OPINIONI

Da Bouazizi a Floyd: dieci anni di rivolte in difesa della vita

La nuova estrema destra mondiale non è che la risposta agli ultimi dieci anni di rivolte scoppiate ovunque in difesa della vita. Una controrivoluzione violenta nutrita dal nazionalismo, dal neoliberismo e dall’autoritarismo

Sembra ieri che la storia fosse ormai giunta al termine. Il mondo restava in silenzio, girando intorno al sole in maniera metodica e parsimoniosa, mentre il neoliberismo conquistava il pianeta ostacolato solo da qualche sporadica contestazione a Seattle o a Genova. Ma la mattina del 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, una città dimenticata dell’interno della Tunisia, all’improvviso si accese una scintilla di dolore e indignazione.

Mohamed Bouazizi, un venditore ambulante di frutta e verdura che protestava perché la polizia gli aveva requisito il suo unico mezzo di sussistenza, si è dato alle fiamme davanti alla prefettura locale. È morto il 4 gennaio, dieci giorni prima che l’insurrezione generata dal suo atto estremo mettesse fine a 23 anni di dittatura sanguinaria e si propagasse, come un incendio, prima in Algeria, poi in Egitto, Yemen, Bahrein, Giordania, Siria, Libano e Marocco.

La storia di quanto è successo negli ultimi dieci anni in questa regione è lunga e incoerente come la storia stessa, fatta di progressi e passi indietro. L’aspetto più interessante di questa ondata di proteste sono le motivazioni che le hanno generate: regimi istituzionali forti e autoritari, guidati da oligarchie che nella maggior parte dei casi hanno avuto l’appoggio delle élites europee o atlantiche, sostenuti dalla violenza diretta della polizia o dell’esercito e caratterizzati da alti tassi di precarietà e disoccupazione giovanile.

 

Sono state insurrezioni mosse da profonde motivazioni politiche ma anche, a differenza di quanto spesso affermato, da altrettanto profonde motivazioni sociali.

 

La figura di Mohamed Bouazizi riassume molto bene tutta questa serie di elementi: un giovane disoccupato cerca una maniera di autosostentamento che lo Stato gli sottrae attraverso la polizia. A seguito di questo episodio, milioni di giovani di altri Paesi arabi si identificano con la sua indignazione e con il suo corpo. Questa è, in definitiva, l’empatia: la condivisione del dolore. E questa è, secondo Spinoza, l’indignazione: l’odio nei confronti di qualcuno che ha causato del male a un altro con cui una persona si identifica.

Le rivolte del mondo arabo hanno dato così inizio a un’ulteriore ondata di proteste in diversi altri Paesi: dalla primavera araba al 15-M in Spagna, alla geracão à rasca, la generazione precaria, in Portogallo, all’occupazione di piazza Syntagma ad Atene, alle manifestazioni in Europa dell’Est, come in Serbia, Bosnia-Erzegovina o Ungheria e, ancora, all’insurrezione turca di piazza Taksim contro l’autoritarismo neoliberista e nazionalista di Erdoğan, fino ai movimenti del continente americano, come Passe Livre in Brasile, Yo Soy 132 in Messico e Occupy negli Stati Uniti. Altre forme di disobbedienza sono sorte, poi, anche in Cina, Russia, India, Sudafrica e, in tempi più recenti, in Ecuador e Cile. A livello mondiale hanno fatto irruzione due nuovi e speranzosi movimenti: quello femminista e quello per il clima.

 

Dal mio punto di vista, nonostante sia un’ipotesi da confermare, la nuova estrema destra mondiale non è che la risposta a questi ultimi dieci anni di rivolte scoppiate ovunque in difesa della vita. Una controrivoluzione rispetto a cui la rivoluzione è, paradossalmente, sia vaccino che fattore scatenante.

 

L’estrema destra cerca di ristabilire la violenza sulla vita attraverso meccanismi culturali, giuridici, economici o di semplice coercizione autoritaria. Ed è qui che si incontrano i suoi tre filoni fondamentali: nazionalismo, neoliberismo e autoritarismo.

Lungo questo percorso arriviamo, dieci anni dopo il gesto di Mohamed Bouazizi, al fatidico 25 maggio, giorno in cui George Floyd viene assassinato per strada da due poliziotti. Un altro episodio particolare che ha innescato la più grande rivolta antirazzista che ci sia mai stata negli Stati Uniti e senz’ombra di dubbio in tutto il mondo, negli ultimi cinquant’anni.

George Floyd, come Mohamed Bouazizi, ha dovuto affrontare l’ultimo anello della catena dello Stato neoliberista: la violenza diretta della polizia.

La sua morte ha avuto una diffusione senza precedenti, un elemento apparentemente banale ma di enorme importanza. Le immagini della sofferenza di Bouazizi, della repressione a plaza del Sol o a plaza Catalunya, delle ruspe a piazza Taksim o dell’arbitrarietà della polizia in Cile sono circolate con grande velocità, raggiungendo gli schermi di tutto il mondo e generando empatia e indignazione.

 

Vedere milioni di persone scendere in piazza per qualcuno che non conoscevano fa tremare di emozione. Significa che ci sono milioni di persone che si identificano con il dolore degli altri, perché un’esperienza di questo tipo è così particolare da assumere un valore universale.

 

Se le vite di Mohamed e di George contano, allora contano anche quelle di tutti i giovani precari, quelle delle persone di colore o vittime di razzismo, quelle dei rifugiati che attraversano il Mediterraneo, quelle dei messicani che saltano il muro, quelle delle migliaia di donne migranti che si prendono cura di altri bambini per poter potersi prendere cura dei propri, quelle delle persone umili che vivono in quartieri minacciati dalla segregazione e dalla gentrificazione, quelle dei venditori ambulanti, quelle delle persone vittime di discriminazione o della violenza della polizia.

Contano, in definitiva, tutte quelle vite che subiscono violenze sistemiche fondate su pregiudizi razziali, di classe, di genere o di altro tipo. Forme di violenza che, spesso, risultano connesse tra loro. Con le parole di Angela Davis: «Quando il mondo riconoscerà che le vite delle persone di colore hanno un peso, vorrà dire che tutte le vite sono importanti».

Empatia è un termine che viene dal greco, empátheia, e la sua etimologia rimanda alla condivisione del dolore. È in questo sentire comune che ci riconosciamo tra noi come esseri vulnerabili ed è qui che nasce la comunità, che la società abbandona la crisalide. Le cure sono l’unica alternativa per proteggere le vite, umane e non, che sono per definizione fragili e legate tra loro.

Questi movimenti empatici saranno in grado di arrestare la controrivoluzione dell’estrema destra? Riusciranno a far emergere una società che di fatto è già globale, che metta la vita al primo posto?

 

Articolo pubblicato su El Salto Diario. Traduzione in italiano di Giulia De Filippo per Dinamo Press.

Foto di copertina di Eleonora Privitera