ITALIA

Niente da restituire: un reddito universale e incondizionato da conquistare

La pretesa del Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini (e non solo) di utilizzare i percettori del Reddito di Cittadinanza come manodopera agricola a basso costo «per sdebitarsi» è pericolosa e funzionale al mantenimento del lavoro povero e dello sfruttamento, in agricoltura e non solo

In questi giorni, parte del dibattito politico si è concentrato intorno alle recenti dichiarazioni del Presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, secondo il quale «chi prende il Reddito di Cittadinanza può cominciare ad andare a lavorare lì [nei campi] così restituisce un po’ quello che prende». Un’ipotesi, questa, tutt’altro che originale e alquanto bipartisan, se è vero che già nelle scorse settimane è stata sostenuta sia da esponenti nazionali e locali del centro-destra, Lega emiliano-romagnola in testa, sia dal centro-sinistra al Governo tramite la Ministra Teresa Bellanova. Per chi si batte per un diritto universale al Reddito è dunque interessante indagare i risvolti di questo ricorrente interesse che unisce, in questa fase, necessità di reperimento della manodopera agricola e utilizzo a questo fine dei percettori del Reddito di Cittadinanza (RdC).

Partiamo da un fatto: sembrerebbero mancare all’appello almeno 200 mila braccianti stagionali, in particolare provenienti dai paesi dell’Europa orientale (Romania, ma non solo), che generalmente costituiscono un’importante componente di questa manodopera. Va allora ricordato che, parallelamente al dibattito sui percettori di RdC, la titolare del Dicastero all’Agricoltura sta lavorando alla possibile regolarizzazione di oltre 600 mila lavoratrici e lavoratori stranieri presenti in Italia, che a suo dire sarebbero «invisibili, […] solo per quelli cui l’invisibilità ha fatto e continua a fare gioco». Parole che trasudano una profonda ipocrisia, dimostrando quanto ancora oggi per il Governo il diritto alla permanenza regolare e il preteso riconoscimento dei diritti di esistenza per i migranti siano esclusivamente funzionali agli interessi imprenditoriali; la regolarizzazione insomma è necessaria per rispondere all’«emergenza»… di rapido reperimento di manodopera, più che per tutelare appieno la salute contro i rischi dell’epidemia!

Eppure è vero che – non certo per l’azione delle istituzioni, ma piuttosto grazie alla difficile opera di sindacalizzazione, di auto-organizzazione, mutualismo e solidarietà nei territori – la condizione della manodopera agricola in Italia è ormai nota a tutti. Decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori italiani e migranti vivono l’esperienza del caporalato e dei «ghetti», e non solo nelle campagne del Sud, ma anche in importanti distretti agricoli del Centro-Nord, come dimostra l’ultimo caso di riduzione in schiavitù emerso questa settimana in provincia di Forlì, proprio nella regione governata da Bonaccini. E anche dove non c’è intermediazione criminale della manodopera, vi è una quotidianità di sfruttamento e profonda precarietà economica e sociale, fatta di salari da fame, assenza di diritti, evasione contributiva, contrattualizzazione assente (lavoro nero) o minima (lavoro grigio), di poche ore per giornate lavorative fino a 10/12 ore effettive.

Il Governo però sembra destarsi solo ora che, a causa della situazione determinata dall’emergenza sanitaria mondiale, la mancanza di braccia a basso costo sembra poter mettere a rischio le possibilità di profitto dell’agro-alimentare italico, settore che ogni anno macina oltre 140 miliardi di euro a esclusivo favore dei grandi soggetti imprenditoriali, attraverso un meccanismo di filiera lunga che comprime ferocemente i costi, facendo pagare il prezzo più alto agli anelli deboli della catena: piccoli produttori e soprattutto centinaia di migliaia di braccianti.

Piuttosto che le categorie moralistiche della «svogliatezza» degli italiani (che pure sono ampiamente presenti nel settore) o quanto dice la propaganda sovranista che addita i lavoratori stranieri come causa stessa delle condizioni di ribasso (salvo poi reprimerli e abbandonarli quando si ribellano allo sfruttamento), è dunque il combinato disposto tra gli specifici meccanismi di filiera di questo settore, le caratteristiche della divisione internazionale del lavoro e i perversi funzionamenti normativi del soggiorno regolare in Europa e nel nostro Paese a spiegare la preponderanza del lavoro povero migrante nei campi. In assenza di un salario minimo europeo e una regolarizzazione incondizionata, i lavoratori e le lavoratrici dell’Est Europa o i cittadini stranieri residenti in Italia, sempre a rischio-clandestinità, vengono “naturalmente” reclutati in un settore che può continuare a fare dell’assenza di diritti, dell’infiltrazione criminale e della distribuzione della ricchezza drasticamente a favore dei profitti a scapito dei salari proprie caratteristiche persistenti.

Ricattabilità e condizionamento economico e normativo sono dunque gli ingredienti fondamentali da tenere a mente. Nel momento in cui viene meno una parte del tradizionale bacino di manodopera è necessario individuarne un altro altrettanto ricattabile e condizionabile, se si vogliono mantere immutate le condizioni di sfruttamento e le enormi possibilità di valorizzazione a favore dei grandi profitti. Non a caso, infatti, insieme ai percettori del RdC vengono individuati studenti e nuovi cassaintegrati, soprattutto del Sud: tutti soggetti i quali il lockdown ha già ridotto o annullato la capacità di reddito e l’incipiente crisi economica non promette alcuna garanzia di sopravvivenza dignitosa.

Ecco perché le parole di politici tutt’altro che ingenui come Bonaccini contano e non vanno sottovalutate. Parlare di restituzione in riferimento ai percettori di RdC è come dire che chi si trova (o trovava già) in difficoltà economica, e per questo esercita il diritto a un seppure limitato ed economicamente modesto sostegno, debba essere considerato in debito e dunque, si sa, prima o poi i debiti vanno restituiti alle condizioni del creditore. Chi non ce la fa da sola/o va pure aiutato a sopravvivere, ma rimane colpevole del proprio fallimento sociale (cioè essere povera/o), dal quale è necessario riscattarsi nei confronti della collettività.

Una posizione, quella del governatore PD, che appare peraltro in evidente contraddizione con quella di chi rivendica un «Reddito Universale […] capace di non lasciare indietro nessuno» come proposto tra gli altri persino da esponenti di spicco della maggioranza emiliano-romagnola tra cui la Vicepresidente Elly Schlein, che non più di due settimane fa ne chiedeva l’istituzione a partire dall’allargamento della «platea dell’attuale Reddito di Cittadinanza». Evidentemente, la Giunta capeggiata dal presidente Bonaccini non sembra di questo avviso…

In ogni caso, va notato che siamo di fronte a una particolare forzatura del meccanismo di colpevolizzazione a dire il vero già insito nella ratio e nel funzionamento stesso del RdC. Ben lungi da essere una misura universalistica che garantisce incondizionatamente il diritto a un’esistenza dignitoso, riparo dunque dal lavoro povero e sfruttato, l’attuale RdC rappresenta una limitata e insufficiente prestazione di contrasto alla povertà che prevede già una forte condizionalità verso la messa al lavoro.

Come noto, il mantenimento del sostegno è connesso con la progressiva obbligatorietà all’accettazione delle offerte di lavoro. È facile perciò capire cosa significa forzare l’applicazione di questo impianto in un settore dove, come detto, regnano lavoro povero, sottopagato e precario. Senza pensare poi che per il mantenimento dell’erogazione è prevista la prestazione fino ad 8 ore di lavoro gratuito settimanale per Progetti utilità collettiva (P.u.c.), finora limitate da attività culturali, sociali, artistico, etc. ma in clima di «emergenza nazionale» e di «economia di guerra» lo smottamento su determinati settori produttivi considerati «strategici» o «essenziali», come appunto l’agricoltura, non è in fondo così impensabile.

Anzi, si tratterebbe di un risultato tutt’altro che involontario: la retorica della guerra ai fannulloni e del «nessuno resterà sul divano» che ha accompagnato l’avvio del RdC nascondeva in maniera nemmeno velata una visione del povero come parassita, soggetto da controllare e attivare, anche attraverso il lavoro gratuito e una serie di controlli continui. Approdo naturale di questa visione è il pensare la platea dei percettori come forza-lavoro a disposizione da impiegare in qualunque settore e a qualsiasi condizione. Peccato che in questo paese i poveri spesso sono già occupati, costretti tra uno o più lavori sottopagati, nella giungla del mercato del lavoro che l’emergenza COVID-19 sta portando alla luce in queste settimane.

È particolarmente significativo allora che la Lega abbia protestato rispetto al contrappeso alle condizionalità, proponendo che la congruità salariale prevista dal RdC per l’accettazione delle offerte di lavoro si calcoli su base giornaliera (il che ben si sposa con le possibilità di lavoro nero/grigio presenti in agricoltura) o la reintroduzione dei voucher, dunque la de-contrattualizzazione del lavoro agricolo. La stessa Ministra Bellanova in Parlamento è arrivata a dichiarare fondamentale la cumulabilità tra le forme di sostegno e reddito da lavoro per chi verrà impiegato nel settore agricolo: ma cosa significa questo se non permettere il mantenimento di bassissimi standard salariali (per tutti), permettendo ai datori di lavoro di pagare pochissimo i lavoratori, con la scusa di una copertura da parte dello Stato? È corretto dunque per la Ministra Bellanova che un operaio agricolo riceva 300 o 400 euro al mese per il proprio lavoro, vista la cumulabilità con il RdC?

Leggere dunque in controluce il dibattito intorno alla crisi di manodopera del settore agricolo è estremamente utile e istruttivo rispetto alla necessità urgente di rilanciare la rivendicazione di un dispositivo che garantisca il diritto al Reddito, caratterizzato da universalità, incondizionalità e consistenza economica, uno strumento quindi in grado di rompere il ricatto del lavoro povero, sfruttato e senza diritti.

In merito, la campagna nazionale Reddito di Quarantena ha sottolineato sin dall’inizio dell’emergenza sanitaria l’urgenza di partire dalla ridefinizione immediata e radicale dall’attuale Reddito di Cittadinanza, allargandone la platea dei beneficiari ed eliminando i vincoli e le storture che la rendono una misura non adatta a rispondere alle sfide che abbiamo davanti, come ad esempio i criteri drammaticamente escludenti sulla cittadinanza e sulla residenza. Affrontare la questione del welfare universale e di un reddito per tutti/e vuol dire interrogarsi infine sulla fiscalità di questo Paese, sulle crescenti disuguaglianze, sui salari e sulla polarizzazione delle ricchezze: in poche parole sulle ingiustizie sociali contro le quali continueremo a batterci senza sosta.

Tiziano Trobia è attivista sindacale delle Clap – Camere del lavoro autonomo e precario, Stefano Re sindacalista di Adl Cobas Emilia-Romagna

Foto di Radio Alfa