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Renata Pepicelli: «In Tunisia uno scontro tra forze divergenti»

A seguito di numerose proteste, non solo nella capitale Tunisi, il presidente della repubblica tunisina Kais Saied ha destituito il primo ministro dal suo incarico e sospeso tutte le attività parlamentare: una mossa drastica (e dalla potenzialmente pericolosa deriva autoritaria) per risolvere la crisi del paese nord-africano

Il 25 luglio il presidente della repubblica tunisina Kais Saied, al termine di una giornata segnata da diverse manifestazioni, ha deciso di dimissionare il primo ministro, sospendere le attività del parlamento e togliere l’immunità parlamentare a tutti i suoi membri, appellandosi all’articolo 80 della Costituzione. Un tentativo di risolvere la pesante crisi strutturale multidimensionale del paese (da un punto di vista sanitario, socio-economico e politico) che rischia però di scivolare verso una pericolosa torsione autoritaria e instabilità interna. Ne abbiamo parlato con Renata Pepicelli, docente di Islamistica e storia dei paesi islamici all’Università di Pisa, tra le maggiori esperte in Italia della realtà tunisina.

Partiamo innanzitutto dall’aspetto terminologico. Possiamo definire la decisione del presidente della repubblica Kais Saied di dimissionare il premier Mechichi e di sospendere il parlamento come un tentativo di colpo di stato?

Questa è una questione complessa a cui rispondere soprattutto se guardiamo a come i tunisini rispondono a tale domanda. Vediamo posizioni diverse riguardo la scelta di Kais Saied di dimissionare il primo ministro, sospendere le attività del parlamento, togliere l’immunità parlamentare a tutti i suoi membri e assumersi in prima persona il compito di traghettare il paese in una nuova fase nominando un nuovo premier e un nuovo governo.

Subito dopo l’annuncio di queste scelte il presidente del partito di ispirazione islamica Ennahda ha parlato di colpo di stato, così come la base del suo partito. Anche a sinistra abbiamo avuto voci che hanno definito la scelta di Saied un colpo di stato, in quanto non si ravvedono le ragioni per l’utilizzo dell’articolo 80 della costituzione. Mancano secondo diversi analisti ed esperti di diritto, tra cui Yadh Ben Achour, i presupposti formali per fare ricorso a questo articolo, il quale prevede la possibilità di sospendere il Parlamento da parte del Presidente della repubblica qualora il paese sia sotto una grave minaccia, quale ad esempio una guerra, un’invasione straniera, insomma un pericolo estremamente grave e imminente. In più, da un punto di vista formale, l’utilizzo dell’articolo 80 per bloccare le attività parlamentari dovrebbe essere autorizzato dalla Corte Costituzionale che, seppure prevista dalla costituzione del 2014, non è mai stata costituita. In tal senso manca questo organo super partes che possa autorizzare e controllare l’operato del presidente. Quindi di fronte a questa situazione alcuni intellettuali, giuristi ed esponenti della sinistra, hanno parlato di colpo di stato. Tuttavia è sicuramente una definizione complessa e difficile, in fase di negoziazione all’interno delle forze politiche e della società civile. Ad esempio, il principale sindacato tunisino, l’UGTT, che da sempre è stato un ago della bilancia nella scena politica nazionale, è restato dapprima silente, per poi emanare un comunicato, complesso ed elaborato in diversi punti, in cui appoggia in maniera condizionata l’operato del presidente Saied. C’è quindi una fetta di politica tunisina che sta dando un appoggio condizionato all’operato di Saied, in attesa dei fatidici 30 giorni entro cui il presidente ha assicurato che avrebbe nominato il nuovo governo e fatto riprendere i lavori parlamentari. C’è la volontà da parte di diverse realtà di vedere quale sarà la proposta di Kais Saied.

Foto da WikiCommons

Se noi guardiamo ai partiti, ad esempio, se in un primo momento la maggior parte di essi ha criticato e condannato l’operato del presidente, ora costatiamo che la posizione attendista è quella prevalente. Anche Ennahda, che è stato il partito che sin da subito ha condannato in maniera più dura la decisione di Saied, con il presidente del partito Ghannouchi che aveva invitato la gente a reagire scendendo in piazza, ora sta rivedendo le sue posizioni, andando nuovamente verso un tentativo di riconciliazione e compromesso con il potere in nome dell’unità nazionale, strategia attuata spesso in questi dieci anni.

Non sono mancati, sin dalle prime ore, dichiarazioni di attuali ed ex dirigenti di Ennahda che hanno affermato che ciò che stava accadendo rappresentasse un campanello di allarme per il partito che aveva bisogno di una ricostruzione. Sappiamo infatti che Ennahda, uscito così vittorioso dalle urne del 2011, in dieci anni ha perso tantissimo sostegno e legittimità. Negli ultimi mesi suoi i sostenitori si sono profondamente assottigliati, mentre sono cresciute le critiche fuori e dentro il partito, che è ora accusato, come tutte le altre forze politiche, di corruzione, quando proprio la lotta a essa era stato uno dei punti cardine del partito, che l’aveva portato ad avere un largo consenso nella prima fase della storia post-rivoluzionaria tunisina. Oggi Ennahda è considerato un partito corrotto e tra i principali responsabili della mala gestione della politica tunisina. In tale giudizio ha avuto sicuramente un ruolo importante la gestione fallimentare della pandemia, con la Tunisia che è attualmente il paese africano con la situazione peggiore in termini di aumento dei contagi, di percentuale di morti e di incapacità del sistema sanitario di rispondere alla crisi, con ospedali al collasso e mancanza di una medicina territoriale efficiente.

Sicuramente la crisi multidimensionale della Tunisia (economica, finanziaria, sociale e sanitaria) ha avuto un ruolo importante negli avvenimenti degli ultimi giorni. Ma la decisione del presidente Saied scaturisce solo da ciò o anche da uno scontro interno tra presidenza della repubblica e governo, frutto della mancanza di stabilità politica uscita dalle urne nel 2019?

Partiamo dalla constatazione che quello che è successo, e la rottura degli equilibri politici che governavano il paese, erano nell’aria da molto tempo. Tuttavia il 25 luglio ci sono state nel paese manifestazioni importanti che chiedevano la caduta del governo e un intervento del presidente. Da giorni sui social era emerso il movimento del 25 luglio, dietro cui non c’erano delle chiare e riconoscibili sigle o organizzazioni sociali e politiche, che esortava la gente a scendere in piazza in tale data, anniversario della Repubblica. Sappiamo anche che nella giornata del 25 luglio alcune sedi di Ennahda sono state prese d’assalto dai manifestanti. Tuttavia le proteste del 25 luglio non avvengono all’improvviso e in un vuoto, la Tunisia è costantemente attraversata da manifestazioni. La protesta di strada e di piazza è un elemento caratteristico di tutta la fase post-rivoluzionaria del paese. Basti pensare alle manifestazioni organizzate per il decimo anniversario della rivoluzione, che sono state, tra l’altro, duramente represse dalla polizia, con una politica repressiva e liberticida che non si vedeva dai tempi di Ben Ali, con arresti arbitrari e denunce di tortura . Quindi in qualche modo questo 25 luglio si preparava da mesi nelle piazze dove è cresciuto in maniera esponenziale il malcontento popolare verso tutte le forze politiche, con la pandemia che ha fatto da detonatore a tale insoddisfazione. A dieci anni di distanza dalla caduta di Ben Ali, le promesse della rivoluzione non sono state mantenute. E la gente è ancora nelle strade a chiedere pane, dignità, libertà, e soprattutto lavoro.

Nel frattempo in questi mesi, mentre le piazze si animavano chiedendo una soluzione alla crisi economica e la fine della corruzione, due elementi che devastano il paese, in Parlamento si consumava una rottura, poi divenuta radicale il 25 luglio, tra il presidente e le forze di ispirazione islamica, di cui il primo ministro Mechichi era in qualche modo un’emanazione. Anche se bisogna sottolineare come lo stesso primo ministro, una volta dimissionato, non abbia supportato la prima tesi di Ennahda, di scontro con il potere, ma abbia accettato immediatamente la scelta del Presidente della repubblica, facendosi da parte e non esibendo quel rifiuto muscoloso che avrebbe forse gradito il partito.

Quello che è interessante, però, come dicevo in precedenza, è vedere come lo stesso partito Ennahda stia scompaginando di nuovo le carte, con una posizione meno netta e più dialogante, volta a scongiurare l’ipotesi di forte scontro che aveva fatto sì che alcuni analisti annoverassero tra le possibili conseguenze della scelta di Saied di una riproposizione in Tunisia di uno scenario all’egiziana con il colpo di stato del 2013 di Al-Sisi e la conseguente terribile repressione della Fratellanza musulmana e di ogni altra forma di dissidenza. Tutto questo sembrerebbe al momento escluso da tutte le parti in gioco. In tal senso bisogna essere molto attenti e cauti nelle analisi e nelle previsioni.

Foto dall’archivio DINAMOpress

Proprio per capire meglio quello che sta succedendo e non avventurarsi in paragoni con altri contesti è importante analizzare la figura di Saied che, sin dalla sua elezione a Presidente della repubblica due anni fa, è apparsa subito complessa e per alcuni aspetti controversa. Da un lato ha guadagnato una buona parte del consenso popolare proponendosi come artefice di una correzione del processo rivoluzionario, scagliandosi contro la corruzione dilagante; dall’altro, però, ha suscitato dubbi e perplessità per le sue idee in qualche modo avverse alla democrazia parlamentare e fautrici di un sistema maggiormente presidenzialista che strizzavano l’occhio a prospettive di una sorta di “autoritarismo costituzionale”. Può descriverci meglio cosa rappresenta la figura di Kais Saied nell’attuale fase politica tunisina?

Per capirla dobbiamo guardare alle elezioni del 2019, quando nessuno si aspettava che una figura come la sua potesse diventare presidente della repubblica. Nel 2019 si scontravano i grandi poteri politici in Tunisia per la presidenza del paese e, improvvisamente, appare quest’uomo, docente universitario di diritto, che si era sempre contraddistinto, anche nel primo periodo post-rivoluzionario, come un personaggio integerrimo, schierato fortemente contro la corruzione, dallo stile austero (non a caso chiamato “robocop” per il suo modo di comportarsi e di parlare con un linguaggio forbito in arabo classico) e soprattutto indipendente da tutte le forze politiche. Saied ha proposto una riforma radicale della politica in un paese che ha delle fortissime contraddizioni e divisioni interne, in cui le zone costiere vivono condizioni di gran lunga migliori delle zone interne, circostanza che ha portato diversi analisti a parlare di colonialismo interno. Nel senso che le zone costiere hanno costruito la propria ricchezza e il proprio benessere, poi tradotto anche in dominio politico del paese, sfruttando le risorse delle zone interne. Non è un caso che la rivoluzione tunisina e i più grandi moti di protesta siano partiti dalle zone interne le più disagiate del paese, che erano anche quelle che avevano una minore rappresentanza politica.

Kais Saied nel suo programma politico intendeva in qualche modo riformulare questa distorsione, con la formazione di comitati popolari che dal basso avrebbero dovuto ricostruire e risanare la struttura politica del paese. Tuttavia, sin da subito, si evidenziava anche la dimensione autoritaria della sua figura, con molti che nutrivano timori per le sue posizioni conservatrici su diversi temi, riguardanti in particolare le libertà individuali. Ad esempio, il precedente Presidente aveva aperto alla possibilità di riformulare la legge sull’eredità, prevedendo che uomini e donne potessero ereditare in parti uguali, mentre Saied da subito si è discostato da posizionamenti di questo tipo. Così come ha espresso posizioni contro l’omosessualità.

Quindi Kais Saied è sicuramente una figura complessa che ha anche i tratti di un certo populismo che conosciamo bene in Europa. Basti pensare alla sua campagna elettorale incredibile e fulminante, senza grandi partiti alle spalle, ma con l’appoggio di comitati popolari, composti anche da molti giovani, che hanno fatto una campagna capillare e coinvolgente all’interno delle singole città tunisine che ha portato all’inaspettato risultato, dal carattere addirittura plebiscitario al secondo turno, in cui Saied ha ottenuto oltre il 70% delle preferenze. Un sostegno ancor più significativo se lo mettiamo in relazione con l’enorme astensione, soprattutto giovanile, che è stata in parte sconfitta da Saied, che ha richiamato alle urne molte persone che non andavano più a votare, riaccendendo una speranza tra chi non credeva più nella possibilità che la politica potesse rappresentare i bisogni delle persone.

Foto di Apolonia L. Gaspar da Flickr

Per arrivare all’oggi, coloro che sono scesi in piazza il 25 luglio e che hanno rimesso il destino della Tunisia nelle mani di Kais Saied, stanno in un certo senso rinnovandogli questo patto di fiducia, vedendo in lui l’uomo forte al comando che fa piazza pulita di una classe politica incapace, corrotta e fallimentare, riuscendo a traghettare il paese al di fuori della crisi. C’è una parte della popolazione, molto variegata al suo interno che ha fatto questa scommessa su di lui, con Saied che si è proposto di poter riuscire in questo, arrogandosi il diritto di compiere un’operazione fondata su un’ interpretazione estremamente estensiva dell’articolo 80 della costituzione.

C’è una certa fascinazione del Presidente, dell’uomo forte, che risolve dall’altro i problemi del paese. In questi giorni l’analista Vincent Geisser scriveva un post su Facebook parlando di una sorta di orientalismo interno al mondo arabo, che si esprime tra l’altro attraverso una sfiducia verso la democrazia parlamentare, il multipartitismo e la fascinazione che esiste per i presidenti, per i leader politici, per la figura dell’uomo solo al comando che risolve le sorti del paese. D’altronde se guardiamo alla storia della Tunisia, con il grande sostegno che c’è stato per le figure di Bourghiba e Ben Ali, si può dire che esista un rischio di fascinazione e di appoggio a forme di autoritarismo dispotico. Tuttavia ci sono anche tantissime persone che si oppongo a tale visione e a una via autocratica per risolvere i problemi.

Provando ad allargare il discorso anche al di fuori del contesto tunisino, una delle accuse ricorrenti mosse contro Ennahda, ma non solo, è il suo stretto legame con importanti potenze straniere (come ad esempio Qatar e Turchia) che interferiscono negli affari interni del paese. Da un punto di vista delle relazioni internazionali, come si inseriscono gli avvenimenti di questi giorni nel panorama regionale?

Questa è una domanda complessa, con il rischio di una forzatura a voler leggere le vicende interne tunisine attraverso la chiave di un’ingerenza esterna. Sappiamo e leggiamo dalla stampa che Egitto e Arabia Saudita hanno salutato felicemente la scelta di Kais Saied, cosa che non ci sorprende vista la loro avversione verso Ennahda. Lunedì le forze di sicurezza tunisine sono entrate nella sede della tv qatariota Al Jazeera, critica nei confronti di Kais Saied, anche se non si conoscono bene i contorni di questa operazione.

Secondo me, però, in questo momento bisogna fare attenzione a non forzare le letture. Gli attori geopolitici ci sono e consociamo le loro posizioni, come ad esempio quella della Turchia, paese che è vicino a Ennahda e ospita moltissimi esuli dei fratelli musulmani egiziani, che ha condannato la decisione di Kais Saied. Ma sarei molto cauta a voler leggere questa scelta del Presidente della repubblica come una manovra internazionale esterna alla Tunisia. Mi sembra che le ragioni di ciò che è avvenuto il 25 luglio le possiamo leggere nella storia della Tunisia e di quello che ha vissuto il paese negli ultimi mesi e negli ultimi anni. Oggettivamente la Tunisia si trova in uno stallo, con una classe politica, accusata di corruzione e immobilismo, totalmente delegittimata e una terribile crisi economica che ha profondamente impoverito la classe media e ridotto sul lastrico le classi basse. La disoccupazione, soprattutto tra i giovani, è a livelli altissimi e non si vedono vie di uscita. Le strutture e i servizi nel paese, soprattutto nelle zone interne, sono inefficienti, carenti o del tutto assenti. Il sistema sanitario – come anche la pandemia ha evidenziato – è del tutto inadeguato ai bisogni del paese. L’esasperazione cresce di giorno in giorno. C’era assolutamente bisogno di un cambiamento che probabilmente, però, non doveva avvenire così ma attraverso altre forme di negoziazione con le parti politiche e con le organizzazioni della società civile. Già è avvenuto in Tunisia che i partiti politici e le organizzazioni sindacali e sociali abbiano dialogato e portato il paese fuori da crisi anche ben più gravi di quella attuale.

La questione ora è monitorare le scelte che faranno tutti gli attori in gioco. Bisogna vedere come Kais Saied risponderà alla scelta di Ennahda di rinunciare allo scontro duro, scegliendo o meno di includerlo nel nuovo percorso politico che sta tracciando. Inoltre si spera che non emergeranno quelle forze che hanno determinato in questi anni forti destabilizzazioni del paese facendo ricorso alla violenza e al terrorismo. Questi dieci anni post rivoluzione sono stati puntellati da attentati terroristici proprio nei momenti in cui il paese era più fragile e stava cercando una ricostruzione.

L’altra grande questione è relativa alla salvaguardia delle conquiste fatte, dal punto di vista dei processi democratici e delle libertà individuali, che hanno continuato a far apparire quella tunisina come la transizione democratica più genuina avvenuta nella regione, nonostante i suoi limiti e le risposte non date da un punto di vista sociale ed economico, con le enormi disuguaglianze che sono così evidenti nel paese.

Foto dall’archivio DINAMOpress

Vediamo come tali processi democratici e le libertà individuali, però, si vadano sempre più assottigliando, e la gestione della pandemia ha dato la possibilità di ulteriori limitazioni delle libertà personali. Non è un caso che Saied dopo il 25 luglio abbia fatto una nuova stretta sul controllo dei movimenti della popolazione, che ha chiaramente delle ragioni sanitarie e di controllo della pandemia, ma avviene proprio in un momento in cui c’è fibrillazione sociale. Ha portato l’inizio del coprifuoco notturno dalle 20 alle 19, ha proibito gli assembramenti di più di tre persone, e vietato gli spostamenti tra le diverse città se non per ragioni urgenti. Tutta una serie di misure restrittive che ricordano quelle che erano state attuate proprio nei giorni del decimo anniversario della rivoluzione a gennaio, con molte persone che si sono interrogate sul senso di adottare tali restrizioni proprio nei giorni in cui erano previste grandi manifestazioni di piazza e mobilitazioni.

Senza voler scomodare necessariamente scenari tragici che nessuno auspica, diciamo che anche nello scenario meno conflittuale possibile di uscita da questa crisi, che porti a un nuovo compromesso nazionale, la questione aperta – oltre a quelle di un reale rinnovamento politico e costruzione di un’alternativa economica – è quella della tenuta delle libertà che il paese aveva conquistato faticosamente con la rivoluzione. Chiamiamolo colpo di stato, o come dicono alcuni “colpo di stato contro la costituzione”, o ancora altri “salvataggio del paese”, il dato di fatto è che il 25 luglio c’è stata sicuramente una falla nel sistema democratico, un’ennesima forzatura del percorso democratico all’interno di un paese che vive secondo analisti come Thierry Bresillon da mesi una sospensione dello stato di diritto. Essa si pone all’interno di un percorso di continua forzatura, non adempimento o tradimento dei principi della Costituzione del 2014. Credo che questa sia una delle grandi questioni su cui vigilare.

Foto di copertina da Wikicommons