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ITALIA

Lavoro migrante: tra segregazione, sfruttamento e promesse di sanatoria

La regolarizzazione di tutti i migranti è fondamentale ben oltre l’emergenza, per promuovere i diritti sul lavoro di italiani e stranieri. La proposta della ministra Bellanova, invece, lega l’ottenimento del permesso di soggiorno alla domanda del settore agricolo, secondo un calcolo di opportunità che guarda agli interessi delle aziende più che ai bisogni dei braccianti

Il tema del lavoro migrante in regime di pandemia si conferma come campo privilegiato di tensione politica e teorica. La crisi decennale della governance neoliberale e il modello di sviluppo economico italiano, basato sulle strategie di finanziarizzazione e delocalizzazione delle attività produttive, da un lato, e sull’abbattimento del costo del lavoro, attraverso la riduzione dei diritti, dall’altro, hanno portato alla decostruzione dell’impianto welfaristico, all’invisibilizzazione del lavoro di riproduzione, all’incremento dei livelli di sfruttamento e di precarizzazione delle vite, alla moltiplicazione delle figure del lavoro. Lavoro vivo contemporaneo, fortemente differenziato secondo le linee di frattura del genere, della razza, della classe e dei contesti di vita e territoriali.

Il lavoro migrante si colloca al centro di questa riconfigurazione strutturale del modello produttivo da alcuni decenni, costituendo un oggetto privilegiato della governance dei movimenti umani che, dispiegando particolari ordini discorsivi e dispositivi disciplinanti, ha permesso la creazione e la legittimazione delle condizioni per l’affermazione di regimi di mobilità, funzionali alle esigenze differenziate di sfruttamento nei diversi contesti produttivi (lavoro povero e disumanizzato) e riproduttivi (sottoposti a plurali forme di ricatto e segregazione, sia spaziali sia temporali).

La presenza dei migranti nei lavori meno qualificati e meno retribuiti, privi di diritti e spesso non conciliabili con una vita dignitosa, contribuisce a comporre una cornice interpretativa per leggere la stratificazione etnica e la concentrazione occupazionale in un mercato del lavoro, che ha accompagnato la transizione del postfordismo, segmentato e giuridicamente costruito, per intere generazioni, in pelle “nera” e in pelle “bianca”. La percezione della “disponibilità” e della “adattabilità” della forza lavoro migrante indica una precisa tensione alla precarizzazione delle condizioni e dei diritti di tutto il sistema produttivo e del mondo del lavoro.

Lungi dal compiere una ricostruzione tipologica del “lavoratore migrante”, vi sono comunque delle linee di tendenza rintracciabili nel tempo che restituiscono la crisi del paradigma riduzionista ed economicista delle migrazioni: le persone si muovono anche e nonostante la presenza di blocchi restrittivi dei flussi di regolazione economica programmata e di requisiti di ingresso maggiormente selettivi; cosa che dà ragione della moltiplicazione delle figure al lavoro e della nuova composizione sociale del lavoro migrante, che accompagna quella tradizionale, costituita nel tempo dalle migrazioni di insediamento: beneficiari di/richiedenti protezione, soprattutto umanitaria, donne (specialmente nei servizi alla persona), seconde generazioni (che hanno uno svantaggio strutturale, fatto di carriere scolastiche e professionali condizionate dalle traiettorie delle famiglie “apripista”), lavoratori invisibilizzati, irregolari e “illegalizzati” nelle innumerevoli trappole del “caporalato” urbano e rurale.

La sistematica irregolarizzazione è conseguenza diretta di una stratificazione normativa che ha vincolato la titolarità del soggiorno al contratto di lavoro, in un paradossale incontro tra domanda e offerta di lavoro a distanza, assottigliato drasticamente i canali di ingresso per lavoro e prodotto forme di confinamento, spesso drammatiche, costruendo socialmente i migranti quale categoria vulnerabile, emarginata, ricattabile.

 

Fenomenologia del lavoro migrante e pandemia

I migranti rappresentano una parte consistente del sistema del lavoro italiano. Secondo i dati Istat, nel 2018, gli stranieri (Ue ed extra Ue) con un’occupazione erano quasi 2,5 milioni, ossia il 10,5% del lavoro complessivo. La loro presenza è concentrata soprattutto in determinati settori economici, ovvero i servizi collettivi e alla persona (che comprendono assistenza e cura), nei quali sono il 36,6% (600 mila) di tutti i lavoratori del settore; il settore alberghiero e della ristorazione, in cui la percentuale è del 17,9% (261 mila); l’agricoltura, la caccia e la pesca, dove rappresentano il 17,9% (156 mila, a cui vanno aggiunti i lavoratori stagionali); le costruzioni, in cui sono il 17,2% (242mila) e il trasporto e magazzinaggio, dove ammontano all’11,1% (125mila).

Il lockdown per il contenimento del coronavirus non ha fermato larga parte delle attività di tali settori: il personale addetto all’assistenza non ha abbandonato la cura di anziani e bambini, la logistica ha incrementato le proprie attività per rifornire i supermercati e per sostenere la crescita delle consegne a domicilio, i braccianti non hanno mai lasciato i campi e il piccolo commercio alimentare non ha abbassato le saracinesche. L’eccezionalità determinata dall’attuale contesto non ha tuttavia modificato la “normalità” del lavoro migrante caratterizzato da sfruttamento e da stipendi bassi. Sempre secondo i dati Istat, infatti, una famiglia su quattro costituita da lavoratori dipendenti stranieri è povera. Inoltre, è bene ricordare che 3 lavoratori migranti su 4 sono operai generici (oltre il 76%) e che la retribuzione media è del 35% in meno rispetto ai lavoratori italiani; dato che li colloca, insieme ad altri, tra i working poor.

La segregazione del lavoro migrante si inserisce anche nei sistemi produttivi territorializzati, nelle vocazioni produttive e nella varietà dei modelli di regolazione dei mercati del lavoro geograficamente localizzati.

In Italia vi sono intere zone, spesso con un’attività economica prevalente, dove si concentra la presenza di una specifica comunità nazionale come, ad esempio, gli indiani nell’agro pontino o i cinesi nel pratese. Il lavoro dei migranti è uno spazio molto stretto, di solito mono-nazionale e mono-settoriale, talmente ridotto che la figura simbolo è il “ghetto”, luogo fisico ma anche luogo immateriale, costituito, dall’interno, da meccanismi e reti di solidarietà e, dall’esterno, da separazione e oppressione.

Le misure sociali ed economiche connesse all’emergenza Coronavirus si sono distinte per il loro chiaro impianto selettivo. I decreti rappresentano una fotografia di quella che attualmente è la “moltiplicazione del lavoro” caratterizzato da una pluralità di contratti, un’eterogeneità di status, una diversità di posizioni soggettive lungo le filiere produttive. La selettività di tali misure riproduce sostanzialmente le fratture di classe, escludendo soprattutto le fasce di popolazione più povere e sfruttate. In tal senso funge da incremento delle disuguaglianze sociali, dividendo la popolazione in sommersi e salvati: una linea di separazione che si intreccia con la linea del colore.

Molti hanno fatto notare come nei giorni del lockdown finalmente il lavoro migrante fosse apparso fondamentale per l’economia italiana. Ma a quali condizioni? I lavoratori della logistica lavorano in magazzini sovra-affollati, i rider eseguono le consegne senza adeguate protezioni, le attività di cura proseguono anche in mancanza di materiale anti-contagio e sono in molti che continuano a vivere in condizioni degradanti e insalubri. Inoltre, le misure di sostegno economico, da una parte, escludono il lavoro di assistenza e cura, che come si già accennato è il settore nel quale sono impegnati il numero maggiore di migranti, dall’altra, non prevedendo sostegno per i più precari escludono di fatto una parte importante del lavoro migrante.

 

Foto di Vittorio Giannitelli

Una proposta debole e insidiosa di “regolarizzazione” dei braccianti

La ministra dell’Agricoltura Bellanova lo ha ribadito nella sua relazione al Senato: bisogna regolarizzare i migranti impegnati nelle raccolte stagionali. Più che un gesto di solidarietà, a muovere la ministra è un calcolo di opportunità. Secondo le stime, da lei stessa fornite, a causa delle limitazioni di movimento verso l’Italia, nel 2020, potrebbero mancare 270-350 mila braccianti. Gli effetti sarebbero catastrofici, i cittadini si troverebbero davanti scaffali di frutta e verdura vuoti. Per colmare l’assenza di manodopera, il governo ha stipulato un accordo con la Romania per costituire il cosiddetto “corridoio verde”, in modo tale da permettere ai braccianti provenienti da Bucarest di recarsi liberamente in l’Italia. L’intesa chiaramente non è sufficiente per soddisfare la domanda di lavoratori agricoli stagionali, serve molto di più.

La regolarizzazione attualmente promossa dalla ministra dell’Agricoltura ha trovato qualche singola sponda politica nel Pd e nei 5 stelle. Lo stato di bisogno del lavoro agricolo fa supporre che il progetto probabilmente andrà in porto. Tuttavia, al momento la proposta rimane molto vaga. Nelle decine di interviste rilasciate, infatti, la Bellanova ha esplicitato solamente il criterio dell’offerta di lavoro da parte di un’azienda agricola. Nonostante l’alta esposizione mediatica della ministra, le organizzazioni datoriali del settore sembrano spingere verso altre soluzioni. La Coldiretti e la Confederazione Italiana Agricoltura (Cia) propongono di liberalizzare i voucher per far lavorare «pensionati e studenti”», mentre Alleanza cooperative (coordinamento tra Associazione Generale Cooperative Italiane – Agci, Confcooperative, Legacoop) e Confagricoltura propongono di far lavorare nei campi chi percepisce il Reddito di Cittadinanza e chi si trova al momento disoccupato o inoccupato.

Entrambe le proposte perseguono l’obiettivo di far “tornare gli italiani in agricoltura”. Si tratta con ogni evidenza di un finto proposito, visto che i cittadini italiani già lavorano nel comparto agricolo e, al pari dei migranti, rischiano la loro vita tutti i giorni: come Paola Clemente morta di “fatica” nel 2015 durante la raccolta dell’uva in Puglia.

Il vero obiettivo delle organizzazioni datoriali è abbassare ulteriormente il costo del lavoro, liberalizzando i voucher, oppure ottenere manodopera parzialmente gratuita dai percettori di Rdc e altri sussidi, meglio se forzata, in quanto sottoposta a condizionalità. Le aziende agricole e i loro rappresentanti non sembra vogliano uscire dal mercato del lavoro iper-sfruttato che essi stessi hanno alimentato negli ultimi decenni. Al contrario, la crisi economica rappresenta un’occasione da cogliere per fomentare la concorrenza tra lavoratori e approfittare per determinare un’ulteriore riduzione del costo del lavoro.

Rompere la “normale eccezione”

All’interno delle trasformazioni del lavoro migrante, il lavoro agricolo ha assunto un’importanza che, soprattutto in anni recenti, seppur in modo non sistematico, è stata messa a fuoco nella letteratura scientifica e nel dibattito politico. Assumere le peculiarità del lavoro migrante nella loro connessione con il lavoro stagionale nell’economia rurale significa, infatti, tematizzare almeno due grandi questioni da un angolo di osservazione particolarmente privilegiato, in cui si condensa la tipicità del modello di sfruttamento.

La prima, legata alle dinamiche di mobilità interna della popolazione, all’effetto di complementarietà tra lavoro migrante e autoctono, al reclutamento della forza lavoro e alle sue modalità di impiego, in un quadro definibile di illegalità diffusa, in cui si ri-producono sistematiche violazioni di diritti umani e sociali. Si pensi alle condizioni di lavoro e di alloggio, all’assenza di forme di tutela della salute, di accesso ai servizi, di spazi di relazione. Ma anche, all’interno di tale frame, pur nelle peculiarità di ogni territorio, alla moltiplicazione delle forme dello sfruttamento e alla trasformazione della composizione sociale dei lavoratori impiegati nell’economia rurale (figure particolarmente vulnerabili e sradicate, “profughizzate”, o precedentemente espulse dalla crisi che ha attraversato l’indotto industriale).

L’altra grande questione è legata alle forme di radicamento dei braccianti nei contesti di riferimento, alla capacità, decisiva, che hanno di ridisegnare i luoghi e i territori, alla produzione di soggettivazione, resistente, in prima istanza, al cosiddetto fenomeno del “caporalato” (bianco o “colorato” che sia) e dell’intermediazione illecita di manodopera. Processi di resistenza, a volte embrionali, più spesso maturi, che hanno prodotto avanzamenti anche normativi e forme di cooperazione innovativa tra soggetti differenti.

Oggi più che mai la regolarizzazione di tutti i migranti “invisibilizzati” presenti sul territorio nazionale è necessaria. In un momento di diffusione del contagio, lasciare persone senza documenti, privi dunque di un adeguato supporto medico, alloggiativo, assistenziale, è una decisione omicida.

La regolarizzazione è fondamentale, ben oltre l’emergenza. L’inferiorità di status è uno degli elementi su cui si fonda la “normale” segregazione dei migranti. D’altronde, il rischio di espulsione o la detenzione in un Cpr per le persone prive di un permesso di soggiorno sono fortissimi deterrenti per qualsiasi lotta sindacale o mobilitazione per nuovi diritti. Tuttavia, la proposta di regolarizzazione attualmente avanzata, senza un radicale ribaltamento delle politiche in materia di governo della mobilità umana, ci appare oltremodo insidiosa.

Legare a doppio filo l’ennesimo processo di regolarizzazione alla domanda di lavoro nel settore agricolo allude ad un paradigma, non solo utilitaristico ma anche neocoloniale. Infatti, il lavoro dei campi, narrato come essenziale dentro la crisi del Covid-19, ruota intorno al paradigma schiavistico della “piantagione”, del disciplinamento dell’intera vita e del suo asservimento alle ragioni della produzione alimentare, indispensabile alla sopravvivenza della nazione.

In più, enfatizza le caratteristiche di etnicizzazione e di divisione razziale del lavoro, all’interno di una visione funzionalista di sfruttamento e di popolamento delle aree marginali e rurali. Il lavoro nei campi utilizzato come elemento discorsivo paradigmatico per rompere l’ozioso “parassitismo” di chi percepisce un sussidio, in nome dei dispositivi workfaristici, o per inchiodare la “razza” al lavoro, rendendola schiava e “dannata”, si si nostra ancora un a volta denso di tensione politica. E si conferma come terreno di scontro radicale.

Ci piace pensare che, ancora una volta, saranno le lotte e le mobilitazioni dei lavoratori nativi e migranti, saranno i processi, anche scomposti, non lineari, di sindacalizzazione e di soggettivazione ad indicarci la strada della ricomposizione tra reddito, salario, welfare, diritto a una vita degna. Un po’ come Django e Broomhilda di Tarantino, che, nella scena finale, vestendo i panni del padrone, in un gesto estremo, liberatorio e drasticamente anti-politically correct, fanno saltare l’intero sistema della piantagione e della produzione schiavistica, razzialmente costruite e così costitutivamente presenti nella “bianchezza” del modello di sviluppo capitalista occidentale.  «Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema».