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La voluttuosa immobilità di Eugene Thacker

Che cosa scrivere di un libro che fa del silenzio della comunicazione e del fallimento della scrittura le nervature che lo muovono? Un recensione a quattro mani di Rassegnazione infinita di Eugene Thacker, efficacemente tradotto da Claudio Kulesko per i tipi di Nero (336 pagine, 2022)

Solo gli esseri umani hanno avuto la sfortuna di aver inventato qualcosa di più – qualcosa chiamato “vita”.

Eugene Thacker

Presi nella morsa dell’agenda etico-politica occidentale, dai marosi provocati dalle crisi climatiche, sanitarie e belliche che si succedono ormai ad un ritmo vertiginoso, non ci rendiamo pienamente conto, vittime consapevoli e resilienti dei sospiri della filosofia, di quanto il pessimismo possa costituire l’antidoto al veleno ideologico che intende trasformare il mondo in materiale da laboratorio. Rassegnazione infinita di Eugene Thacker, efficacemente tradotto da Claudio Kulesko per i tipi di Nero, ha esattamente questo scopo: introdurre l’umiltà nel pensiero, ridimensionando la postura autocelebrativa che da sempre contraddistingue la miseria della specie umana.

Il pessimismo, il lato oscuro del pensiero, è infatti la perfetta antinomia dell’antropocentrismo, un’antinomia che lavora per la sua destituzione tramite la messa in luce della sua rassegnata e infinita inconsistenza epistemologica. Il pessimismo più che una filosofia sistemica è una sorta di rancore nei confronti dello stato esistente delle cose. In effetti, già Camus ne L’uomo in rivolta aveva compreso che il pessimismo è un moto dell’animo umano, un’insorgenza che ambisce a rimettere in discussione il significato di individuo e, per estensione, quello dell’intera umanità. Tuttavia, benché possa essere storicizzato come fenomeno sociale, politico ed estetico, il pessimismo, che Camus traduce con il termine rivolta, sfugge a ogni categorizzazione, acquisendo in tal modo un valore transtorico. Il tutto o niente a cui il pensiero pessimista aspira, o meglio, a cui si rassegna, come ben aveva intuito Nanni Balestrini, si riduce all’accettazione del morire come atto trascendente il destino individuale, poco importa che ci venga imposto dallo Stato o da Dio.

Date queste premesse, è evidente la difficoltà di recensire questo libro che, in aggiunta, mantiene la prosodia aforistica della letteratura pessimista, con il suo stile frammentario, dispersivo e “scarabocchiato”, stile che rende la scrittura una sorta di sommario di decomposizione, per citare Cioran, uno dei santi patroni del pessimismo passati in rassegna dal filosofo americano nella parte finale del volume. Cioran, infatti, non esitò ad affermare: «Il vantaggio dell’aforisma consiste nell’assenza di inutili argomentazioni. L’aforisma si sputa a mezza bocca – come un insulto».

Che cosa scrivere, allora, di un libro che fa del silenzio della comunicazione e del fallimento della scrittura le nervature che lo muovono?

Convinti come siamo che la migliore lettura di Rassegnazione infinita vada delegata al caso e in quanto recensori con quattro mani e due corpi in mostruosa simbiosi collaborativa non possiamo che scrivere au hazard, traendo «conforto dal dare al proprio fallimento un nome: apologia, confessione, testimonianza, trattato, storia, biografia»(p. 7). Se non esiste che per esprimere se stesso, il pessimismo è comunque tensione contro dogmi e categorie, espressione di un disagio che spesso si traduce in vero e proprio atto di ribellione nei confronti delle burocrazie del pensiero politico e culturale imperante. In questo senso, la nostra difficoltà a dire il pessimismo è la difficoltà di dire l’interdetto – ciò che non consola, non informa né, tanto meno, educa –, e gettarci là dove si rischia di scomparire nell’anonimia di un mondo senza di noi, «al di là dei nostri bisogni e desideri, al di là dell’importanza che attribuiamo a individui e collettività» (p. 10).

Per quanto riguarda il rapporto tra mondo in sé (il mondo indifferente ai desideri e alle speranze umane) e mondo per noi (il mondo che usiamo come se fosse un nostro strumento) – questione cara a Thacker e già affrontata con grande maestria in Tra le ceneri di questo pianeta –, è la figura di Schopenhauer – altro santo patrono thackeriano – a risultare centrale, nonostante la voluta asistematicità di Rassegnazione infinita, che inanella le sue massime con le cadenze di un grimorio. Per Schopenhauer, infatti, il “mondo per noi” nulla aveva a che fare con il “mondo in sé”, dal momento che il filosofo tedesco contrapponeva il nostro “specifico” punto di vista di esseri che privilegiano interessi particolari a quello cieco e inumano della materia. Proprio in Il mondo come volontà e rappresentazione si presenta con inusitata nitidezza l’intuizione fondamentale secondo cui «più che vivere, saremmo vissuti da qualcosa» (p. 313).

Il “mondo per noi” è l’immagine che ci facciamo del mondo, uno specchio che riflette le nostre idee di mondo assieme al desiderio di porci al di sopra di esso per dominarlo (la rappresentazione), mentre il “mondo in sé” continua a rimanerci precluso poiché siamo ininterrottamente attraversati da una misteriosa forza aliena (la volontà).

La volontà per Schopenhauer non riguarda, infatti, la soggettività dell’individuo; al contrario, è una pulsione impersonale che ci costringe a continuare a vivere, pur sapendo che siamo destinati alla morte: «La volontà è semplicemente il nome che [Schopenhauer] attribuisce all’dea che, piuttosto che vivere, siamo vissuti da qualcos’altro. La volontà, di conseguenza, non consiste di desideri, azioni o atti di volizione (sarebbe a dire che non si identifica con la volontà individuale)» (p. 316). Per questa ragione, solo una “nolontà”, una dimissione dal mondo con il conseguente rifiuto dell’agency – così imbevuta, anche se questo sfugge ai più, di sciovinismo umano, machista e coloniale – potrebbe garantire una reale opposizione all’assurdità del vivere. Tutto questo era ben chiaro a Pasolini che aveva compreso e drammaticamente vissuto sul proprio corpo e sulla propria pelle la non-volontà di vivere: «Vivo nel non volere / del tramontato dopoguerra: amando il mondo che odio – nella sua miseria / sprezzante e perso – per un oscuro scandalo / della coscienza».

Il suicidio, allora, non è la soluzione del problema, dal momento che, in qualche modo e paradossalmente, conferma l’idea secondo cui, malgrado tutto, saremmo i padroni della nostra vita.

Piuttosto, come sostiene Camus ne Il mito di Sisifo, il suicidio potrebbe rappresentare la possibilità di dischiudere le porte della conoscenza filosofica: nell’impulso vitale che pure lo sostiene si nasconde l’assurdità di una vita (umana) stretta tra la necessità di sopravvivere e la malcelata consapevolezza del silenzio del mondo. Non a caso, molti santi patroni del pessimismo hanno lasciato che la vita scivolasse via. Tra questi, eludendo di proposito letterati come Dostoevskij, Pessoa o Lispector, in quanto è la letteratura stessa a porre limiti al buon senso della civiltà, Thacker cita solo filosofi che maledicono ogni cosa e filosofi che ridono di se stessi.

Nicolas Chamfort che, pur operando all’interno del canone illuminista, si rivolta contro le degenerazioni della Rivoluzione, fallendo addirittura il suo stesso suicidio – pieno di ferite da arma da taglio e con un proiettile conficcato in testa, dettò sul letto di morte le sue ultime volontà: «Ecco cosa capita a esser così maldestri. Non si riesce a far nulla, neppure ammazzarsi» (p. 233).

Emil Cioran che, lottando sinceramente per ciò in cui non crede,nasce malgrado tutto e inconvenientemente muore il 20 giugno del 1995 vittima della malattia di Alzheimer, dopo aver perso qualunque “volontà” e qualsiasi capacità di “rappresentazione”. Giacomo Leopardi che, privo del coraggio di suicidarsi, muore sepolto vivo nella natia (e selvaggia) Recanati. Georg Christoph Lichtenberg che, ancora studente, scrisse trattati in cui celebrava il suicidio e che morì nel 1799 dopo avere “procrastinato” tutte le sue idee in quel registro contabile dell’anima chiamato Sudelbücher in cui, consapevole dell’inconsistenza del mondo e conscio dei suoi malanni, riuscì a dare un nome solo alle sue pantofole. Friedrich Nietzsche che, nel 1889, in seguito al fatale incontro con un cavallo frustato a sangue per le strade di Torino, finisce per annientarsi nel collasso tra vita e filosofia. Arthur Schopenhauer che, nel suo ultimo taccuino, scrisse: «La ragione per la quale invecchiamo e moriamo non è fisica ma metafisica» (p. 336).

Il “vero” pessimista, insomma, rifiuta il suicidio come soluzione all’aporia del vivere, sebbene lo accetti come possibilità.

La politicità del pessimismo, o meglio, la sua impoliticità non si risolve pertanto nella militanza dentro le fila di un supposto esercito della negazione, quanto invece disertando i battaglioni della dottrina che giustifica i mali del mondo; l’im/politicità del pessimismo si esercita attraverso una prassi che dissolve i valori che hanno contribuito a imporre “la civiltà del bene”, al cui vertice (si) è posto l’Umano.

Che cosa c’è di meno resistente – senza nulla concedere all’avanzare furioso della Storia –, e di più politico, che il gesto “eroico” del tradimento che si oppone al Sé e alle derive narcisistiche dell’Umano? Che cosa c’è di più im/politico che scomparire e annullarsi come persona/cittadino, ridisponendo i ruoli da giocare nella scacchiera del mondo, invertendo, o rovesciando, l’opera civilizzatrice del “libero scambio” di corpi, anime e merci?

Che cosa c’è di più im/politico del “gesto” aforistico? Dell’azione libertaria e liberante – ma non liberale! – del frammento pensato, ruminato e infine messo per iscritto? Che cosa c’è di più vitale-mortale del motto che disfa i campi disciplinari, andando a occupare «una zona grigia tra i […] regni» (p. 296)?

Thacker afferma che l’importanza dell’aforisma consiste proprio nella sua inclassificabilità, poiché non sufficientemente lirico da farsi letteratura né abbastanza sistematico da farsi scienza. Con Umano, troppo umano, Nietzsche abbandona l’asservimento al sistema a favore dell’aforisma come unico stile propriamente filosofico, non perché il frammento, la parabola o il diario rappresentino l’apice della saggezza filosofica ma, al contrario, perché la forma breve esprime quella nolontà che rigurgita da ogni pessimista che, con svogliatezza, pigrizia o tedio, si disinteressa del mondo, scarabocchiando la sua infermità fisica e psichica (Nietzsche) o la sua intolleranza nei confronti dell’intero genere umano (Schopenhauer). Se per Nietzsche l’aforisma è la forma dell’eternità e se a Karl Kraus servivano due righe per esprimere ciò che per la maggior parte degli scrittori richiederebbe venti pagine, per Blanchot, aggiungiamo noi, la scrittura frammentata è scrittura senza scopo, come il vivere senza vita o il morire senza morte. Con le parole di Blanchot, l’aforisma racchiude in tutto ciò che afferma un mondo a sé, un mondo fatto sì di illusioni ma di illusioni che non corrispondono mai alla più nefasta delle illusioni, quella della realtà: «La frase allusiva, anche isolata, che dice, che non dice, che nasconde quel che dice nello stesso tempo in cui lo dice, fa dell’ambiguità un valore».

Questa illusione altra alimenta uno sconcertante entusiasmo, che non va confuso con uno stolido ottimismo. Thacker descrive tale stato sonnambolico contaminando il pessimismo filosofico con continue incursioni nella sua vita privata, con la gioia rassegnata che solo i momenti più insignificanti della quotidianità possono donare, gioia rassegnata che si contrappone al dolore che il malessere psico-fisico continua a procurargli: «Ascoltare la voce che proviene dagli altoparlanti della metropolitana, così distorta da somigliare a un lungo lamento; guardare il telegiornale senza audio; rimanere seduti sul gabinetto; restarsene per un po’ in ascensore, totalmente soli; attendere sul ciglio del marciapiede di una strada abbandonata; passeggiare per il parco e vedere uno scoiattolo che ruba del cibo a un bambino» (p. 85).

Unimmobilità voluttuosa che entusiasma. Che cosa altro si può fare oltre che piangere, ridere e dormire in un mondo tanto indifferente? Thomas Bernhard risponderebbe a questa domanda affermando che essere felice significa avere la consapevolezza della propria infelicità.

Questo è il sentimento che entusiasma il pessimista – la consapevolezza che il pessimismo, precedendo ogni filosofia della storia, procede indipendentemente da ogni esperienza. Il pessimismo è una condizione a priori che segna tutta la storia dell’umanità. Ogni parola “detta” dai santi pessimisti, ogni parola “pronunciata” da Thacker, prostrato dagli spasmi del suo terribile mal di schiena è una confessione di futilità, un inventario di affetti per una vita appena degna di essere vissuta in cui all’indifferenza del mondo fa eco l’indifferenza del corpo che continua ad ospitare dolori e doloretti. Il filosofo di New York cerca così la verità, esattamente come tentò di fare il rabbioso Empedocle nelle viscere della Terra, immergendosi nei bassifondi metropolitani, nelle tane dei caffè mentre è circondato da mosche da bar che, ronzandogli attorno, non smettono di scatenare la sua indignazione. Thacker, tuttavia, sa benissimo che solo il brulicare della città è fonte di ispirazione per la sua misantropia. Sa che può, pensare e scrivere solo in presenza di altri.

Anche il misantropo, come il pessimista, non può fare a meno degli altri e, sempre come il pessimista, è alla costante ricerca della peripezia, senza la quale non potrebbe intraprendere il suo viaggio al termine della notte. Ecco perché la saggezza peripatetica scandisce le giornate di tutti i pensatori pessimisti.

I luoghi in cui sono stati costretti a vivere hanno spesso determinato i loro percorsi biografici: Recanati per Leopardi, le aule vuote dell’Università di Berlino per Schopenhauer, la casa della sorella dove Nietzsche visse gli ultimi suoi giorni, il giardino di Wittgenstein, l’infimo studio di Cioran nel Quartiere Latino a Parigi. Da questi luoghi i santi pessimisti cercavano un posto nel mondo che potesse eludere l’alienazione delle città-prigioni. Lo facevano passeggiando ai margini e lungo i bordi della filosofia, inaugurando quella deriva psicogeografica che Debord descrisse nei termini di esperienza-limite dello spazio, esperienza in cui il territorio diventa la condizione necessaria per lo sviluppo affettivo di chi lo percorre – tecnica del passaggio rapido attraverso vari ambienti.

La maggior parte dei pensatori pessimisti sono il prodotto della ragione illuminista e, al contempo, l’argine contro la sua piena. Da questa prospettiva diventa comprensibile perché il pessimismo sia così profondamente anti-antropocentrico: «Le nubi al tramonto, vaste ed indifferenti: il languido ondeggiare di un banco di meduse. A ogni personificazione del mondo dovremmo rispondere per mezzo di una depersonificazione di noi stessi – sino a giungere al punto in cui questa idiotica e incerta figura autodenominatasi essere umano non si tramuti in null’altro che in effetto collaterale del clima o di una combinazione di elementi» (p. 292).

L’Antropocene, l’apice della rovina, come lo definisce Thacker, si potrebbe allora riassumere non tanto come una classificazione geologica che codifica una determinata era, bensì, più propriamente, come qualcosa che appartiene all’Umano e che solo l’Umano ha prodotto e definito come “vita” per provare a obliterare tutto ciò che esula l’inumano che lo eccede e che popola quel mondo indifferente che Gli è precluso.

Per Freud, che sul senso della vita umana espresse tutta la sua perplessità, «nessuno sembra dibattere dello scopo della vita degli animali, a meno che, forse, non si presupponga che esso consista nel servire l’umanità» (p. 168). Se vivessimo nell’Antropocene, la questione davvero inderogabile riguarderebbe la discriminazione e lo sfruttamento del vivente mortale. Dal che discenderebbe che ogni politica tesa a costruire il migliore dei mondi possibili dovrebbe farsi percorrere dall’antispecismo, ulteriore argine contro un presente sempre più segnato dalla catastrofe e dal rischio, ossia da quegli elementi-limite con cui il capitalismo ha sempre risolto le sue periodiche crisi strutturali.

Bisognerebbe allora comprendere che quando Thacker parla di disgusto per tutte le specie, inclusa quella umana, intende affermare che essenziale è la decostruzione del mito della specie, esattamente come hanno fatto, e fanno, i movimenti di emancipazione intraumana nel loro lavoro di smantellamento dei miti della razza, del sesso o del genere.

Per questo la rassegnazione è im/politicamente determinante: nel rigettare l’ottimismo secondo cui tutto è bene, essa rifiuta l’ordine “naturale” attraverso cui il neoliberismo continua a perpetuare il suo potere alienante e coercitivo. Ci sono animali che si rassegnano a vivere rifuggendo il proprio mondo, come il granchio, la talpa e la falena e «vi sono altri animali che non si nascondono né fuggono, ma che restano impassibili, supremamente rassegnati, autenticati, senza sforzo alcuno, dalla loro mera quasi-esistenza – banchi di meduse, impercettibili eucarioti, stuoli di bizzarri funghi e licheni… Tali bestie di indifferenza sono le guide spirituali del pessimista: insensate creature, colme di futilità» (p. 167).

La scheda del libro sul sito della casa editrice NOT

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