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Non è una città per pochi

Dopo l’occupazione del 14 settembre e l’assemblea al Cinema Palazzo per la costruzione di una coalizione sociale attorno al Diritto alla città, una riflessione dal progetto Hierba Mala.

L’avventura di Hierbamala è iniziata un anno fa. In questo periodo abbiamo provato a ragionare attorno ad alcuni nodi politici che ci sembravano importanti da risignificare e praticare, decostruire concetti quali “diritto alla città” e spazio del “comune” per arrivare ad un nuovo utilizzo del patrimonio e delle risorse pubbliche; ci siamo confrontati su come nell’epoca dell’individualismo e del default si potessero ricostruire nessi sociali nei territori ed economie solidali fuori dal ricatto del consumo ad ogni costo.

Questa avventura si è concretizzata domenica con la riappropriazione di uno spazio al Pigneto e si è interrotta temporaneamente il giorno dopo. La decisione di uscire da via Anassimandro è stata difficile, ma è stata una decisione tutta politica, ragionata a partire dall’idea che abbiamo di questa città, di chi la governa e di come invece dovrebbe essere gestita e vissuta da chi la abita.

Per questo uscire dall’occupazione per noi non rappresenta un passo indietro ma un avanzamento nella definizione di questi temi o almeno nella loro elaborazione e condivisione. Prendiamo quindi come paradigma la nostra vicenda per contribuire al dibattito che si è aperto durante questa estate di sgomberi, denunce e sigilli e che già da ieri nell’assemblea Diritto alla Città in Piazza dei Sanniti ci ha visto tutte e tutti insieme in un primo momento di confronto pubblico.

Lo spazio occupato domenica 14 da Hierbamala è, come già sapevamo, di proprietà del Comune di Roma, solo il giorno dopo abbiamo scoperto però che esiste una famiglia del quartiere che da circa 40 anni è in guerra con l’amministrazione per ottenerne la concessione di utilizzo, finalizzata alla creazione di una attività artigianale. La famiglia in questione ha occupato l’immobile nel ’76 e dal ’96 ha un contenzioso legale con il Comune di Roma.

Noi siamo in guerra contro chi comanda Roma. Siano essi i sindaci che si alternano o i privati che ci speculano, chi la controlla in divisa, chi la controlla con la prepotenza per strada, per dirla nel modo più scontato ma condiviso, il tema da risolvere è attaccare e fare male ai poteri forti.

La nostra proiezione del conflitto è quindi, a Roma come ovunque e in ogni circostanza, necessariamente verticale. Per questo abbiamo occupato uno spazio di proprietà pubblica lasciato vuoto, come avremmo potuto occuparne uno privato legato alla rendita. Ci siamo invece trovati di fronte un’altra situazione, in quella che si potrebbe definire “una guerra tra poveri”.

Sgombriamo il campo da equivoci, le persone con cui abbiamo avuto a che fare non sono compagn@, ne necessariamente delle belle o brave persone, in quel posto ci vogliono fare una attività ben lontana dalla nostra idea di lavoro in comune, le modalità di relazione lasciano molto a desiderare, e di sicuro non sono in generale attenti al tema dell’utilizzo del patrimonio pubblico o alle sorti di questa città. Questo per dire che la nostra scelta non è stata dettata da una simpatia empatica ma da un ragionamento tutto politico. Che cosa ci racconta questa storia?

Quando parliamo di città ci riferiamo di conseguenza alla cittadinanza che la vive. O meglio sarebbe dire “abitanti” utilizzati con finalità di consumo a cui è negata ogni possibilità partecipativa alle decisioni e alle scelte che riguardano le loro vite e i loro territori. Questa composizione ci appartiene, al netto della consapevolezza che ci spinge a vivere vite differenti.

E se anche la nostra comunità, largamente intesa, è numerosa, è comunque insufficiente e non sempre riconosciuta; fuori di noi c’è un mondo che non è ancora una comunità consapevole ma con cui abbiamo molto in comune. Possiamo definirla come un questione di classe o come un’urgenza democratica moderna, ma il risultato non cambia.

Per cui ogni iniziativa, analisi, occupazione o percorso che mettiamo in piedi deve avere la capacità di coinvolgere i settori numericamente maggioritari ai quali questa città è negata. Altrimenti rischiamo di alimentare un dibattito tra di noi. Questa famiglia è un esempio di tutto questo, e per quanto anni luce differente da noi, non aveva nessun senso politico aprire una contesa con loro. Semmai il tema è come intercettare e sostenere storie simili. Insomma il “diritto alla città” non dovrebbe essere una scelta esclusivamente militante ma una cultura di massa da estendere e praticare.

Se tutto ciò possiamo considerarlo veritiero, cosa intendiamo per “Riprendiamoci la città”?

La vicenda dello spazio al Pigneto infatti ci racconta di come l’utilizzo dell’occupazione sia pratica diffusa, che va oltre indicazioni o percorsi politicizzati. A Roma si occupa da sempre, certo le azioni messe in pratica dal movimento hanno poi contribuito ad una maggiore consapevolezza generale, ma il grosso l’ha fatto l’aggravarsi delle condizioni materiali della crisi in corso.

Per chi abita in quartieri periferici e popolari questo è sempre più evidente giorno dopo giorno, case e negozi abbandonati sono ormai quasi tutti occupati. Questa tendenza va accolta con favorevole entusiasmo perché segna in ogni caso un disordine nell’idea della città controllata che ci vogliono imporre. E’ pur vero che alla legalità imposta non è sufficiente rispondere solo con una illegalità diffusa. Queste occupazioni frequenti e spontanee in realtà spesso nascondono una riorganizzazione degli stessi poteri che governano Roma, e che utilizzando rapporti di forza e sodalizi con le forze dell’ordine, non fanno altro che utilizzare questi spazi per creare meccanismi speculativi e di rendita sempre ai danni degli ultimi, che incapaci e impossibilitati a reagire subiscono in “nero” l’ennesima ingiustizia. Insomma non è né sufficiente definire “riprendere la città” come un’ esclusiva militante, che a partire dalle soggettività più diverse tenta di occupare tutto l’occupabile, ne è possibile “riprendere la città” senza un idea di cambiamento della città stessa. È urgente quindi una definizione di uno spazio “ del comune” da cui partire per “riprendere Roma”.

“Né pubblico, né privato. Comune”. Come avete letto questo è lo slogan che abbiamo scelto per Hierba Mala. Pensiamo che ad oggi il pubblico (inteso come amministrazione) e il privato siano la facce della stessa medaglia. Un’opzione evidente che tende a concentrare le risorse e i denari nelle mani di pochi escludendo tutt@ gli altri.

Da qui l’urgenza di costruire uno spazio “comune” che non necessariamente si piazzi in mezzo ai due, ma che abbia la capacità di avere una vocazione plurale, trasparente, che garantisca possibilità e diritti per tutt@ (ciò che il pubblico ha perso) ma che sia capace di non vincolare, costringere o normalizzare le esperienze e le iniziative che vengono dai cittadini o dai collettivi. È evidente che anche in questo caso per respingere tentativi privatistici o speculativi l’urgenza è definire cosa è Comune o cosa non lo è.

Il ragionamento è all’inizio, in questi ultimi anni alcune esperienze significative – culturali, femministe e queer – hanno provato a cimentarsi con la questione del Comune ed anche noi proviamo a contribuire, sapendo che il divenire di questa categoria è il compito di tutt@ noi. Intanto il comune è ciò che è bene di tutt, quello che è necessario per tutt@, che va governato a partire da un coinvolgimento universale e che mai può finire in esclusiva di qualcuno o a favore del profitto privato. La categoria del “comune” è quindi estendibile a beni materiali e non, e si articola sul tema dell’uso.

Ma è evidente che per chi intende cambiare le sorti di una metropoli come la nostra, la battaglia per la definizione del patrimonio pubblico o privato come “bene comune” è primaria. La nostra vicenda parla infatti anche di questo. Una città diversa è una città che non regala più patrimonio e territorio a costruttori e privati, ma una città che è costruita a partire dalla partecipazione dei suo cittadin@, che sappia riconvertire i luoghi della speculazione in attività “dei e per” i territori, riconsegnandoci una città viva.

Da qui l’idea che il patrimonio pubblico e privato inutilizzato debba essere subito riempito di cultura, sport, servizi; possibilità di formazione per chi è esclus@ o vuole sottrarsi al mercato del lavoro, per creare i presupposti di un reddito possibile; spazi anche per il commercio e l’artigianato, slegato da cartelli e grandi catene ma a favore dell’iniziativa di quella cittadinanza relegata ai margini, di cui fa parte la famiglia che abbiamo conosciuto.

Per tutto questo siamo convinti che uscire sia stata l’unica possibilità di rilanciare il discorso pubblico che abbiamo in testa, rimanere avrebbe risposto solo ad una nostra esigenza soggettiva che non ci avrebbe più dato la possibilità di continuare il nostro tentativo di “riprenderci Roma”.

Intanto il primo ottobre roviniamo la festa a Marino e suoi amici, il “diritto alla città” ri-comincia adesso

Hierba Mala

Né pubblico, né privato. Comune