ROMA

Nelle strade, tra i poveri della Roma a Cinque Stelle

Riceviamo e pubblichiamo il racconto di un ragazzo “precario e volontario” che da diverso tempo aiuta e sostiene persone in difficoltà nelle strade della capitale

I Cinquestelle hanno colto un nodo centrale di questi anni: siamo così disperati che abbiamo bisogno di sangue per le strade per sentirci vendicati. E ce lo stanno dando, a spese dei più deboli. Pensavo una roba così l’altra sera, seduto su uno scalino con una carriola arancione sulla testa che m’aveva messo una pupetta di sette anni, bellissima, di un qualche Sud America, che avrebbe dormito sul lastricato della chiesa alle mie spalle.

«Ma come ti chiami?».

«Tu non vedi niente, tu non vedi niente».

«La puoi togliere ‘sta minchia di carriola?».

«No».

Marco era passato con noi a dare una mano agli sgomberati di Cinecittà che dormono sotto il porticato di Santi Apostoli. Tornato a casa racconta alla compagna dei bambini tra le tende e i materassi. Il messaggio gira tra le mamme, il giorno dopo arrivano lenzuola, abiti e giocattoli. È fondamentale portare giocattoli. È fondamentale soprattutto per te che guardi il pupo girare sul triciclo che hai portato e ti senti un po’ meno merda.

Non so se qualcuno se lo chiede come mangia la gente che è stata sgomberata a Piazza Indipendenza come a Cinecittà. Come fa a mettere qualcosa su un piatto chi i piatti non li ha. O più esattamente li aveva, fino a quando la polizia glieli ha fracassati. I loro racconti elencano televisori infranti per crudeltà, trapani e strumenti di lavoro rubati dalle forze dell’ordine. Mangia perché gli do da mangiare io. E dico io, per dire nessuno, un assoluto nessuno, uno dei tanti che per paura del mondo, più che per volontà, si muovono tra le sofferenze di Roma. Nel mio caso un precario della scuola che ha preso gli ultimi 600 euro di stipendio a giugno.

Nello statuto della mia associazione è scritto che ci occupiamo “dei senza fissa dimora”, ma mentiamo. Perché quando siamo in strada arriva il pensionato, il precario, il divorziato che non riesce a pagare gli alimenti. Qualcuno di noi cucina, pizzerie amiche regalano l’invenduto, la frutta è merito del banco alimentare. La plastica un po’ la compriamo, un po’ si va di colletta alimentare. D’estate non riusciamo a preparare le uova perché siamo pochissimi. Una volta si diceva che il volontariato suppliva alle inefficienze dello Stato – la Croce Rossa stima che ci siano 30mila senza fissa dimora a Roma e di 22.000 se ne occupano le associazioni – ma anche questa è una menzogna. Noi non ripariamo un’inefficienza.

Gli sgomberi non sono frutto di incompetenza, ma di marketing.

Il video di 30 secondi con l’idrante che colpisce il rifugiato, è una pubblicità e “spezzagli il braccio” fa la funzione di un jingle. Al posto dello spot coi ragazzini felici in spiaggia che ci fa sognare una bibita gassata, qui, nella violenza scatenata contro il debole, ci fanno sognare lo Stato che sa prendere posizione contro la criminalità, ovvero il povero. Il primissimo atto della giunta Raggi, il gesto chiamato a plasmare l’immagine della nuova amministrazione, fu sgomberare dei senza tetto sotto il Tevere. Quando quella gente perse le baracche ci sentimmo tutti più sicuri.

I danni di questo marketing della violenza che vende vendetta alla coscienza intristita della nostra crisi, li paghiamo noi. La mia associazione dà da mangiare dalle 70 alle 150 persone. Dopo gli sgomberi, le persone sono triplicate. Esiste una rete di solidarietà tra le occupazioni. Chi ancora ha una casa si preoccupa di portare da mangiare a chi è stato sgomberato, cioè dei poveri, se ne occupano altri poveri, o le associazioni, non i servizi sociali. “Medicine, lenzuola, giochi per i bambini, medicine”, gli sms con questa lista della spesa che ci scambiamo, scandiscono una ricostruzione di dignità per noi, una catastrofe dall’altro lato. Ho cucinato per qualche mese al Baobab: «Vedi? – m’ha detto Simone portando banane regalate da un fruttivendolo egiziano che scaricavamo in fretta davanti al centro – noi gli diamo le banane, questi ci danno la dignità».

Stare in strada ha moltiplicato la mia vita. La quantità di storie con cui vengo in contatto, è una grazia a cui mi appoggio. Una delle persone prese in faccia dagli idranti a Piazza Indipendenza, l’ho conosciuta mentre portavamo pesche e mele al presidio. Fino a un mese fa faceva il mio stesso servizio. È una rifugiata senza denari ma andava nelle stazioni a dar da mangiare ai senza tetto. Ora non può più, perché non ha più una cucina e l’idrante l’ha sciancata.

Dalle mediocrità di una vita sottoposta al ricatto della sopravvivenza, da un rapporto con la città che è poi il negozio, il bar, l’ufficio, comunque il denaro da spendere o guadagnare, passi al contatto. È un antidoto contro le etichette di “illegalità” e “degrado”, colate di cemento sopra le facce che incontro, grigiume doloroso che cancella l’identità delle persone mutandole in problemi. Non c’è Michela che ha tre figli affidati ai servizi sociali e temiamo sia di nuovo incinta, o Daniele o Antonio, ma il vecchio che dormendo per strada prova la decadenza della città, o l’operaio edile che occupa perché lo pagano a nero e non può permettersi l’affitto, quindi è prova di illegalità. Perché Gianni che chiede l’elemosina al Vaticano mi metta in pericolo non l’ho mai capito. Ma Daniele o Antonio vengono tramutati in minacce alla mia sicurezza. Antonio ha un gran senso dell’umorismo e Daniele è gentilissimo.

Ho incrociato un servizio della 7 che non linko perché non voglio che Nymar venga ricordato così. La giornalista, inquadrato il cartone di Nymar dietro il colle del Colosseo, correva lesta dal vigile a indicargli il morto di fame affinché lo cacciasse. Questo vecchio indiano era la prova del degrado di Roma. Lo conoscevo da 5 anni, ed è morto sei mesi dopo quel servizio. Non credo sia riuscito a portarsi nella tomba il degrado della Capitale. Abbiamo speso mesi, ripeto mesi, per riuscire a far tornare il corpo dai famigliari in India. Nymar aveva un documento liso dagli anni e senza foto al fratello, vista la difficoltà di identificarlo, è stato negato per “pericolo terrorismo”, giuro, “pericolo terrorismo”, il visto per venire a riprendere il cadavere. Cadavere che, in nome della legge, è rimasto per un tempo infinito in una cella frigorifera dell’ospedale. Non solo a Nymar non è stato concesso di vivere, ma anche morire gli è stato reso il più arduo e doloroso possibile.

Questa porcata venduta come “legalità” che dimentica gli obblighi costituzionali che si avrebbero verso il rifugiato e il debole, va a costruire un sistema che risulta invivibile e martella il povero. A spese sue si fa politica.

Vorrei essere concreto.

Pino (invento il nome per rispetto) ha 70 anni. Ha lavorato alle poste e all’università. Poi gli muore il padre, quindi la madre. Va in una depressione da cui esce perdendo casa e lavoro. Vive da trent’anni sul marciapiede, ma è un privilegiato perché è italiano e gli vogliamo bene. È un privilegiato anche perché io sono senza lavoro e ho tempo da spendere per lui. La settimana scorsa gli rubano telefonino e documenti. Gli ricompriamo il telefono che stando sul marciapiede è tutta la sua vita (Tony gli compra il telefono perché io non tengo una lira) gli facciamo una sim a nome nostro perché senza documenti non può richiederla e lo portiamo all’anagrafe. Dopo millenni siamo riusciti a convincerlo a chiedere la pensione a cui ha diritto. Perché non l’ha mai voluta chiedere? Perché è povero, vecchio e sta per strada. Ci serve la carta di identità, prima che cambi idea e la depressione se lo rimangi.

Fino alla scorsa primavera per i senza fissa dimora esistevano indirizzi virtuali, gestiti dalle associazioni, a costo zero per la collettività. I clochard prendevano lì la residenza e lì potevano ricevere la posta e aiuto a districarsi nella burocrazia. Burocrazia che vuol dire assistenza sanitaria e pensione. La giunta Raggi – senza consultare chi si occupa di questa persone – li ha soppressi, riducendoli a uno, sbandierando una fantomatica anagrafica unica per i senza fissa dimora. Protestano dalla Caritas all’Esercito della Salvezza, inutilmente. Ora sono i municipi a doversi occupare di documenti e posta dei clochard. Dovrebbero, perché nella pratica non sanno che fare. Anche l’associazione degli Assistenti sociali laziali si è opposta facendo notare l’ovvio, cioè che se loro spendono tempo a star dietro a questo, non ne hanno per le altre fragilità. L’altra notazione ovvia è che un settantenne che vive in strada, incupito dalla miseria, non è in grado di fare domanda.

Comunque mercoledì andiamo all’anagrafe con la denuncia del documento rubato e, come prescrive la legge, con i due testimoni che comprovano l’identità di Pino. Dopo la fila il tipo dell’anagrafe ci dice che non è compito suo, ma dei servizi sociali, che ricevono due giorni a settimana. Torniamo venerdì. L’assistente sociale ci dice che non tocca a lui perché Pino deve fare un cambio di residenza dal vecchio indirizzo inesistente al nuovo inesistente e ci rispedisce all’anagrafe. Gli spieghiamo che veniamo da lì e c’hanno mandato da lui. L’assistente non sa che fare. Gli chiediamo di scendere con noi e di parlare col collega. Scendiamo. I due parlano. «È tutto a posto», ci dice. Rifacciamo la fila. Al nostro turno il tipo dell’anagrafe ci dice che dobbiamo tornare dai servizi sociali e che comunque io – dato che risiedo in Umbria – è probabile che non possa testimoniare sull’identità di Pino ma serva qualcuno dello stesso municipio. Entrambi sono con noi gentili e tutt’altro che scortesi, ma letteralmente non sanno che fare.

Chiediamo: «Quindi come dobbiamo comportarci?», il tipo suggerisce di mettere le bombe e fare la rivoluzione. Dentro di me un poco di fiducia nelle istituzioni la recupero. Poi ci viene dato un appuntamento per il cambio di residenza fittizio per il 23 ottobre. Cioè ci vogliono 55 giorni. «Poi avremmo il documento?». «Mica ne sono sicuro». Genuflettendoci strappiamo un incontro per il lunedì successivo nella speranza di trovare qualcuno che ci dica cosa fare.

La pupetta che mi mette la carriola in testa è ancora lì.

La rivedo giovedì.

Lo ripeto, è bellissima.

 

@nicola_baldoni