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ITALIA

Non una di meno: un movimento che eccede l’esistente

Dalle prime mobilitazioni fino alla convocazione dello sciopero del prossimo 8 marzo: una ricostruzione di immagini e parole dei passaggi chiave che hanno portato il movimento femminista a imporsi nella scena politica italiana.

Nel giugno del 2016 le pagine della cronaca d’Italia si riempirono dei dettagli morbosi su di un efferato femminicidio avvenuto a Roma. Una ragazza di 22 anni, Sara Di Pietrantonio, uccisa il 28 maggio 2016 in una zona periferica di Roma, la Magliana. Il suo ex la perseguitava morbosamente e non accettava la fine della loro relazione. La narrazione mediatica diventò sempre più voyeuristica, alternando articoli dai “toni passionali” – l’ha uccisa perché l’amava troppo – a toni più vittimistici dell’assassino, mancando, puntualmente, ogni altra ragione strutturale, sociale, politica che sta dietro a quel termine – ormai sdoganato – “femminicidio” che anche nel 2000 avanzato, continua ad essere un’emergenza sociale in Italia, come nel resto del mondo.

A Roma le realtà femministe della Rete cittadina Io Decido che negli anni ha coinvolto nelle sue battaglie: centri e sportelli antiviolenza, associazioni sindacali, spazi di donne, spazi sociali, collettivi, laboratori d’inchiesta, singole etc… ha deciso di mobilitarsi con una prima riunione presso la casa delle donne Lucha Y Siesta.

 

 

Il 2 giugno 2016, il giorno in cui qui in Italia le istituzioni celebravano la nascita della Repubblica Italiana, nel giorno in cui ricorreva anche il settantesimo anno del suffragio universale, un folto gruppo di donne è andato in via della Magliana, nel luogo dove si era consumato il femminicidio, tra i più atroci degli ultimi tempi. Nessuna cerimonia, ma tanta rabbia. Tanti i cartelli presenti al presidio: “not in my name”, “l’assassino non è un malato ma il figlio sano del patriarcato”, “ti amo da vivere”, “amateci di meno”, “questa è guerra contro le donne e noi risponderemo!”.

 

 

Il grido era già transnazionale. Circa un anno prima, il 26 marzo del 2015, in Argentina un gruppo di giornaliste, scrittrici, attiviste e artiste, per protestare contro l’escalation di violenza contro le donne ha ripreso il verso della poetessa messicana (vittima di femminicidio) Susana Chávez – Ni una mujer menos, ni una muerta más – trasformandolo in un grido collettivo di straordinaria potenza, Ni una Menos, che si sarebbe in breve diffuso in tutto il pianeta.

Un grido urlato in piazza il 3 giugno dello stesso anno da migliaia di donne scese in strada a Buenos Aires e in altre 120 città del Paese, in reazione all’ennesimo caso di femminicidio, quello di una adolescente di 14 anni, Chiara Páez, uccisa e sepolta dal fidanzato perché incinta.

Un hashtag ha iniziato a diventare virale e a diffondersi dalla rete alle piazze del mondo, accompagnato da un altro slogan Vivas nos queremos, a indicare la vera rivendicazione di questa nuova ondata femminista planetaria: “non soltanto non essere uccise, ma vivere e vivere come vogliamo noi”.

In Italia la traduzione letterale in Non una di meno è stata un anello di congiunzione con altre migliaia di migliaia di corpi con le stesse parole d’ordine urlate oltre oceano.

 

 

Il 26 novembre 2016, il giorno dopo una data simbolica, la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il passaparola si è diffuso anche in Italia e la città di Roma si è trasformata. Una marea umana ha invaso le vie del centro, 200.000 persone da tutta Italia e non solo hanno voluto portare in piazza i loro corpi.

 

 

Un nuovo femminismo, una combinazione virtuosa e alleanza reale non solo tra diverse generazioni, ma anche e soprattutto tra diversi femminismi. Che ha rimesso al centro l’intersezionalità come pratica per immaginare forme di resistenza all’altezza dei dispositivi di controllo, di cattura e di sfruttamento contemporanei.

 

 

Negli ultimi anni Non una di meno è scesa in piazza con grandi cortei a Roma in occasione del 25 novembre, attraversati da una componente sempre più giovane che sta letteralmente crescendo insieme al movimento femminista stesso.

 

 

Il 27 novembre, in una prima assemblea nazionale (ne sono seguite molte altre) presso la Facoltà di Psicologia de La Sapienza di Roma, centinaia di donne hanno iniziato a lavorare in sinergia in 9 tavoli tematici per approfondire l’apporto di ogni ambito specifico verso la scrittura di un Piano Femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere che ha visto la luce circa un anno dopo.

Per scrivere il Piano, i Tavoli e le assemblee territoriali hanno lavorato sia a livello locale che nazionale.

Il Piano si basa sul presupposto che la violenza maschile contro le donne è sistemica, attraversa cioè tutti gli ambiti delle nostre vite e si fonda su comportamenti radicati. È implicita nella costruzione e considerazione sociale del maschile e del femminile, per questo si parla di violenza di genere. E non può essere superata in un’ottica emergenziale.

Il Piano è un documento di proposta e di azione, frutto della scrittura collettiva di migliaia di donne e soggettività alleate, che parte dalla messa in comune di esperienze e conoscenza e che prende le mosse da una metodologia intersezionale, che intende cioè analizzare le forme di oppressione che si innestano sulle differenze sociali, di origine, di classe, di identità di genere e sessuale, abilità e età.

“Perché il femminismo si fa (a) scuola” – Scuola e università sono luoghi primari di contrasto alle violenze di genere. Il movimento Non una di meno ha messo al centro tra le sue rivendicazioni la questione dei finanziamenti pubblici e strutturali per i settori dell’educazione, della formazione e della ricerca, dal nido all’università. La formazione quale prevenzione della violenza di genere, la revisione dei manuali e del materiale didattico, perché la scuola non contribuisca più a diffondere una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti di potere tra essi. A partire dal fatto che “La Buona Scuola” ha inferto un colpo mortale al nostro sistema scolastico: dietro i concetti chiave di innovazione, autonomia, inclusione e merito si cela in realtà una visione della scuola fortemente antidemocratica.

 

 

Per prevenire la violenza è necessaria “una narrazione femminista e transfemminista” – perché i media svolgono un ruolo strategico nell’alimentare o contrastare la violenza, necessario, dunque, eliminare la rivittimizzazione secondaria attraverso i media, eliminando a monte le narrazioni tossiche.

 

 

“Libere di muoverci, libere di restare” – Non una di meno si è mobilitata contro il regime dei confini e il sistema istituzionale di accoglienza, rivendichiamo la libertà di movimento e il soggiorno incondizionato dentro e fuori l’Europa, svincolato dalla famiglia, dallo studio, dal lavoro e dal reddito, criticando a monte il sistema istituzionale dell’accoglienza e rifiutando la logica emergenziale applicata alle migrazioni. Non una di meno ha immediatamente intrapreso una battaglia contro il decreto Salvini che favorisce lo sfruttamento lavorativo delle migranti e dei migranti. Di più, il blocco delle frontiere aumenta esponenzialmente il rischio di cadere nelle mani dei trafficanti. Perché le donne che attraversano i confini combattono in prima linea contro la violenza sistemica e patriarcale, contro lo spossessamento e lo sfruttamento, sia nei paesi di origine che in quelli di transito e di arrivo.

 

 

Non una di meno è scesa in piazza anche contro la strumentalizzazione della violenza di genere in chiave razzista, securitaria e nazionalista in molte città d’Italia, da Macerata, dopo il femminicidio di Pamela Mastropietro al quartiere di San Lorenzo di Roma, dopo la morte di Desirée Mariottini.

 

 

E mentre la retorica del degrado vorrebbe le donne in casa – eppure sono molti i femminicidi consumati nelle mura domestiche o perpetrati da familiari o dal partner – Non una di meno delinea le mappe desideranti della città femminista, perché per creare spazi e tempi di vita sani e sicuri è necessario recuperare i cosiddetti quartieri abbandonati, aumentare i luoghi autonomi, riprogettare e risignificare i territori urbani partendo dalle esigenze delle donne.

 

 

“Vogliamo un centro antiviolenza in ogni quartiere!” – I cav, quali luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi che intervengono sulla formazione sensibilizzando il territorio e strutturando un sistema complesso di reti.  Spazi che accolgono e sostengono i singoli percorsi di fuoriuscita dalla violenza che non possono essere affrontati con politiche repressive, bensì garantendo reddito, diritti e servizi. Eppure, i centri antiviolenza in Italia sono sempre più pochi e insufficienti. A fronte dei continui episodi di violenza sulle donne, questi importanti presidi territoriali sono sempre più definanziati, dismessi, smantellati, e chiusi.

“Libere dalla violenza economica, dallo sfruttamento e dalla precarietà”, perché per superare la violenza di genere nella crisi occorrono strumenti e misure in grado di garantire l’autodeterminazione e l’autonomia delle donne, antidoti alla violenza data da dipendenza economica, sfruttamento e precarietà. La risposta per Non una di meno è un salario minimo europeo e un reddito di autodeterminazione di base, dunque incondizionato e universale, slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno. Mutualismo e solidarietà contro le ritorsioni datoriali, contro i ricatti, le molestie, le discriminazioni e ogni forma di violenza dentro e fuori i posti di lavoro.

E Non una di meno si è mobilitata anche per rispondere a chi, come Pillon, vorrebbe utilizzare proprio il ricatto e la dipendenza economica per riaffermare la famiglia come ordine gerarchico patriarcale, quando sarebbero necessarie politiche a sostegno della maternità e della genitorialità (realmente) condivisa, con estensione incondizionata delle indennità di maternità, di paternità e parentale a tutte le tipologie contrattuali.

 

 

Nella giornata del 10 novembre del 2018, i presidi in tutta Italia contro un Ddl che rappresenta un’opera di restaurazione di stampo ultra-cattolico, presentato dall’uomo del Family Day. Da Milano a Verona a Roma, moltissime hanno indossato i vestiti di ancella per rendere immediatamente visibile il contrattacco in atto nei confronti delle donne a suon di decreti e desertificazione sociale: “Ci volete ancelle, ci avrete ribelli!”

 

 

“Libere di decidere sui nostri corpi” – a partire da una concezione della salute come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale e come espressione della libertà. Uno dei terreni di lotta di Non una di meno è la dilagante obiezione di coscienza nel servizio sanitario nazionale che lede il diritto all’autodeterminazione delle donne. A 40 anni dall’approvazione delle Legge 194 – che legalizzava nel 1978 l’interruzione volontaria di gravidanza – nel maggio del 2018, Non Una Di Meno è tornata nelle piazze di tutta Italia.

 

 

Forte della solidarietà dei movimenti femministi che in tutto il mondo – dall’Argentina all’Irlanda, dalla Polonia agli Stati Uniti – hanno rimesso al centro del dibattito pubblico la giustizia riproduttiva e la libertà di scegliere con lo slogan mutuato in vari claims: “Educazione sessuale per decidere/anticoncezionali per non abortire/abortire per libera scelta”.

 

 

L’intersezione tra femminismi di varie generazioni è stata sinergica anche nella battaglia per la risignificazione dei consultori quali spazi politici, culturali e sociali oltre che come servizi socio-sanitari, valorizzando la loro storia di luoghi storici delle donne per le donne.

 

 

“Le violenze sui territori colpiscono anche noi” – anche la “violenza ambientale” quella che si attua contro il benessere dei corpi e degli ecosistemi in cui viviamo è al centro delle rivendicazioni di Non una di meno, un movimento che ha l’ambizione di continuare un cammino comune a livello transnazionale nell’esercizio e nello scambio di pratiche transfemministe volte alla costruzione di politiche economiche decolonizzate, alternative a quelle biocide ed estrattiviste del capitalismo neoliberale.

 

 

Una prima “sfida” di questa nuova ondata di femminismo transnazionale è stata, del resto, lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo del 2017. Una giornata in cui migliaia di migliaia di donne si sono fermate in 54 paesi, dando vita al primo sciopero globale della storia. Anche in Italia ci sono stati cortei e azioni in molte città che hanno bloccato il paese per un giorno intero al grido di “Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo!”.

Una giornata in cui sono state sperimentate e praticate forme di blocco della produzione e della riproduzione sociale, reinventando lo sciopero come vera e propria pratica femminista a partire dalle forme specifiche di violenza, discriminazione e sfruttamento che le donne vivono quotidianamente, in ogni ambito della vita.

Nel corso di questi anni le realtà e le assemblee cittadine e territoriali in Italia di Non una di meno sono aumentate progressivamente, un dato che restituisce la complessità e – nello stesso tempo – la trasversalità del movimento femminista italiano.

Dalla provincia al mondo intero. Nell’ ottobre del 2017, con due milioni e trecentomila tweet nel mondo, la valanga #metoo metteva in crisi un sistema di potere che fondava sul silenzio delle donne la legittimazione di abusi e molestie. In un periodo storico che vede l’emersione a livello globale di nuovi autoritarismi e fascismi il #metoo si è configurato come una presa di parola delle donne in tanti paesi e in tanti ambiti delle loro vite.

Come trasformare la narrazione in uno strumento capace di cambiare in modo efficace i comportamenti quotidiani e i rapporti di forza odierni? Una risposta lanciata da Non una di meno verso lo sciopero femminista dell’8 marzo dello scorso anno è stata il #WETOOgether, una presa di coscienza di un movimento che eccede l’esistente, attraversa frontiere, lingue, identità per costruire nuove geografie solidali.

 

 

Verso l’8 marzo di quest’anno la sfida è ancora aperta. Il movimento femminista globale ha dato nuova forza e significato alla parola sciopero, svuotata da anni di politiche sindacali concertative. Anche quest’anno nessuno sciopero generale indetto dai sindacati confederati… Nel frattempo continuano ad arrivare adesioni di categoria di molte sigle sindacali. Lo sciopero femminista coinvolgerà le lavoratrici a tempo indeterminato, le partite Iva, le precarie, le lavoratrici in nero, il lavoro di cura e domestico, le stagiste e le lavoratrici senza contratto, le precarie e le partite Iva, le tirocinanti, le pensionate le disoccupate e le studentesse, perché discriminazioni e sfruttamento attraversano ogni ambito della nostra vita, in casa, a scuola, a lavoro, nella formazione, nei mass media e non solo. Lo stato di agitazione permanente di Non una di meno continua. #NoiScioperiamo

 

 

Foto di Daniele Napolitano