MONDO

Lo sciopero nelle fabbriche neoliberali del sapere

Squat the ranking! le proteste studentesche nella “fabbrica della qualità” in Cina. Considerazioni sul rapporto formazione lavoro nella superpotenza cinese a partire dagli scioperi degli stagisti nell’ultimo decennio.

Nel 2006, in un college privato cinese, un nuovo tipo di protesta studentesca è scoppiata facendo spazio alla figura sociale che potremmo chiamare “studente-consumatore”. Allo Shengda College, gli studenti hanno prima occupato l’auditorium del campus e poi costretto lo stesso preside alle dimissioni. La rabbia è scoppiata non appena scoperto che il college per cui hanno pagato fior fior di soldi di tasse è stato declassato (KAHN, 2006). A questo istituto, infatti, è stato imposto di firmare le lauree emesse con il proprio pressoché anonimo nome, anziché il rispettabile e ben conosciuto dell’Università Zhengzhou che, grazie al riconosciuto prestigio e indubbia reputazione, ha permesso al piccolo college privato di emettere titoli di studio.

In un’accesa discussione durante la protesta, uno studente ha scritto in una chat: “Siamo schifosamente arrabbiati! Ci hanno appena detto che i nostri diplomi valgono meno! Siamo stati presi in giro per tre anni! Abbiamo pagato per una Mercedes e ci danno una Santana!” (KAHN, 2006).

Dal 2006 al 2008, quanto avvenuto al Shengda College non è stato un evento isolato: altre proteste simili si sono diffuse, come è accaduto nel campus universitario di Dalian, dove gli studenti hanno prima dato fuoco ai banchi e alle sedie dove facevano lezione, poi sostenuto scontri con la polizia non appena scoperto che alle alte tasse pagate non corrispondeva più il diploma promesso. Una laurea diventata spazzatura nel giro di una notte. Due giorni prima, infatti, Il rettore del campus era stata obbligato a firmare i certificati di laurea senza il nome della ben conosciuta Dongbei University della regione.

Questi eventi ci interrogano da vicino sul valore contemporaneo della laurea e dei saperi: sono casi che ci permettono di indagare a fondo la relazione tra la qualifica e il mercato del lavoro, tra l’inclusione e l’esclusione sociale. Oggi è il nome dell’università, la sua etichetta e il suo prestigio che conta per il mercato del lavoro. Lo stesso nome d’ateneo deve essere abbastanza influente per giustificare l’aumento delle tasse studentesche, per alimentare la competizione tra le università come tra gli studenti, che usano questo brand come possono nel mercato del lavoro.

Queste lotte studentesche hanno a che fare con l’architettura di una nuova stratificazione sociale: il sapere è una merce posizionale il cui valore dipende dalla reputazione, dalla posizione nei ranking e nelle gerarchie nazionali della stessa università. Questa gerarchizzazione, che agisce come un filtro, fa si che una laurea di una università X o di un paese Y conti meno dello stesso titolo di un’altra università o nazione, influenzando allo stesso modo le possibilità di sopravvivenza nel lavoro dei neolaureati.

Potremmo anche dire che il valore “relativo” del titolo di studio supera, oggi, quello assoluto: dove il valore del sapere è sempre meno indipendente e sempre più dato da una posizione relativa a un’altra, questo è il terreno di nuovi conflitti nell’università neoliberale.

Edufactory, o la dislocazione delle lotte studentesche

Gli scioperi organizzati nella regione del Guandong del sud della Cina durante tutto il 2010 hanno coinvolto in larga parte le fabbriche dell’auto come dell’elettronica, queste ultime sempre più caratterizzate da una nuova composizione sociale di lavoratori: gli stagisti.

Quando l’educazione e il mercato del lavoro si ridefiniscono reciprocamente l’uno con l’altro, quando la figura dello stagista conquista sempre più presenza nei luoghi classici della produzione, come possiamo leggere le lotte sul lavoro come lotte studentesche? Il “Regno di Mezzo” sembra affacciato a un’originale dislocazione delle proteste studentesche dentro le fabbriche, trasformando allo stesso tempo questi luoghi e le loro relazioni a livello globale.

La “vendita degli studenti” alle fabbriche in nome del tirocinio ha reso la forza lavoro cinese ancora più conveniente e, quindi, capace di affrontare l’attuale crisi globale: contrariamente ai dipendenti, i tirocinanti non hanno diritto ad aumenti salariali durante lo stage e non possono usufruire di alcuna protezione assicurativa (JENNY CHAN, 2015). I tirocinanti reclutati nelle scuole professionali, negli istituti tecnici e nelle università non sono soltanto manodopera a basso costo, ma vuoti a perdere usati per rispondere senza problemi ai picchi di produttività dell’impresa (JENNY CHAN, 2015). In ultima istanza, ma non meno importante, agli stagisti che scambiano i banchi di scuola per la catena di montaggio è proibita l’iscrizione al sindacato e le garanzie che ne derivano, non essendo legalmente definiti “manovali”.

Sono proprio loro i protagonisti degli scioperi più interessanti e avvincenti avvenuti negli ultimi anni in Cina: già compagni di studio, il comune background ha facilitato l’organizzazione delle lotte, e le preesistenti relazioni sociali sono state potente strumento di organizzazione. Non solo i dormitori delle fabbriche, luoghi dove gli operai riposano tra un turno estenuante e l’altro, sono importanti spazi di organizzazione operaia (NGAI, 2007): le lotte degli stagisti ci mostrano come l’università abbia assunto la stessa importanza. La protesta è scoppiata chiedendo aumenti salariali e, al rifiuto di negoziare da parte del management, si è bloccata la produzione moltiplicando i cortei e le manifestazioni.

È possibile leggere questi eventi attraverso la nozione di impoverimento (Verelendung), che, con Karl Marx, ha trovato una profondità teoretica e analitica attraverso almeno sette definizioni del fenomeno (GALLINO, 2006). L’impoverimento come “legge generale” descrive, anzitutto, l’effetto del calo nei salari reali sulla forza lavoro, come una sorta di decostruzione capitalista della stessa classe operaia. Se è vero ciò, questa definizione ci forza a capire se tale progressivo impoverimento sia un dispositivo di subordinazione o, al contrario, la guida per una nuova composizione politica di classe.

Con questo interrogativo in mente, Marx scrive di impoverimento anche come “legge tendenziale” descrivendo come la progressiva povertà possa essere attaccata e rovesciata dall’azione politica dei lavoratori organizzati. Attraverso la lente di questa affascinante teoria, il ciclo di scioperi in Cina ci mostra un’educata e mobile forza lavoro che sta rimpiazzando le classica figura del lavoratore migrante nella fabbrica (mingong). Nella “fabbrica globale” gli studenti stanno modificando i comportamenti del classico lavoratore del made in China: aumenti di salario, un’organizzazione efficiente, nuova abilità di contrattazione e la richiesta di sindacati indipendenti sono solo alcuni aspetti di queste lotte. Il blocco della catena di montaggio, l’occupazione di strade e ponti, e la rivendicazione di nuovi diritti rivelano una disposizione a leggere la tendenza, interpretarla e svilupparla. Senza una specifica forma di solidarietà tra i differenti scioperi, la protesta degli stagisti ha assunto una forza a “onda” che ha investito tanto le industrie pubbliche quanto quelle private, ottenendo aumenti generalizzati del salario minimo e, in alcuni casi, l’equiparazione del salario dello stagista a quello del lavoratore a pieno titolo.

Ciò che succede in Cina, superpotenza economica mondiale, fa della relazione tra capitale e lavoro una nuova articolazione che passa tra le gerarchie della formazione e il comando sul lavoro globale. È l’affermazione di uno sviluppo capitalistico nella crisi che radicalizza senza mediazione il significato di neoliberale, mutando irreversibilmente il senso della parola transizione.