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MONDO

Multipolarismo: il mantra dell’autoritarismo

La sinistra che si schiera col multipolarismo, onde contrastare l’ordine unipolare patrocinato dagli Stati Uniti, finisce per difendere l’autoritarismo nel mondo. La sinistra deve riflettere meglio su come questo linguaggio legittimi quei regimi

Certo bisogna farne di strada

Da una ginnastica d’obbedienza

Fino a un gesto molto più umano

Che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

Per diventare così coglioni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni

Pubblichiamo questo contributo di Kavita Krishnan come parte di un dibattito ampio che ospitiamo sul nostro sito attorno al multipolarismo nel mondo contemporaneo a partire dalla guerra in Ucraina e dal dispiegarsi di nuovi imperialismi. Lo pubblichiamo assieme all’intervista allo storico indiano Vijay Prashad, realizzata dai nostri redattori Francesco Brusa e Luca Peretti nel mese di aprile del 2022 e pubblicata originariamente in versione cartacea sul quinto numero di Dinamoprint, “Guerra alla scienza”, uscito nel mese di luglio del 2022

Introduzione e traduzione a cura di GioGo.

Con la traduzione di questo testo di critica dell’ideologia sottesa all’uso del concetto di multipolarismo, speriamo di riuscire a stimolare una riflessione che sappia essere renitente alle posizioni già assegnate dal discorso povero e ambiguo dove l’egemone e i multipoli si giocano la continua fine del mondo. Il multipolarismo, dalla lettura dell’articolo di Krishnan, ci appare come una nuova strategia mitica, che funziona così: la pluralizzazione dei poteri sono un argine al dominio statunitense, plurale è buono, singolare è cattivo. Eppure un mito contemporaneo mentre mette in scena il suo senso depurato, deforma il significato. Il limite al dominio statunitense non è agito infatti da movimenti di emancipazione delle diverse forze sociali nel mondo, ma da poteri già costituiti, poteri che hanno già un dominio proprio e il cui interesse vitale è il dominio stesso in maschia competizione con quello più forte, più lungo, più grosso e più necropolitico che già conosciamo bene.

La domanda è come mai siamo finiti a usare parole e concetti mitici che non ci appartengono? Sembra di assistere al medesimo meccanismo della logica del benaltrismo o whataboutism, tipicamente imperialista, colonialista e fascista: sterminiamo qualche uiguro, reprimiamo qua e là qualche iraniana, ma voi con le “minoranze” e i migranti? Avete iniziato prima voi! Ed è vero che lo sterminio, la repressione, il controllo sono strutturali allo sviluppo del capitalismo (colonialismo, imperialismo, devastazione ambientale). Ma è anche vero che il benaltrismo dell’“allora le foibe?” è un modo per giustificare il dominio, uni- e multi- polare. Forse siamo finiti a usare questo linguaggio di destra perché, oltre al feticismo per il potere che storicamente alligna anche in alcune correnti della sinistra, ci siamo separati dai movimenti che continuano a lottare per emanciparsi ed emancipare la società nel suo complesso. La separazione è colmata dalla fascinazione per un altrove costruito dalla propria impotenza, mezzi paradisi a cattivo mercato immaginati da gesuiti posticci.

Se è chiaro come il capitalismo produca sfruttamento e devastazione, non è chiaro come la fine dell’egemonia statunitense e la contemporanea multipolarizzazione dei poteri possa incarnare un processo di liberazione dal capitalismo nelle sue diverse varianti, storiche e geografiche. Il modello di sviluppo è davvero così diverso? Il rifiuto della farsa delle democrazie liberali apre a democrazie partecipate e dirette? Il gas russo è più ecologico di quello nord-africano? Un maiale maciullato in Cina è meno maiale di uno smembrato in Europa? I “nuovi” poli emergono da processi di liberazione o si profilano solo come “competitor” nel necro-mercato globale? Chiacchiere da bar o da tastiera, si dirà. Per introdurre con più acume l’articolo di Krishnan, e premesso che alcuni termini dell’articolo andrebbero maggiormente relativizzati (tirannia, diritti umani ecc.), lasciamo la parola ad Amitav Ghosh, scrittore ed antropologo, e al suo La maledizione della noce moscata, dove, discutendo di Exterminate All the Brutes di Sven Lindqvist mette in chiaro il legame fra il colonialismo, lo sterminio e la devastazione e l’inadeguatezza dell’uni-e multi-polarismo di fronte alle crisi ormai strutturali al mondo umano-non umano:

«Solo negli ultimi due o tre decenni l’Occidente potrebbe aver cominciato a fare i conti con qualcosa che non immaginava possibile: il non-Occidente è perfettamente in grado di adottare politiche economiche basate sull’estrazione e l’uso intensivo dei combustibili fossili, con tutto ciò che questo comporta, come la ricerca scientifica e tecnologica e alcune forme d’arte e letteratura. Se si fosse accettato prima che gli esseri umani sono, e sono sempre stati, creature essenzialmente mimetiche, perfettamente capaci di apprendere l’una dall’altra, forse il problema della sostenibilità si sarebbe posto con urgenza molto prima. Ma le radicate convinzioni delle élite hanno precluso tale possibilità, fino a che i bruti non hanno cominciato a «debrutizzarsi».

L’amara ironia è che la debrutizzazione delle classi medie non occidentali è avvenuta replicando, e addirittura intensificando, quel processo di riduzione degli umani a bruti che aveva caratterizzato le conquiste coloniali europee. In India, negli ultimi tre decenni, le credenze, le pratiche e i mezzi di sostentamento dei popoli delle foreste sono stati presi di mira come non era mai accaduto prima. In una grottesca imitazione del trattamento che i coloni riservarono ai popoli indigeni, ettari ed ettari di foreste sono stati sacrificati all’industria mineraria e a quella turistica, a volte con il sostegno di ambientalisti discriminatori che auspicano lo spostamento coatto degli abitanti delle foreste in nome dell’ecologia. Le loro montagne sacre sono state profanate, le loro terre allagate dalle dighe, la loro fede e i loro rituali stigmatizzati come «superstizioni primitive» – esattamente le stesse parole un tempo usate dagli amministratori delle colonie, dagli scienziati e dai missionari. Nel replicare le pratiche coloniali, ci si spinge fino a trasferire forzatamente in collegio i bambini tribali. Processi analoghi sono in corso in Cina nei confronti degli uiguri, e in Indonesia nei confronti dei papuani.

La differenza è che questo scimmiottamento dell’atteggiamento coloniale nei confronti dei «bruti» non è avvenuto nell’arco di secoli, bensí di pochi decenni, a partire dal 1990: la metà delle emissioni di gas serra che si trovano ora nell’atmosfera sono state emesse negli ultimi trent’anni. È la vertiginosa accelerazione provocata dall’adozione su scala mondiale dei metodi coloniali di estrazione e consumo ad aver condotto l’umanità sull’orlo del precipizio. Questo ridottissimo arco temporale ha fatto sí che anche i non umani oggi non siano piú muti come un tempo. Altri esseri e forze – batteri, virus, ghiacciai, foreste, correnti a getto – hanno cominciato a “esprimersi”, imponendosi cosí clamorosamente alla nostra attenzione che non li si può piú ignorare né trattare come elementi di una Terra inerte.

Multipolarismo. Il mantra dell’autoritarismo

La sinistra interpreta le relazioni internazionali alla luce del multipolarismo. In India e nel mondo, le varie correnti di sinistra invocano da tempo un mondo multipolare, da opporre a un unilateralismo dominato dall’imperialismo americano.

Nel frattempo, il multipolarismo è diventato la pietra angolare del discorso condiviso fra i fascismi e gli autoritarismi del globo. È il grido di battaglia dei despoti, che se ne servono per camuffare da guerra contro l’imperialismo la loro guerra contro la democrazia. Questo ricorso al multipolarismo per mascherare e legittimare il dispotismo è energicamente sostenuto dalle chiassose invocazioni della sinistra globale del multipolarismo in quanto democratizzazione antimperialista delle relazioni internazionali.

Concependo la propria reazione al confronto politico dentro o fra gli Stati-nazione come una scelta alla pari fra multipolarismo e unipolarismo, la sinistra perpetua un approccio che, anche nelle sue versioni migliori, resta fuorviante e impreciso. Oggi poi è un approccio decisamente pericoloso, buono solo a una narrazione e una drammatizzazione che conferisce ai fascismi e agli autoritarismi un ruolo lusinghiero.

La conseguenza indesiderabile dell’impegno della sinistra per un multipolarismo senza valori emerge nettamente nel caso della risposta da dare all’invasione russa dell’Ucraina. La sinistra globale e indiana hanno legittimato e amplificato (in varia misura) il discorso fascista russo, difendendo l’invasione in chiave di contrasto multipolare contro l’unipolarismo statunitense.

La libertà di essere fascisti

Il 30 settembre, annunciando l’annessione illegale di quattro regioni ucraine, il presidente russo Vladimir Putin scandì a chiare note che cosa significassero nel suo schema ideologico multipolarità e democrazia. Egli definì la multipolarità la libertà dal tentativo delle élite occidentali di istituire i propri valori democratici ‘degradati’ e i diritti umani in quanto valori universali; valori che sarebbero ‘lontani’ dalle vaste masse popolari in Occidente come altrove.

Il disegno retorico di Putin consiste nell’affermare che i concetti di ordine regolato dalla legge, di demo-crazia e di giustizia non sarebbero altro che imposizioni ideologiche imperialiste occidentali, puri pretesti per violare la sovranità delle altre nazioni. Dato che rinfocolava il giustificabile sdegno per il lungo elenco di crimini commessi dalle nazioni occidentali, che include il colonialismo, l’imperialismo, invasioni, occupazioni, genocidi, colpi di Stato ecc., era facile per Putin far dimenticare che la sua non era una richiesta di giustizia e riparazione, né la fine di quei crimini. In realtà, riaffermando il fatto evidente di per sé che i governi occidentali non hanno alcun diritto morale da far pesare, né tantomeno il diritto di parola in materia di democrazia, Putin tagliava abilmente fuori i popoli dall’equazione.

Sono i popoli delle colonie ad aver combattuto per la libertà e a continuare a farlo. I popoli delle nazioni imperialiste sono scesi in piazza per rivendicare democrazia e giustizia e protestare contro il razzismo, la guerra, le invasioni, le occupazioni perpetrate dai loro governi. Ma Putin non ha sostenuto nessuno di questi popoli.

Sottolineando il fatto ovvio che i governi occidentali non hanno «alcun diritto morale da far pesare né tantomeno diritto di parola in materia di democrazia», Putin si è rivolto alle forze del mondo “in sintonia” con lui – l’estrema destra, il suprematismo bianco, il razzismo, l’antifemminismo, l’omofobia e i movimenti politici omotransfobici, perché appoggiassero l’invasione, come parte del progetto, vantaggioso per tutti loro, di abbattimento dell’«egemonia unipolare» dei valori universali di democrazia e diritti umani e di «conquista della vera libertà, in una prospettiva storica».

Putin ricorre a una “prospettiva storica” di suo gradimento per sostenere la versione suprematista della “civiltà-Stato” russa, dove le leggi disumanizzano i LGBT e i riferimenti storici sono criminalizzati in nome del “rafforzamento della sovranità (russa)” e dove si privilegia la libertà in Russia per negare e mettere a rischio le norme democratiche e il diritto internazionale nella loro definizione “universale” a opera dell’ONU e delle altre istituzioni consimili. Il piano “euroasiatico” che Putin presenta come risposta multipolare all’imperialismo europeo e all’unipolarità occidentale può essere interpretato correttamente solo come parte di un’ideologia e di un progetto politico esplicitamente antidemocratici (la competizione fra USA e Russia in quanto grandi potenze si complica qui per l’interferenza del progetto politico congiuntamente proposto da Trump negli Stati Uniti e da Putin in Russia). 

Un linguaggio comune

Il linguaggio del “multipolarismo” e dell’ “antimperialismo” trova una sponda anche nell’autoritarismo ultranazionalista della Cina. 

Un comunicato congiunto Putin-Xi Jinping di febbraio 2022, di poco precedente l’invasione russa in Ucraina, ribadiva il rifiuto congiunto degli standard di democrazia e dei diritti umani universalmente accettati, in cambio di definizioni da relativismo culturale come: «una nazione può scegliere le forme e i metodi di esercizio della democrazia più adatti alle proprie uniche tradizioni e caratteristiche culturali […] solo il popolo della nazione ha il diritto di decidere se il suo Stato debba essere democratico». Idee esplicitamente accreditate dal richiamo agli «sforzi compiuti dal lato russo per istituire un sistema multipolare equo di relazioni internazionali».

Per Xi, i «valori universali quali libertà, democrazia, diritti umani sono stati usati per disintegrare l’URSS e provocare drammatici cambiamenti nell’Europa dell’Est, da “rivoluzioni colorate” a “primavere arabe” tutte dovute all’intervento euroamericano». Ogni movimento di popolo per la rivendicazione dei diritti umani e della democrazia viene visto come una rivoluzione totalmente e intrinsecamente illegittima, del colore dell’imperialismo.

La richiesta di adeguamento agli standard universali di democrazia, avanzata nel corso degli ampi movimenti antirepressione sviluppatisi in Cina in nome della resistenza contro la politica del covid zero, acquista anche più significato nel contesto degli slogan improntati al relativismo culturale lanciati dal governo cinese. Un Libro Bianco del 2021, dedicato all’ “Approccio cinese alla democrazia, la libertà e i diritti umani” definiva questi ultimi come una “benedizione” per la previdenza sociale e gli interventi di sostegno, non come una protezione contro un potere governativo senza freni. Significativamente, non venivano nominati i diritti all’interpellanza governativa, al dissenso, alla libera organizzazione.

Definendo la democrazia “specifica della Cina” “buon governo” e i diritti umani una “benedizione”, Xi si sente autorizzato a reprimere i musulmani turchi del Xinjiang. La sua pretesa è che i campi di concentra-mento, “rieducando” la minoranza etnica e riorientando la loro pratica dell’Islam in “senso cinese”, sono portatori di “buon governo” e maggiore “felicità”.

Perfino nella dirigenza suprematista indù in India risuonano gli echi fascisti del discorso autoritario del “mondo multipolare” – dove il potere incivilitore si leverà per rinnovare le vecchie glorie imperialiste e l’egemonia della democrazia liberale cederà il passo al nazionalismo di destra.

Mohan Bhagwat, capo dell’ “Organizzazione dei Volontari per la Nazione” (Rashtriya Swayamsevak Sangh) ha detto ammirato che «in un mondo multipolare» che si confrontasse con gli USA la «Cina si leverebbe in piedi e, non curandosi di quanto dice il mondo e perseguendo i propri scopi… (riprenderebbe l’) espansionismo dell’epoca imperiale”. Parimenti, “oggi, nel mondo multipolare, anche la Russia fa il proprio gioco, tentando di progredire grazie alla repressione dell’occidente».

Anche il primo ministro Modi ha ripetutamente attaccato i paladini dei diritti umani in quanto anti-indiani, pur dichiarando che l’India è la “madre della democrazia”, che va vista non con gli occhiali dell’Occidente ma come parte dell’ “ethos civilizzatore”. In una nota emessa dal governo indiano si stabilisce un collegamento fra la democrazia indiana e la “cultura e civiltà indù”, “la teoria politica indù”, lo “Stato indù” e i tradizionali (e spesso reazionari) consigli di casta che applicano le gerarchie di casta e di genere.

Idee del genere lasciano trasparire i tentativi di incorporare i suprematisti indù d’estrema destra in una rete globale di forze d’estrema destra e autoritarie. L’ideologo fascista russo Aleksandr Dugin (proprio come Putin) afferma che la «multipolarità […] auspica il ritorno ai fondamenti delle varie civiltà non-occidentali (ed il rigetto dell’) ideologia della democrazia liberale e dei diritti umani».

È un influsso che procede nelle due direzioni. Dugin è a favore del modello sociale basato sul sistema delle caste (Dugin 2012). Incorporando senza mediazioni i valori braminici delle “Leggi di Manu” (Manusmṛti) nel fascismo internazionale, Dugin considera «l’ordine vigente delle cose», rappresentato dai «diritti umani, la mentalità antigerarchica, la correttezza politica», una Kali Yuga, una calamità che porta con sé la fusione fra le caste (una mescolanza a sua volta causata dalla libertà per le donne, altro aspetto nefasto del Kali Yuga) e lo smantellamento della gerarchia. Egli ha anche descritto il successo elettorale di Modi una vittoria della “multipolarità”, una gradita affermazione dei “valori indiani”, una disfatta per l’egemonia della “democrazia liberale” e dell’ “ideologia dei diritti umani”.

Eppure la sinistra continua a ricorrere alla “multipolarità” senza mostrare la minima consapevolezza di quanto fascismo e autoritarismo si celi in questa narrazione.

Dove la sinistra incontra la destra

Il linguaggio putiniano della “multipolarità” è studiato per avere un’eco nella sinistra globale. La sua tranquillizzante banalità sembra impedire alla sinistra – alla quale va il merito storico di aver sempre smascherato le menzogne nascoste dietro il “salvataggio della democrazia” proclamato dai mercanti di armi dell’ imperialismo americano –  l’applicazione delle stesse lenti critiche alla retorica anticoloniale e antimperialista di Putin.

È curioso che la sinistra abbia fatto proprio il linguaggio della polarità, che appartiene piuttosto alla geopolitica e alle relazioni internazionali, in un “realismo” che vede l’ordine globale nei termini di una concorrenza fra le varie politiche estere, ritenute fedeli rappresentazioni degli “interessi nazionali” di una “manciata di poli” – le grandi potenze di fatto o nelle aspirazioni. Ma è un realismo del tutto incompatibile con la concezione marxista a premessa della comprensione che l’ ‘interesse nazionale’, lungi dall’essere un obiettivo e un dato neutrale, è definito soggettivamente dal «carattere politico (e dunque morale) delle dirigenze che concepiscono e attuano le decisioni di politica estera» (Vanaik 2006).

Il Partito Comunista Indiano (marxista-leninista, PCI-ml) si compiace dell’ascesa delle grandi potenze non occidentali, per quanto fasciste e autoritarie possano essere al loro interno, nella convinzione che esse sfidino con la multipolarità l’unipolarità statunitense. Ad esempio, Vijay Prashad, uno dei più noti ed entusiasti corifei di sinistra della multipolarità, osserva con soddisfazione che «ciò che sta a cuore a Russia e Cina è la loro sovranità, non il potere globale». Ma non fa motto di come queste potenze interpretano la sovranità come libertà dalla responsabilità di attenersi agli standard universali di democrazia, diritti umani ed eguaglianza. In un suo recente saggio, Dipankar Bhattacharya, segretario generale del PCI-ml, riecheggia le stesse tesi quando espone la decisione del suo Partito di bilanciare la solidarietà all’Ucraina e la preferenza per la multipolarità con la priorità nazionale di resistere al fascismo indiano (N.B. sono stata un’attivista del Partito per trent’anni e membro del Politburo fino a che sono uscita dal Partito ai primi di quest’anno in segno di dissenso per la tiepidezza della solidarietà all’Ucraina).

La tesi di Bhattacharya è che «qualunque sia la natura delle potenze globali in lotta, un mondo multipolare presenta molti più vantaggi per le forze e i movimenti progressisti del mondo alla ricerca di un rovescia-mento delle politiche neoliberali, della trasformazione sociale e del progresso politico». In altre parole, il PCI-ml inneggia all’ascesa di grandi potenze non occidentali per quanto possano essere, al loro interno, autoritarie e fasciste, nella convinzione che esse mettano in difficoltà l’unipolarismo statunitense. Sono formulazioni che non fanno minimamente resistenza contro i progetti fascisti e autoritari atteggiati a campioni del multipolarismo “antimperialista”. Al contrario gli offrono una legittimazione.

Per Bhattacharya, il sostegno incondizionaro alla resistenza ucraina è difficilmente conciliabile con la “priorità nazionale” di «combattere il fascismo in India». L’idea che i doveri della sinistra in materia di solidarietà internazionale debbano precedere quella che è per lui la ‘priorità nazionale’, rappresenta un caso di internazionalismo comunista lordato dall’ “interesse nazionale” del realismo, applicato questa volta non solo agli Stati nazione ma anche agli stessi partiti di sinistra nazionali.

Ma come può un’ampia solidarietà all’Ucraina contro l’invasione fascista entrare in conflitto con la lotta al fascismo in India? Il ragionamento di Bhattacharya è specioso, divagante, obliquo. Fa una misteriosa deviazione nel bisogno per i movimenti comunisti di vigilare sul pericolo di «dare più importanza alla situazione internazionale che a quella locale». Bhattacharya attribuisce impropriamente  al PC indiano l’errore commesso nel 1942 di restare indifferenti al movimento “Lasciate l’India”, per aver preso durante la Seconda Guerra Mondiale l’impegno internazionalista di sconfiggere il fascismo, superiore all’impegno nazionalista di rovesciare il colonialismo britannico, allora un alleato nella guerra contro il nazifascismo. L’unico plausibile intento di questa deviazione sembra essere l’analogia con la posizione attuale della sinistra indiana di fonte all’invasione dell’Ucraina. Dato che l’alleanza politica primaria del regime di Narendra Modi è con l’Occidente a guida americana, s’è detto, la lotta contro il fascismo di Modi s’indebolirebbe se la Russia, una rivale ‘multipolare’ degli Stati Uniti, fosse messa in rotta dalla resistenza ucraina.

Questo calcolo contorto oscura il semplice fatto che una sconfitta dell’invasione fascista di Putin in Ucraina darebbe fiato a chi combatte il fascismo di Modi in India. Allo stesso modo, una vittoria popolare contro la tirannia maggioritaria di Xi Jinping sarebbe d’ispirazione alla resistenza contro la tirannia maggioritaria di Modi in India.

Come disse Martin Luther King Jr, «l’ingiustizia in un luogo minaccia la giustizia per ogni dove». Indeboliamo la nostra propria lotta per la democrazia quando scegliamo di guardare alle lotte altrui con occhiali che distorcono. La nostra non è una scelta alla pari fra unipolarità e multipolarità. In qualunque situazione, la nostra scelta è chiara: possiamo o appoggiare la resistenza e la sopravvivenza degli oppressi oppure ci possiamo preoccupare della sopravvivenza degli oppressori.

Quando la sinistra si assume il compito di sostenere la sopravvivenza dei regimi ‘multipolari’ (la Russia, Cina, e per qualcuno a sinistra perfino l’Iran), trascura il suo dovere di sostenere i popoli che lottano per sopravvivere ai genocidi scatenati proprio da quei regimi. Qualunque siano i benefici che gli Usa possono trarre dal loro sostegno materiale e militare a tali lotte, essi sono di gran lunga superati dal beneficio di sopravvivere di popoli che in caso contrario fronteggerebbero il genocidio. Faremmo bene a ricordare che il sostegno militare e materiale americano all’URSS nella Seconda Guerra Mondiale giocò un ruolo importante nella sconfitta della Germania nazista.

I regimi tirannici interpretano il sostegno alle persone che vi resistono come un sostegno alle “interferenze” straniere o imperialiste nella “sovranità” di quei regimi. Quando noi della Sinistra facciamo lo stesso, ci rendiamo complici e apologeti di quelle tirannie. Quando a sinistra facciamo lo stesso, agiamo come facilitatori e apologeti della tirannia. Chiunque sia impegnato in una lotta per la vita o per la morte ci chiede di rispettare la sua autonomia e sovranità nel decidere il tipo di sostegno morale-materiale-militare da chiedere-accettare-rifiutare. La bussola morale della sinistra globale e indiana dev’essere rapidamente regolata, in modo da correggere il suo orientamento disastroso che ci trova a parlare la stessa lingua dei tiranni.

Kavita Krishnan è una militante e autrice marxista. 

Articolo pubblicato originariamente il 20 dicembre 2022 in inglese su The India Forum, che ringraziamo per la disponibilità. Traduzione in italiano di Giogo per Dinamopress

Immagine di copertina da Wikimedia Commons di GerryShaw