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L’illusione di un mondo multipolare: intervista a Vijay Prashad

Alla radice dell’invasione dell’Ucraina c’è anche la totale indisponibilità degli Stati Uniti a integrare nella propria sfera di influenza commerciale e politica i nuovi “attori” dello scenario globale come Russia e Cina

Questa intervista è stata pubblicata originariamente in versione cartacea sul quinto numero di di Dinamoprint, “Guerra alla scienza”, uscito nel mese di luglio del 2022 (l’intervista è stata realizzata due mesi prima). La ripubblichiamo oggi sul sito assieme all’articolo “Multipolarimo: il mantra dell’autoritarismo” di Kavita Krishnan come parte di un dibattito sul multipolarismo nel mondo contemporaneo che ospitiamosu Dinamopress a partire dalla guerra in Ucraina e dal dispiegarsi di nuovi imperialismi

Sono passati poco più di due mesi dall’inizio della guerra di aggressione russa all’Ucraina quando parliamo con Vijay Prashad. Direttore della Tricontinental (l’istituto e rivista che ha le sue radici nel movimento dei paesi non allineati negli anni ’60), storico di anticolonialismo e Terzo Mondo inteso come progetto politico, è uno dei più importanti studiosi dal e del sud globale. Ci risponde dall’America Latina, dove vive adesso dopo essere stato per molti anni negli Stati Uniti e prima in India, da cui è originario e dove mantiene forti legami militanti e lavorativi. La capacità di muoversi e leggere il mondo da diversi punti di vista è una delle caratteristiche di Prashad, unita alla vastissima rete di contatti e interazioni che ha creato in mezzo mondo. In Italia è relativamente poco conosciuto, anche se i due libri più importanti sono stati tradotti (Storia del Terzo mondo per Rubbettino e Proiettili a stelle e strisce per Red Star Press).

Quando lo abbiamo contattato, poco prima della data fatidica del 9 maggio (“Giornata della vittoria”, in commemorazione della sconfitta della Germania nazista), si faceva un gran parlare di nuova guerra fredda e mondo multipolare; proprio da qui cominciamo la nostra conversazione. «Dobbiamo partire da lontano, da quando l’Unione Sovietica ha iniziato a indebolirsi, cioè dagli anni ’70, e gli Stati Uniti d’America iniziarono a mettere in atto piani di ristrutturazione degli equilibri mondiali: la formazione del G7, un nuovo e deciso programma relativo all’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio, in particolare l’Uruguay Round [che ha posto le basi per la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ndr]. Insomma, almeno dieci anni prima del collasso dell’Unione Sovietica, gli Usa hanno iniziato a consolidare ulteriormente la propria potenza in termini militari, diplomatici ed economici (e in special modo finanziari). Questo consolidamento di potere si è reso estremamente visibile subito dopo l’89. Pensiamo, per esempio, al modo in cui gli Usa hanno esercitato il proprio potere militare senza alcun contro-bilanciamento o freno: Iraq (1991), la distruzione della Yugoslavia nel 1999, la guerra al terrore, e via dicendo. Alcuni sostengono che la ragione profonda di tanti interventi fosse quella di limitare il ruolo geopolitico della Germania ma – quale che fosse la ragione – gli Usa hanno potuto agire senza alcun tipo di controllo esterno. Era dunque chiaro che non ci fosse alcuna competizione in termini militari (e basta guardare alle voci di spesa). Pensiamo poi al piano diplomatico: gli Usa hanno sempre imposto le loro condizioni anche alle Nazioni Unite. Ero amico personale dell’ex-segretario dell’Onu Boutros Boutros-Ghali e, quando stava pensando a un suo possibile secondo mandato, mi diceva che gli Usa non lo avrebbero mai accettato. In sostanza, gli Usa hanno iniziato a comandare tutta una serie di organismi internazionali, come il Fondo Monetario che ha sempre guardato al Dipartimento del Tesoro statunitense per formare la propria leadership; la Nato, che non è una “allenza” ma un vero e proprio strumento nelle mani degli Usa; e infine bisogna guardare alla Banca Centrale Europea: se durante la crisi del 2016/17 gli Stati Uniti non avessero pompato soldi nel sistema europeo, le conseguenze della crisi sarebbero state molto più severe ma, in questo modo, anche gli organismi economici europei sono caduti sotto una maggiore influenza statunitense».

Cosa rimane fuori dall’influenza USA?

Dopo il “collasso economico” del 2008 è diventato molto chiaro come la Cina fosse una delle poche nazioni che, in sostanza, era riuscita a “schivare” la crisi, riuscendo a mettere in campo una crescita senza pari nello scenario globale. A quel punto, nel 2009, ci fu un tentativo di costruire il cosiddetto blocco dei Brics, assieme a India, Brasile e Russia. Non è andato molto lontanto visto che le élites al potere, soprattutto in India e Brasile, non ne erano particolarmente entusiaste; così Cina e Russia si sono avvicinate sempre di più. E qui arriviamo alla questione della multipolarità: inizialmente, sembrava dunque che si stessero creando dei nuovi blocchi di potenza ma la realtà è che un tale processo non si è mai sviluppato appieno. Come dicevo, infatti, Brasile e India hanno continuato ad appoggiarsi a un sistema di scambio e di sviluppo economico basato sul dollaro, il che è comprensibile visto che non erano delle grandi potenze.

Nel 2018 poi in un documento strategico, gli Stati Uniti affermano essenzialmente che la guerra al terrore era finita e ora gli sforzi andavano orientati a prevenire l’emergenza del blocco di potere composto da Russia e Cina. L’allora segretario della Difesa James Mattis disse che non bisognava lasciare a questa coppia di “quasi-alleati” (near peers) la possibilità di crescere. Indebolire la Russia e indebolire la Cina in sostanza diventavano dei principi fondanti della politica estera statunitense. Donald Trump annunciò che gli Usa si sarebbero ritirati dal Trattato sulle Forze Nucleari a medio-raggio, mentre già nel 2002 Bush si era ritirato dal Trattato anti-missili balistici. Queste due decisioni hanno di fatto messo fine al regime di controllo internazionale sugli armamenti. Ciò significa – ed è terribile farlo notare – che un conflitto nucleare rappresenta uno scenario di fatto accettato come possibile, dato che non c’è più nessun regime di protezione contro una tale eventualità.

Secondo me quello a cui si assiste dal 2018 in poi è quindi un contesto in cui gli Stati Uniti non consentono l’ascesa di qualsiasi altra potenza globale. E per fare ciò viene messo in campo l’intero arsenale a propria disposizione: dalla forza miltiare a quella diplomatica, fino alla pressione economica. Il segretario della difesa Lloyd Austin ha detto che gli aiuti all’Ucraina non servono a rimuovere le truppe russe dal paese invaso ma, esplicitamente, a «indebolire la Russia».

Quindi non ci credi all’idea di un mondo multipolare?

No, è, sostanzialmente, un’illusione neoliberale. Perché la formazione di nuovi blocchi di potenze viene troncata alla radice e ostacolata in tutti i modi dal principale attore unipolare, ovvero gli Stati Uniti. Ci troviamo invece, a mio modo di vedere, in un interregno gramsciano in cui appaiono sulla scena “nuovi mostri” che ancora non sono fascismo compiuto. Solo che ora la minaccia non è più, come ai tempi di Gramsci, quella della costituzione del fascismo in un solo paese ma è l’annichilimento totale di stampo nucleare.

Che ruolo dovrebbe avere la sinistra in un contesto così complesso?

Proviamo a prendere la domanda da questa prospettiva: quale dovrebbe essere, per esempio, la relazione della sinistra con l’Iran? Io sono ovviamente sfavorevole alla prospettiva di una teocrazia. Ma allo stesso tempo penso che la politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran sia una politica criminale: l’intero regime delle sanzioni e il sabotaggio delle infrastrutture nucleari dell’Iran sono, ripeto, atti criminali. Penso dunque che si debba difendere il progetto politico dell’Iran (nonostante non si concordi con la sua specificità) contro il bullismo e la pressione esercitata nei suoi confronti dalla potenza statunitense. Ed è lo stesso per molte altre nazioni che sono sotto questa minaccia. Non sono d’accordo con il progetto politico che si sviluppa in Russia, perché non si tratta certo di un progetto socialista, ma difendo la Russia contro l’imperalismo statunitense. Noi eravamo contro le due guerre condotte in Cecenia, prima da Elstin e poi da Putin. Ma penso che siano state principalmente le élites statunitensi ad aver distrutto lo stato russo e ad aver facilitato, fra le altre cose, che Eltsin e Putin consolidassero il proprio potere e bombardassero la Cecenia. La Russia rappresenta un progetto politico capitalistico, non dissimile da quello degli Usa. È ridicolo chiamare i miliardari russi “oligarchi”, perché allora tutti i miliardari del mondo dovrebbero essere chiamati in questi modo. Vogliamo parlare della corruzione politica in Italia, per esempio?

Penso che come sinistra dobbiamo riconoscere e tener presente il fatto che siamo in un momento in cui la maggiore potenza mondiale vuole mettersi contro e indebolire una delle maggiori potenze euroasiatiche, rischiando di trascinarci in una guerra di annullamento totale. Putin non è l’unico attore aggressivo in questo contesto, per quanto ovviamente abbia preso la decisione di violare l’integrità territoriale di un altro stato. E non sto parlando dell’allargamento a est della Nato, che non ritengo il punto centrale della faccenda. Ripeto, credo che una delle questioni fondamentali sia quella relativa ai già menzionati trattati sulla sicurezza nucleare. Non è stato Putin a ritirarsi per primo da quei trattati e questi per lui rappresentano un serio motivo di preoccupazione. Lo va ripetendo sin dalla conferenza di Monaco del 2007.

Impossibile schierarsi, dunque?

Io mi schiero affinché si ritorni ad avere un regime di controllo sugli armamenti nucleari e sto dalla parte dei popoli e degli attori internazionali che vogliono abolire le armi nucleari (ricordo che venne assegnato nel 2017 il Premio Nobel per questa iniziativa). Insomma, vorrei un mondo senza armamenti nucleari e questo rappresenta il mio primo obiettivo.

Dobbiamo essere consapevoli che il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina non risolve nulla. La questione della Crimea, per esempio, non può essere abbandonata da un giorno all’altro da parte della Russia: non dobbiamo dimenticarci che nel 2014 l’Ucraina decise di tagliare ogni rifornimento d’acqua verso la penisola ed è per questo che la Russia costruì con grande dispendio di risorse un ponte che connettesse la Crimea al proprio territorio. In più, c’è la base di Sevastopol che è di grande interesse militare per la Russia.

Dobbiamo quindi essere capaci di mettere in piedi dei negoziati che tengano in conto di tali questioni e che, soprattutto, partano dalla considerazione di quanto il mondo in cui viviamo non sia fatto di certezze granitiche ma di contraddizioni e di relazioni di totale interdipendenza fra stati. Prendiamo il caso del Giappone, che compra quasi il 10% della propria energia dalla Russia, ma allo stesso tempo sta inviando aiuti militari all’Ucraina. Inoltre, col proprio capitale statale, il Giappone partecipa ai progetti relativi al gas di Sakhalin e Sakhalin-II. Anche l’India non ha certo interrotto le proprie relazioni commerciali con la Russia. Perché? Perché sono paesi euroasiatici, che devono confrontarsi con la realtà del contesto in cui vivono. In questo senso, io penso che l’Ucraina, purtroppo, si trova stretta fra le “fantasie” anglo-americane e la realtà euroasiatica e il popolo ucraino sta pagando tragicamente il prezzo di questo scontro che si svolge a un piano più alto.

Quindi con chi schierarsi in un tale scenario? Io mi schiero a favore dell’integrazione del campo euroasiatico dentro le relazioni di potenza globali. Perché è proprio la volontà di impedire una tale integrazione da parte delle élites angloamericane che sta in parte alla base del conflitto in Ucraina.

Le lotte anticoloniali del secolo scorso, che tu hai studiato, possono insegnarci qualcosa?

Ci sono un sacco di lezioni che possono essere tratte da quell’esperienza. La principale credo consista nel fatto che le nazioni che non sono allineate con gli Stati Uniti o quei paesi che non sono al cento per cento integrati nella sfera d’influenza russa debbano far sentire la propria voce e debbano essere ascoltate. Perché non hanno opinioni identiche.

È stato chiesto al Ministro degli Esteri indiano, in modo molto aggressivo, quand’è che avrebbe smesso di comprare gas dalla Russia e lui ha sostanzialmente fatto notare come ciò che l’India compra dalla Russia in un mese corrisponde più o meno a quanto i paesi occidentali comprano nell’arco di un solo pomeriggio. Ho trovato questa risposta bellisima.

Insomma, vorrei che ci fosse più spazio affinché i leader del Sud Globale possano dire liberamente ciò che pensano. Proviamo a dare respiro al dibattito in questo senso. Prima di pensare al multipolarismo, dobbiamo intanto diversificare e “decolonizzare” la discussione a livello globale. In questo momento, in pratica, stiamo ascoltando solo l’opinione dell’Occidente e di Biden.

Vale la pena ritornare quindi all’idea dei paesi non allineati, che durate la Guerra Fredda provavano a pensare a un’alternativa oltre i due blocchi?

Sì, credo che dovremmo ambire a una sorta di nuovo movimento dei paesi non-allineati. Dovremmo spingere affinché le leadership del Sud Globale costruiscano maggiori relazioni e siano più convinte nel far sentire la propria voce ed esprimere le proprie opinioni. Non devono avere paura degli Stati Uniti!

Immagine di copertina da Openverse di UNCTAD