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Quando le luci si spengono: l’Iraq in rivolta

L’utilizzo, pratico e simbolico, dello spazio nel contesto delle rivolte irachene rivela i motivi per cui è scoppiata la rivoluzione stessa: anni di élite corrotte e occupazione militare hanno reso il quotidiano non più sopportabile per la popolazione.

Luci

A Baghdad, le interruzioni nell’erogazione del servizio elettrico sono all’ordine del giorno: a intervalli di poche ore di distanza, l’energia si spegne. La durata di tali interruzioni dipende dalla qualità del servizio di ciascun distretto o quartiere. Il sistema elettrico nazionale rimane funzionante più a lungo nelle zone maggiormente benestanti, per esempio. I residenti sono talmente abituati a queste interruzioni che le stesse casalinghe programmano la propria routine quotidiana tenendo conto delle sospensioni del servizio. Cucinare è già un’azione che risulta estenuante, così i lavori di preparazione in cucina vengono svolti solo nei momenti in cui l’aria condizionata funziona. Le lavatrici consumano moltissima corrente e il servizio privato di generazione d’energia è parecchio costoso: il bucato pertanto viene sempre fatto attraverso la rete pubblica. Ma, nonostante la prevedibilità dei suoi malfunzionamenti, la famigerata rete elettrica di Baghdad ogni tanto riesco ancora a sorprendere gli abitanti, come è il caso di Naeem al-Shwaily.

Calmo e composto come suo solito, ma al di là delle apparenze ovviamente nervoso, due mesi fa Naeem ha descritto l’attacco armato lanciato contro i manifestanti pacifici a Baghdad nella notte del 6 dicembre, in tutti i suoi sconvolgenti particolari. Al-Sharqiya, una delle maggiori emittenti irachene di notizie, lo ha intervistato il giorno successivo all’attacco. Naeem ha allestito la scena per i suoi spettatori in prima serata: i manifestanti stavano occupando il Sinak Garage su piazza Khilani, a meno di un chilometro di distanza da piazza Tharir – l’epicentro della rivoluzione irachena che si è messa in moto dal primo ottobre. Attorno alle otto di sera, Naeem ha ricevuto una chiamata da parte dei suoi compagni che si trovavano al garage: erano sotto attacco. Naeem a i suoi amici a Tharir sono schizzati verso nord per dare il proprio sostegno, ma è successo qualcosa di inaspettato. «Un attimo prima di quando siamo arrivati al Sinak Garage, è saltata la corrente in tutta piazza Khilani».

Dopodiché, Naeem si è preso un secondo o due per schiarirsi la voce e riprendere fiato prima di proseguire il racconto. Con quel gesto così innaturale e artefatto, senza proferire parola, si lasciava intendere che il blocco di energia elettrica non rappresentasse in alcun modo una coincidenza mentre veniva prefigurato tutto il carico di cruda violenza che sarebbe esplosa di lì a poco, grazie anche alle tenebre improvvise.

«Autobus e pick-up sono entrati nella piazza. Gli spari sono iniziati da due lati». Uomini armati vestiti di nero – una sorta di divisa ufficiosa degli squadroni che hanno avuto il compito di uccidere i dimostranti pacifici in Iraq fin dal momento in cui è iniziata la rivoluzione a ottobre – sono usciti dai veicoli e hanno aperto il fuoco. Naeem e i suoi compagni sono riusciti a fuggire per un soffio, ritirandosi il più velocemente possibile verso piazza Tharir. Ma, non appena si stavano dirigendo dal punto in cui erano arrivati, ecco che sono stati sorpresi da un altro gruppo di infiltrati armati che stavano raggiungendo piazza Khilani proprio da piazza Tharir e che hanno iniziato pure loro a sparare.

La precisa, quasi “chirurgica”, descrizione da parte di Naeem dell’incidente si è trasformata in un’autopsia delle persone uccise, e delle condizioni politiche che hanno portato al loro decesso. «Quello che è successo ieri è un massacro, un vero e proprio massacro. Ieri abbiamo perso più di venti martiri, e ci sono stati oltre cento feriti». Se i manifestanti non si fossero ritirati come hanno fatto – ha insistito Naeem – il numero delle persone uccise sarebbe stato di gran lunga più alto. A meno che già non lo sia: in un report di dieci giorni successivi all’incidente, un report di Human Rights Watch ha suggerito che la quantità dei morti potrebbe variare dai 29 agli 80 manifestanti uccisi. Nessuno era sicuro del numero esatto.

Nell’arco degli ultimi quattro mesi, le zone centrali e meridionali dell’Iraq sono state teatro di una rivoluzione permanente. Dopo che in estate si sono verificate solo delle sporadiche proteste da parte di giovani disoccupati, una moltitudine intergenerazionali di iracheni ha occupato le piazze per chiedere la dismissione totale dell’attuale sistema di potere. I manifestanti vedono questo sistema – instaurato dall’occupazione del 2003 guidata dalle forze americane e basato su divisioni etniche e religiose – come responsabile di anni di violenza e corruzione, di servizi basilari come educazione e acqua potabile poveri e scadenti, nonché di una sostanziale mancanza di prospettive per una popolazione giovanile in completa “esplosione” demografica. Le promesse vuote compiute da un’élite arricchita non hanno fatto altro che acuire il male: delle riforme non servirebbero a niente, solo la rivoluzione può condurre a un cambiamento reale.

Checkpoint

Per Naeem e gli altri, la storia del massacro – vale a dire della controrivoluzione – inizia e finisce con il modo in cui lo stato e le forze parastatali trascendono ogni limitazione e binario di normale funzionamento. «Questo [massacro] è stato nelle mani delle milizie, che di fatto erano coordinate dallo stato. Non c’è alcun modo di sospendere l’energia elettrica in qualche particolare momento del giorno e in qualche particolare punto della città se non coordinandosi con l’apparato statale». Una tale collaborazione fra agenti parastatali armati controrivoluzionari e lo stato iracheno non rappresenta certo una novità. Già dal principio dell’occupazione statunitense, alcune figure politiche che oggi detengono cariche ufficiali guidavano gruppi miliziani. Da allora, questi gruppi sono arrivati a ottenere il controllo di parti dell’apparato di sicurezza statale irachene oppure sono stati formalmente integrati al suo interno – molto famoso è il caso della creazione e istituzionalizzazione delle Forze di Mobilitazione Popolare. L’unità operativa fra apparato statale e parastatale che diverse élites politiche, spesso viste come in conflitto fra di loro, si sono invece “saldate” attorno a una strategia di arbitraria violenza finalizzata a reprimere la rivoluzione e a difendere un sistema di spartizione di potere politico dal quale tutti traggono benefici.

Una tale strategia implica mobilitare differenti nodi di potere attivi all’interno del contesto iracheno. I gruppi di milizie sono stati incriminati per alcuni dei peggiori e più brutali violenze che hanno colpito i manifestanti pacifici. Ma anche istituzioni maggiormente “tradizionali” come i Ministeri, inclusi quelli responsabili per la sicurezza, sono stati coinvolti nella violenza controrivoluzionaria. «Quando ho lasciato piazza Khilani diretto verso casa, sono stato fermato da ben tre posti di blocco. Tre checkpoint, proprio accanto alla piazza», ha proseguito incredulo Naeem. Per la maggior parte di questo secolo, i posti di blocco da parte di polizia e militari hanno puntellato il paesaggio urbano di Baghdad e condizionato la mobilità interna alla capitale. L’organismo preposto al coordinamento di questa “architettura securitaria” è il Baghdad Operations Command, istituito per la prima volta nel 2006 come parte integrante dell’operazione “Enforcing the Law” (conosciuta anche come “La marea” delle truppe statunitensi). Il Baghdad Operations Command, che è composto da diverse istituzioni che si occupano di sicurezza in larga parte provenienti dai Ministeri dell’Interno o della Difesa, decide la posizione e il funzionamento dei vari checkpoint collocati nel tessuto urbano.

I posti di blocco sono diretti da una varietà di personale statale addetto alla sicurezza, ma si tratta soprattutto di soldati e poliziotti federali. La loro onnipresenza ha inizio con l’occupazione a guida statunitense del territorio iracheno, nel momento in cui le tattiche di contro-insorgenza degli Usa prevedevano la fortificazione di zone e quartieri separati nella città di Baghdad, unita alla creazione di checkpoint che avessero la funzione di controllare spostamenti di merci e persone. Questa infrastruttura securitaria è stata ereditata dai corpi militari iracheni in seguito al provvisorio ritiro delle truppe statunitensi nel 2011 ed è stata mantenuta in piedi in maniera più o meno invariata. Negli ultimi anni, il miglioramento delle condizioni di sicurezza nella città di Baghdad hanno potuto giustificare la rimozione di alcuni posti di blocco, ma ne sono rimasti attivi ancora a centinaia.

«Mi vuol far credere che questi checkpoint non hanno visto i miliziani?» ha chiesto sarcastico Naeem. «Sono stati seduti nello stesso posto per sei ore. Il quadro direttivo del Baghdad Operations Command non è in grado di far inseguire e arrestare queste persone da qualcuna delle sue truppe?». Un tale inazione ha condotto Naeem a una conclusione molto semplice: a nome di tutti i manifestanti che si trovavano in piazza quella sera, ha accusato il governo di complicità diretta nel massacro.

Evidentemente istituiti per frenare violenza e insicurezza, questi posti di blocco hanno rappresentato per anni il simbolo di tutto ciò che va storto con l’amministrazione di Baghdad e dello stato iracheno. Attraverso la loro presenza, si è rivelata l’incapacità delle forze di sicurezza di prevenire atti di violenza spettacolare come le autobombe. Ma, pur con tutte le critiche di cui i checkpoint sono e sono stati oggetto da parte degli iracheni, la condanna di Naeem chiamava in causa qualcosa di gran lunga più sinistro. La messa in accusa delle autorità statali avveniva non tanto per la loro passiva inefficienza, ma per un loro ruolo attivo e consapevole nelle uccisioni.

Strade

Un accusa di questo tipo costituisce un promemoria di quanto lo spazio urbano sia un fattore-chiave nelle rivoluzioni. La città può essere «un crogiolo di potenziale rivoluzionario», come dice Charles Tripp parlando di spazio e rivoluzione nel contesto della Tunisia. A questo proposito, Baghdad non differisce poi di molto dalla Tunisi del 2011, o da Beirut o Khartum lungo gli anni più recenti. Ma la storia della Baghdad contemporanea, segnata da occupazione, guerra e violenza, è attraversata da contrasti cruciali. Lungo gli ultimi 17 anni, la città è stata trasformata dalle architetture securitarie – inaugurate dalle forze di occupazione americane nel 2003 e gradualmente ereditate dal personale iracheno – le quali, però, hanno fatto veramente poco agli occhi dei cittadini nel garantire sicurezza, fisica o di altra natura. Quali diversi significati vengono incorporati nella fabbricazione della città, da cui può emergere la novità rivoluzionaria, a partire da una storia urbana di questo tipo nonché dalle condizioni socio-spaziali che una tale storia genera?

Una delle più profonde ed efficaci tattiche impiegate dai manifestanti lungo le zone centrali e meridionali dell’Iraq è stata quella di bloccare le strade e le autostrade più importanti, sia fra le città che al loro interno. In molti punti, fra ottobre e gennaio, gli attivisti a Basra (sud dell’Iraq) hanno tagliato l’accesso al porto di Um Qasr. In un’occasione verificatasi a novembre, i manifestanti hanno bloccato l’autostrada diretta al porto usando delle finte bare sulle quali era stata dipinta la bandiera irachena e su cui erano stati scritti i nomi di rivoluzionari morti, uccisi dalle forze di sicurezza durante le proteste. Quel giorno, l’epitaffio “Rest in Power” ha assunto un’incredibile e tragica significatività dal momento che la morte ingiusta e l’omicidio controrivoluzionario sono diventate al contempo forma e contenuto della rivolta.

Anche a Baghdad i blocchi si sono verificati dappertutto. In molte occasioni fra dicembre e gennaio, dopo che erano da mesi dentro il processo rivoluzionario, i manifestanti hanno bloccato parte dell’autostrada Mohammed Al-Qassim, una sopraelevata nella parte orientale della città. Si tratta di un’arteria fondamentale sulla direttrice nord-sud, che mette in connessione una popolazione in continuo aumento. Quando mi trovavo a Baghdad nel 2018 per il lavoro di campo del mio percorso di dottorato, l’autostrada rimase chiusa per lavoro per diversi giorni. La maggior parte dei miei interlocutori, che la utilizzavano per andare da casa al lavoro, erano indignati. Le condizioni del traffico cittadino divennero ancora peggiori del solito. Le autorità statali venivano quotidianamente contestate per via della loro negligenza nel mantenimento dell’autostrada: la paura che alcune parti di essa potessero rompersi o crollare le ha finalmente spinte ad agire. Ma la popolazione, ancora una volta, avrebbe dovuto soffrire l’incapacità di pianificazione e l’inettitudine governativa.

I rivoluzionari spesso provano a occupare gli spazi urbani in cui è contenuto un forte potere simbolico e materiale. Le proteste a Baghdad hanno infatti tentato più volte di fare irruzione nella famigerata “zona verde”, un’area approssimativamente di dieci chilometri quadrati in cui hanno sede istituzioni chiave come l’ufficio del Primo Ministro, il Parlamento e l’ambasciata Usa. Le forze di sicurezza hanno ripetutamente e violentemente respinto indietro i manifestanti, bloccando tra l’altro l’accesso a due fondamentali ponti che conducono giusto alla zona verde.

Più che verso tali luoghi di coercizione e cleptocrazia, evidentemente pregni di simbolismo, il mio interesse si indirizza al blocco di strade di passaggio come l’autostrada Mohammed al-Qassim: in questi casi, la nostra attenzione viene diretta verso una rosa di rivendicazioni del tutto differenti, ovvero quelle che hanno per oggetto le mondane, quotidiane e non-più-tollerabili condizioni che aiutano i momenti rivoluzionari a ingenerarsi. La disobbedienza civile che viene messa in atto a Baghdad così come in altri luoghi ha a che fare con la denuncia di come le proprie città, i propri paesi e provincia siano stati trasformati e ridefiniti da tutta una serie di preoccupazioni legate alla “sicurezza”, quale è appunto la diffusione incontrollato di posti di blocco. Poco più oltre a questo è sembrato importare e negligenza e corruzione in quanto tali hanno lasciato tante altre infrastrutture comuni – come elettricità, strade e autostrade – in una situazione di sfacelo e rovina. Per ironia della sorte, tali luoghi infrastrutturali possono facilmente diventare teatro di una violenza ancora più chiara e riconoscibile: il 22 gennaio le forze di sicurezza irachene hanno attaccato i manifestanti che bloccavano l’autostrada, colpendoli ripetutamente con dei bastoni quando non sparandogli proprio addosso con proiettili e munizioni.

Interpretazione

Le interpretazioni che si concentrano sui fattori spaziali della rivolta che sta avendo ora luogo in Iraq sono qualcosa di più che una semplice lettura dei gesti quotidiani di ribellione. Queste riflessioni sono, al contrario, una conseguenza di leggere e interpretare gli eventi assieme ai rivoluzionari che stanno combattendo e morendo affinché nasca un diverso futuro per loro stessi, le proprie famiglie e la propria patria. Le condizioni quotidiane sono cruciali per capire come il futuro della popolazione sia stato “sequestrato” da élites politiche corrotte e come mai i rivoluzionari iracheni siano ancora in strada a protestare. Durante i quattro mesi successivi all’inizio della rivoluzione, i manifestanti hanno continuato a bloccare strade e autostrade. Le conseguenze del loro coraggio sono tragiche, dal momento che le forze di sicurezza rispondono con sempre più uccisioni.

Ma questo non è per niente sorprendente per persone come Naeem. Alla fine della sua intervista di due mesi fa, era ancora più risoluto: «Giuro su Dio che andremo avanti con le nostre proteste. Non ci ritireremo e non saremo respinti indietro. E voi non ci farete paura, non ce la faranno i vostri proiettili e le vostre milizie, non ce la faranno i vostri rapimenti e i vostri assassinii. Nulla ci spaventerà. Non soccomberemo mai».

 

Testo pubblicato originariamente sul magazine on-line Society & Space

Foto di copertina tratta dalla pagina Facebook Icssi Solidarity Initiative

Traduzione a cura di DINAMOpress