EDITORIALE

LottoMarzo: QuellaVoltaChe ci siamo date la scossa

L’otto marzo è stato ancora sciopero globale delle donne, una scossa che ha attraversato più di 70 paesi nel mondo con milioni di donne in piazza, una potenza collettiva di corpi sessuati.

Il femminismo è un’avventura collettiva, per le donne, per gli uomini, e tutt* quant*. Una rivoluzione, bene in marcia. Una visione del mondo, una scelta. Non si tratta di opporre i piccoli vantaggi delle donne alle piccole acquisizioni degli uomini, ma piuttosto di mandare tutto all’aria. E con questo, ciao, ragazze, e buon viaggio…

V. Despentes, King Kong Théorie

 

Lo sciopero globale delle donne è stato come una scarica elettrica, liberata dalla potenza collettiva della marea di corpi sessuati che hanno invaso le strade: una scossa che ha attraversato il pianeta, dilatando il tempo e abbattendo i confini. Milioni di teste, cuori, gambe si sono riversati nelle piazze del mondo sprigionando un’energia magnetica; salita dalle viscere della terra, ne ha fatto tremare la superficie al grido di #WeTooGether.

In Italia i mesi che hanno preceduto questa giornata si sono distinti per le tonalità cupe di una campagna elettorale asfittica, forse tra le peggiori di sempre. Una campagna interamente giocata contro donne e migranti. La legittimazione di retoriche – oltre che di forze politiche – neofasciste e autoritarie è stata lo strumento principe per affermare la necessità di una stabilizzazione reazionaria. Del resto si sa, il mondo alla rovescia e la Grande Reazione vanno a braccetto: il primo serve a imporre la seconda. E allora ecco che si alzano cori di condanna nei confronti della violenza politica degli “opposti estremismi”, e la resistenza, le grida di dissenso contro il riconoscimento dei nuovi fascismi organizzati all’interno del “gioco democratico” vengono represse, derubricate alla voce “antagonismo”, o addirittura ne viene richiesto il licenziamento in diretta televisiva, riallestendo una Santa Inquisizione da caccia alle streghe.

Il terreno di questa barbarie era stato preparato da tempo. Ne avevamo segnalato le avvisaglie già durante l’estate, con gli stupri di Rimini e di Firenze: da una parte il corpo “vittimizzato” di una donna abusata dallo straniero invasore e quello invisibile di una trans che è andato incontro al proprio “destino”; dall’altra i corpi “provocatori” di due giovani donne americane, che “se la sono cercata”, tra l’attrazione per la divisa dell’arma dei carabinieri e il turbinio della nota (sic!) “città della dello sballo”, Firenze.

Poi è arrivato l’autunno, Non Una Di Meno torna nelle piazze con il proprio Piano femminista, e poi l’esplosione del #MeToo, grido che ha rotto il velo del silenzio su molestie e violenze nel mondo dello spettacolo. Le denunce di Asia Argento, Rose McGowan e tante altre donne di Hollywood contro il predatore seriale Harvey Weinstein hanno portato alla luce qualcosa da sempre noto a tutt* ma taciuto:

le gerarchie di un potere ancora tutto maschile, combinate con l’erosione dei diritti e delle tutele contrattuali, con la precarietà che morde sempre di più, la disoccupazione e le nuove povertà, producono il terreno perfetto per ricatti, discriminazioni e abusi.

Anche in questo caso però, nel Belpaese, l’enorme portata di questo fenomeno viene non solo sminuito, ma direttamente attaccato. Scatta la gogna mediatica per le donne che hanno trovato il coraggio di parlare, vengono chiamate “puttane” e “approfittatrici”, si gioca a instillare il dubbio nell’opinione pubblica che in realtà quegli abusi abbiano fatto molto comodo alle loro carriere. A tutto ciò però si contrappone spontaneamente una risposta potente, quella di #QuellaVoltaChe e del #MeToo.

I social vengono attraversati da un’ondata di post e tweet in cui centinaia di migliaia di donne trovano la forza per condividere le molteplici forme di violenza che hanno incontrato nel corso delle loro vite. “Sorella io ti credo” è lo slogan che si accompagna a questo disvelamento collettivo. Il #MeToo prepara il campo al#WeTooGether , alla consapevolezza che se la violenza maschile è qualcosa di strutturale che tocca ogni ambito delle nostre esistenze, l’unica risposta possibile è quella collettiva, solidale, in presenza.

Ma la guerra alle donne non si arresta, al contrario si radicalizza nel corso della campagna elettorale. La morte di Pamela Mastropietro e l’attentato razzista di Luca Traini danno via al valzer delle oscenità istituzionali e mediatiche. Il corpo di Pamela, già massacrato, viene ulteriormente sbranato dalla violenza delle cronache e delle retoriche infami che le contornano. Diviene strumento ottimale per mesti fini elettorali, per l’affermazione e la divulgazione di messaggi xenofobi e fascisti. E così – il sottotesto neanche troppo velato -, in Italia, sparare alle persone, se il fine è la giustizia fai da te, la vendetta contro lo “straniero invasore” sembra diventare giustificabile, attecchisce l’idea della necessità di un ripristino di strutture sociali, di un ordine fondati su gerarchie e dispositivi di subordinazione molto netti.

Questo clima di rancore, di odio verso l’altra/o da sé, di progressiva chiusura degli spazi di dissenso è stato però spazzato via da una spinta vitale, radicale, potente: quella dello sciopero femminista dello scorso otto marzo.

Più di cento paesi nel mondo, più di settanta città in Italia sono stati attraversati dalla marea femminista, dalla sua rabbia determinata e gioiosa. Perché se c’è una cosa che questa giornata ci consegna è la potenza incarnata nei corpi collettivi che si uniscono, si toccano, si contaminano. Ed è la consapevolezza di questa enorme potenza a permettere di trasformare il #MeToo in #WeTooGether, di sostenere, per esempio, due lavoratrici di una delle più grandi corporation della ristorazione nella denuncia delle molestie subite da parte di un manager.

L’agire in comune è così tornato al centro della scena, sparigliando le carte della Politica, dichiarando guerra alla guerra neoliberale, tornando a gridare la propria inimicizia contro la violenza patriarcale. Il processo aperto lo scorso anno di riappropriazione e ridefinizione dello sciopero non si è fermato, è andato avanti dalle incredibili piazze spagnole e argentine, fino a quelle italiane.

Le donne sono tornate a rivendicare lo sciopero innanzitutto come un proprio strumento, non a sola disposizione dei sindacati, sono tornate a dire che non sono più sufficienti le vecchie distinzioni tra sciopero vertenziale e sciopero politico.

Essere all’altezza dei tempi presenti vuol dire assumere fino in fondo la trasformazione del lavoro contemporaneo, dei modi dello sfruttamento, per pensare strategie di resistenza e liberazione adeguate. Per una seconda volta i sindacati confederali italiani non hanno voluto cogliere questa novità, le sole sigle del sindacalismo di base hanno infatti indetto lo sciopero e garantito la copertura sindacale per quella giornata. Del resto, cosa aspettarsi da chi non è stato in grado di convocare uno sciopero generale neanche mentre veniva votato il Jobs Act, la peggiore riforma del mercato del lavoro dell’Italia repubblicana, che ha definitivamente massacrato tutele e diritti, in primo luogo per le donne, esponendole una volta di più al rischio dei ricatti, delle molestie e delle violenze.

Ma le donne non si sono lasciate intimidire, soprattutto da chi da anni non ha più a cuore la difesa dei loro diritti, dei diritti di chi è precaria, disoccupata, intermittente, costretta a farsi carico del lavoro produttivo e riproduttivo, dentro e fuori casa, di chi viene pagata di meno proprio perché donna o migrante o entrambe le cose, di chi viene pagata in nero o non viene pagata proprio, di chi viene discriminat* perché gay, lesbica, trans, di chi viene sfruttata, maltrattata, ricattata.

Mutualismo e solidarietà, autonomia e autodeterminazione, a partire da questi princìpi NiUnaMenos-NonUnaDiMeno sta ricostruendo una trama comune delle lotte: questo il senso, decisivo, di rivendicare il carattere contemporaneamente simbolico e materiale dello sciopero.

Vertenziale sulla base delle proposte, tutt’altro che astratte, espresse in Italia nel Piano femminista. Sciopero simbolico, politico, estetico, antropologico perché vuole rovesciare la società intera, abbattere la violenza ridefinendo i modi del sentire, di percepire, stare al mondo, di amare e di odiare, i rapporti personali e politici, il senso comune. Lo sciopero femminista è rivolta esistenziale. Anche questa volta non è finito col termine di una manifestazione: l’otto marzo ci siamo date la scossa le une con le altre, una scarica elettrica che di corpo in corpo ha attraversato il pianeta riaffermando una nuova politica delle emozioni e del desiderio che parla a tutt* e che non lascia indietro nessun*.