta.

Certamente, dobbiamo ancora metterci in testa che l’àncora di cui abbiamo bisogno non è qualcosa che abbiamo già provato, almeno non sulla scala di cui abbiamo bisogno. Quando il “Times” ha pubblicato su Twitter il teaser per l’articolo di Rich sulla «incapacità umana di affrontare la catastrofe del cambiamento climatico», l’ala ecologista dei Socialisti Democratici d’America ha proposto immediatamente questa correzione: «*IL CAPITALISMO*: Se si sono impegnati così tanto per capire cos’è andato storto, allora dovrebbe aver capito che è “l’incapacità del capitalismo di affrontare la catastrofe del cambiamento climatico”. Al di là del capitalismo, *il genere umano* è pienamente capace di organizzare società che prosperino entro limiti ecologici».

È un buon punto a loro favore, anche se incompleto. Non c’è nulla di indispensabile per cui gli esseri umani debbano vivere sotto il capitalismo; noi umani siamo in grado di organizzarci in ordini sociali molteplici e differenti, incluse anche società con un orizzonte temporale molto più esteso e un maggiore rispetto per i sistemi di sostentamento alla vita e alla natura. Infatti, gli esseri umani hanno vissuto in questo modo per la maggior parte della loro storia e molte culture indigene mantengono ancora in vita cosmologie geocentriche. Il capitalismo è un piccolo contrattempo nella storia collettiva della nostra specie.

Limitarsi a dare la colpa al capitalismo, però, non è abbastanza. È certamente vero che la ricerca di crescita e profitti infiniti si trova in antitesi con l’imperativo di una rapida transizione dai combustibili fossili. È certamente vero che lo sdoganamento generale del capitalismo senza limiti, conosciuto come neoliberismo, avvenuto negli anni ’80 e ’90 è stato ciò che ha dato il maggior contributo ai disastrosi picchi nelle emissioni globali nei decenni recenti, oltre a essere stato il principale ostacolo ad azioni scientificamente valide fin da quando i governi iniziarono gli incontri per discutere (e discutere e discutere) sulla riduzione delle emissioni. Ancora oggi rimane l’ostacolo principale, anche in paesi che si considerano leader ambientali, come il Canada e la Francia.

Dobbiamo però essere onesti sul fatto che anche il socialismo industriale autocratico ha rappresentato un disastro per l’ambiente, come evidenziato chiaramente dal breve calo di emissioni quando le economie del blocco sovietico sono crollate agli inizi degli anni ’90. E, come scrissi in Una rivoluzione ci salverà, il petrol-populismo del Venezuela ha continuato questa tradizione tossica fino ai giorni d’oggi, con risultati disastrosi.

Prendiamo atto di tutto questo, accettando anche che paesi con una forte tradizione socialdemocratica (come Danimarca, Svezia e Uruguay) si sono dotati di alcune delle politiche ambientali più avanzate al mondo. Da questo possiamo concludere che il socialismo non è necessariamente ecologico, ma che una nuova forma di eco-socialdemocrazia, che abbia l’umiltà di imparare dagli indigeni gli insegnamenti riguardo i doveri verso le future generazioni e le interconnessioni di ogni aspetto della vita, sembra essere la soluzione migliore dell’umanità per la sopravvivenza collettiva.

Questa è la posta in gioco per l’avvento di candidati politici di background movimentista che vogliano portare avanti una visione ecosocialdemocratica, unendo i puntini tra le depredazioni economiche causate da decenni di ascesa neoliberista e lo stato di devastazione della natura del nostro mondo. Parzialmente ispirati dalla candidatura presidenziale di Bernie Sanders, una gran varietà di candidati (come Alexandra Ocasio-Cortez a New York, Kaniela Ing alle Hawaii e tanti altri) fanno parte di piattaforme che invocano un “New Deal verde” che soddisfi le esigenze primarie materiali di tutti, offra soluzioni reali alle disuguaglianze di razza e di genere agendo da catalizzatore per una rapida transizione verso forme di energia rinnovabile al 100%. Molti, come la candidata Governatore di New York, Cynthia Nixon e il candidato Procuratore Generale di New York, Zephyr Teachout, si sono impegnati a non accettare donazioni dalle compagnie di carburante fossile, promettendo invece di perseguirle.

Questi candidati, poco importa se si considerano socialdemocratici o meno, stanno rifiutando il centrismo neoliberista dell’establishment del Partito Democratico con le sue tiepide “soluzioni basate sul mercato” per la crisi ecologica, così come la guerra totale di Donald Trump contro la natura. Stanno anche proponendo alternative concrete al socialismo antidemocratico estrattivista del passato e del presente. Forse – cosa ancora più importante – questa nuova generazione di leader politici non è interessata a trasformare “l’umanità” nel capro espiatorio per l’ingordigia e la corruzione di una minoranza elitaria. Anzi, sta cercando di aiutare l’umanità (in particolare i membri più inascoltati e ignorati) a trovare la propria voce e il proprio potere collettivo per poter affrontare tale élites.

Non stiamo perdendo la terra, ma la terra si sta riscaldando così tanto e così in fretta da essere nella direzione giusta per perdere gran parte di noi. Al momento giusto, un nuovo percorso politico verso la salvezza si delinea all’orizzonte. Non è questo il momento per rimpiangere i decenni perduti. Diamine, è il momento di intraprendere il cammino.

Articolo pubblicato su The Intercept

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress

Foto di copertina tratta da qui