MONDO

La riproduzione sociale nella pandemia: una lettura femminista della crisi in Ecuador

Le lavoratrici domestiche, la povertà e lo sfruttamento a Guayaquil in tempi di pandemia: ci vuole un reddito di base perché possa restare a casa anche la maggior parte della popolazione che vive di lavoro informale.

«Qui molta gente che lavora alla giornata, non fanno caso alla quarantena perché guadagnano alla giornata e il governo non risponde ai reclami. La gente morirà di fame in casa se non ha da mangiare». Così Maricruz racconta la situazione che migliaia di persone stanno vivendo in piena emergenza sanitaria in Ecuador.

La pandemia sta aggravando le fratture sociali esistenti, quando l’obbligo di restare a casa diventa un privilegio di classe, perché gran parte della popolazione ecuadoriana vive di lavoro informale, esclusa da qualsiasi sistema di protezione sociale, sopravvivendo alla giornata. Data la necessità, si esce alla ricerca di qualche dollaro, anche a rischio di contagiarsi. In Ecuador migliaia di persone dipendono da entrate economiche che in tempi di quarantena diventano impossibili. Sono migliaia le persone a cui il governo sta voltando le spalle, senza politiche pubbliche adatte a rispondere a tale crisi sociale.

 

Pur essendo un paese relativamente piccolo in termini di popolazione rispetto alla regione, l’Ecuador è il secondo paese per numero di contagiati in tutta l’America Latina. La provincia costiera di Guayas presenta il 68% dei casi.

 

Proprio in questa provincia si trova Isla Trinitaria, un’isola nell’area sud della città di Guayaquil, dove vivono Lenny e Maricruz, due donne che abbiamo intervistato per questo articolo. Isla Trinitaria nasce come insediamento informale urbano e la popolazione è aumentata nel corso degli anni. Un’isola circondata da diverse ramificazioni del fiume Estero Salado, un territorio che accoglie una grande diversità culturale dove la gran parte della popolazione vive in condizioni di povertà. L’isola ha un acceso minimo ai servizi di base, è costituita da agglomerati di case la cui qualità è ben al di sotto della media; nell’isola durante gli anni Sessanta i politici, seguendo una logica clientelare, offrivano terreni vuoti in cambio di voti, terreni che venivano così occupati. Oggi, gli abitanti si organizzano in cooperative; secondo l’ultimo censimento del 2010, sull’isola vivono circa 21.074 famiglie.

 

A Guayaquil, la popolazione affronta il virus in un contesto segnato dai tagli:  in particolare, il 30 per cento delle spese sanitarie sono state tagliate nell’ultimo anno. Possiamo immaginare quanti posti letto, quante risorse e quanto personale medico significa il trenta per cento di tagli in un anno?

 

Guayaquil continua a mantenere una politica coloniale e padronale, i sindaci sono stati sempre una fedele rappresentazione della gestione biopolitica e necropolitica, secondo cui alcune vite meritano cura e protezione, mentre altre vengono semplicemente scartate.

L’amministrazione municipale ha concentrato i suoi sforzi nella creazione di “luoghi belli” per il turismo internazionale e per la classe media e alta, mentre recinta – e addirittura “nasconde” – i quartieri informali urbani e popolari a cui non viene destinata alcuna risorsa. In piena pandemia, il governo locale ha ordinato il dispiegamento degli strumenti securitari militarizzando la città, in particolare le zone più precarie. Come dice Paul B. Preciado, «il virus agisce a nostra immagine e somiglianza, non fa altro che replicare ed estendere a tutta la popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica che sono già attive sul territorio nazionale».

Negli ultimi giorni, vi sono state innumerevoli denunce di abusi contro la dignità umana da parte di polizie e militari. Indigenti, senza tetto e abitanti dei quartieri popolari sono stati colpiti con violenza, obbligati a mangiare carne cruda, sono stati loro rasati i capelli e inferte delle ferite in faccia come “castigo” per non aver rispettato la quarantena. Inoltre, occorre tenere conto del fatto che storicamente la militarizzazione dei territori ha sempre portato con sé abusi sessuali e violenza contro le donne. Senza dubbio, questo dispiegamento è lo specchio delle politiche razziste, militariste, coloniali e classiste dello Stato ecuadoriano.

Queste violazioni dei diritti umani avvengono in un contesto di assenza totale di servizi pubblici per i settori precarizzati, tra cui quartieri come Isla Trinitaria, Monte Sinaí, Sociovivienda o Nueva Prosperina. «Qui a Guayaquil tagliano l’acqua alle persone, soprattutto ai settori popolari mentre ai ricchi mai. Qua ci lasciano sempre senz’acqua», denuncia Maricruz.

 

Le lavoratrici domestiche nella pandemia

Scriviamo queste riflessioni a partire dall’esperienza di Lenny, Maricruz e Jaqueline, tre ex lavoratrici domestiche di Guayaquil affiliate al sindacato UNTHA, l’ Unione nazionale delle lavoratrici domestiche. In queste settimane di quarantena, hanno continuato a seguire la situazione delle loro compagne lavoratrici domestiche denunciando i casi  di donne che lavorano “in casa” nonostante i datori di lavoro non prendano nessuna precauzione né usino mascherine quando escono.

 

Ci sono lavoratrici domestiche che hanno smesso di lavorare a metà mese e non hanno percepito alcun reddito da inizio marzo, non sono state pagate nemmeno per le due settimane di lavoro già svolto.

 

Jaqueline racconta che sua «sorella lavora in quattro case diverse, un giorno è andata a lavorare e un padrone di casa dove lavora non l’ha avvisata che era malato,  per dirle che non doveva andare. Un irresponsabile».

Come femministe difendiamo la vita in tutte le sue dimensioni e gran parte dei nostri dibattiti mettono al centro proprio la vita. A partire da questa posizione, nominiamo quelle attività che ci permettono sostenere la vita, l’alimentazione e la possibilità di accedervi, la salute, una case degna e senza dubbio il lavoro di cura. Al tempo stesso, all’intera umanità dovrebbe essere garantito il diritto di studiare, a una giusta remunerazione del proprio lavoro, di avere tempo libero per l’ozio e godersi la vita. Si tratta di varie attività che sono parte di una catena di interdipendenza che non tutti vivono allo stesso modo. Le classi medie e alte hanno la possibilità di risolvere gran parte delle attività di questa catena di interdipendenza pagando altre persone che le realizzano per loro, per esempio il lavoro di cura, i lavori domestici e come abbiamo visto durante la pandemia, vengono pagate addirittura persone che comprano per loro gli alimenti e li portano direttamente a casa attraverso piattaforme digitali.

Vogliamo qui mettere in luce cosa accade nei contesti periferici dove non si nasce con dei diritti ma si “vive alla giornata”, che vuol dire vivere dei servizi o delle vendite giornaliere, come vendere acqua potabile nel quartiere Perimetral, lavorare tre volte a settimana lavando vestiti, fare i parcheggiatori, cucire in una officina tessile e guadagnare in base al prodotto consegnato o lavorare alla giornata come muratore. La già precaria condizione di vita diventa nell’attuale contesto una lotta permanente per la sopravvivenza.

 

In Ecuador, il 46% dei lavoratori sono informali, si tratta all’incirca 3 milioni di persone (INEC 2018). In questo momento, una parte importante della popolazione ha serie difficoltà a risolvere una necessità di base come quella di mangiare.

 

Lenny ci racconta che le sue compagne di lavoro «stanno a casa, ma non hanno soldi. Quelle che si occupavano di lavare i panni, delle pulizie delle case, non hanno accesso aa nessuna forma di sussidio sociale e nemmeno forme di reddito. Le parrucchiere per esempio, adesso non hanno proprio da mangiare. Non so come stanno sopportando tutto questo, per loro la situazione è davvero critica e molte avendo bambini vivono una situazione ancora più difficile. Le migranti, soprattutto venezuelane, continuano a vivere nelle case dei loro padroni, perché si prendono cura degli anziani».

 

Questa testimonianza mostra le condizioni di sussistenza della “vita alla giornata”: sommerse nella precarietà, immerse in una disuguaglianza sociale storica di un paese dove la ricchezza  è concentrata in poche mani. Una concentrazione della ricchezza coloniale, patriarcale e capitalista.

 

Ma le analisi, le letture e le denunce di Lenny, Maricruz e Jaqueline mostrano la complessità della cura, le sue sfumature. Rappresentano le lavoratrici domestiche che assieme alle preoccupazioni per la sopravvivenza delle proprie famiglie hanno la responsabilità della propria casa, attività che per la maggior parte delle donne si sono intensificate durante l’isolamento. Sorgono quindi una serie di domande: chi si prende cura delle lavoratrici della cura? Chi si prende cura delle donne capofamiglia che sono malate e non posso interrompere le cure? Che succede con le persone che dipendono da altre per poter vivere? Come stanno affrontando la crisi queste donne migranti, soprattutto venezuelane? Chi le cura se si ammalano? Se dalle loro rimesse dipendevano le famiglie nel paese di origine, chi se ne farà carico?

In un contesto come questo, la condizione di precarietà cresce nei quartieri. Come dice Lenny: «Chi ha risorse può provvedere alla propia alimentazione, ma per altri è diverso, chi non ha soldi per comprare il cibo come farà? Questa è la disuguaglianza che esiste qui».

Emergono le difficoltà per sostenere una quarantena senza risorse e con molta fame: «C’è gente che vende tagliaunghie, frutta, acqua, è gente che adesso sta a casa, guadagnava cinque dollari lavorando un giorno intero solo per poter portare a casa un piatto di cibo per le proprie famiglie, lavorando tutti assieme. Conosco una donna che con suo marito e i quattro figli sono tutti venditori ambulanti, adesso non hanno alcun reddito».

 

 

Vite che non valgono

A oggi, sono 9,468 le persone contagiate, 1.291 morti. Il 68 per cento dei casi nella località di Gayas. Le pompe funebri di Guayaquil affermano che è impossibile sostenere il ritmo di cremazioni. Vari media e organizzazioni sociali sostengono che il numero dei morti sia molto più alto di quello dichiarato e che il governo stia occultando i veri numeri. Non c’è trasparenza nelle informazioni che il governo da alla stampa, cercando di minimizzare la drammatica situazione.

«Hai visto le notizie dei morti? Le foto delle camere mortuarie dove accatastano i morti…. Da tempo va avanti così. Quelli che hanno fatto quelle foto li hanno cacciati via. Ma adesso dicono che lo Stato si stia facendo carico della cremazione, fino a poco fa non era così, chiedevano 1.600 dollari per farlo. Un ragazzo che conosco non sapeva come recuperare il corpo del padre, stava chiedendo aiuto economico per farlo, mi ha detto che gli avevano chiesto 1200 dollari per la cremazione», racconta ancora Jenny.

La testimonianza di Jenny è desolante. Così come rivendichiamo una vita degna, adesso dobbiamo anche rivendicare una morte degna. Sappiamo che alcune famiglie a Guayaquil hanno avuto difficoltà a incontrare i corpi dei parenti, affrontando un viavai tra le pompe funebri, la cremazione e gli sforzi per ottenere i soldi per il funerale. Alcuni hanno infine trovato i soldi per la bara e per la cremazione e, quando li hanno trovati, non si trovava più il corpo del defunto.

 

Intanto il governo ha dichiarato la costruzione di una nuova fossa comune a Guayaquil, dato l’alto numero di vittime. Ci rendiamo conto delle implicazioni del significato delle fosse comuni? In America Latina queste due parole assieme sono l’eco dei crimini di lesa umanità perpetrati dalle dittature ma anche dai regimi democratici, crimini che intere generazioni hanno vissuto.

 

Da queste generazioni abbiamo imparato la dignità in vita e in morte. Siamo perseguitati dal fantasma della repressione. Chi controllerà questa fossa comune? Quali corpi saranno deposti in questa fossa? Non è che questa fossa servirà per coprire i crimini delle forze militari e della polizia? Saranno gettati in questa fossa e dimenticati i corpi di cui non importa niente a nessuno?

Alla morte e alle bugie del governo centrale si uniscono l’indolenza e la voragine del mercato. Cominciano a scarseggiare i beni primari e ad aumentare i prezzi. Si chiede alla popolazione di usare precauzioni, mascherine e guanti, alcool in gel, ma nessuno di questi prodotti viene distribuito gratis a chi guadagna ogni giorno meno del costo di una mascherina. La gente deve comprarli nei supermercati o nelle farmacie che si arricchiscono ogni giorno grazie alla pandemia. Viene richiesto alla popolazione l’acquisto di beni che scarseggiano negli stessi ospedali pubblici e nei negozi.

«Qui vicino a casa mia vendono mascherine, avevo chiesto il prezzo ai venditori e mi hanno detto 5 dollari, oggi la vendono a 30. Com’è possibile che alzino così tanto il prezzo? Dicono che sono i grossisti che hanno aumentato i prezzi. Ma se a 5 dollari comprarli per noi era impossibile, figuriamoci a 30. Accade lo stesso con l’istruzione, in Ecuador è così, un libro costa 35 dollari, chi potrà permetterselo? Quando queste cose saranno accessibili? Dovrebbero essere accessibili a tutti», sostiene Maricruz, denunciando la disuguaglianza sociale nella pandemia.

 

Ma a queste famiglie di Trinidad non mancano solo le mascherine, i guanti e il gel. Manca molto di più. Gli ospedali pubblici sono in stato di abbandono, mentre il governo ha deciso di pagare lo scorso 24 di marzo una rata del debito estero, sborsando 324 milioni di dollari, senza investire fondi per l’emergenza sanitaria.

 

Lenny rivendica condizioni di lavoro degne per il comparto sanitario: «i dottori hanno paura anche loro perché sono esseri umani, e non ricevono sostegno, non hanno medicine. Nei centri di salute a Daule dicono non ci sia nessuno, la gente fa la fila, ma nessuno li assiste. Nella maggior parte dei centri di salute non ci sono medicine… bisogna denunciare questa cosa, i medici, le infermiere e i lavoratori della sanità non vengono protetti e lo stesso vale per le loro famiglie che sono così esposte alla pandemia».

 

 

“Necropolitca del capitale”

La biopolitica e la necropolitica operano su molteplici dimensioni. Alle difficoltà che le famiglie di Trinidad incontrano per ottenere gli alimenti allo stesso prezzo di prima, si somma la preoccupazione per i tagli alle forniture di acqua e per gli abusi polizieschi e militari nel quartiere. La paura aumenta ed è difficile sopportare la situazione quando i centri di salute sono collassati e la solidarietà e vicinanza fisica diventa timore di contagio. Che ne è degli spazzini? Esistono per tutti gli altri o sono anche loro abbandonati a se stessi?

Così come abbiamo parlato di catena di interdipendenza della vita possiamo anche parlare di catena di interdipendenza per il capitale. Cominciando dallo spazio domestico, il lavoro di cura e domestico non retribuito realizzato soprattutto dalle donne: le attività da svolgere in casa, la cura e gli affetti che sostengono la sopravvivenza e l’economia, ma che sono invisibilizzati. Nella stessa catena di sopravvivenza del capitale troviamo lo sfruttamento economico e delle risorse naturali, la deterritorializzazione e l’indebitamento dei nostri paesi e dei suoi abitanti. E’ questa la dinamica che impone ai governi i tagli alle spese pubbliche per la sanità. E’ questa l’interdipendenza che primeggia, che mette al centro il mercato e preferisce l’accumulazione alla vita. Ora ci chiediamo se riescano a vedere la vita o solamente vedono corpi sacrificabili.

 

Strategie di sopravvivenza nella pandemia

A Isla Trinitaria ci sono famiglie che si sono unite in una sola casa: nonni, genitori, figli, zii e cognati formano una sola famiglia ampliata per unire sforzi, alimenti e sostegno mutuo. Molti si organizzano per fare collette per quelli che hanno meno, per le famiglie che vivono alla giornata e che hanno bisogno di risorse per alimentarsi e curarsi per il contagio. La condizione di precarietà si aggrava con il passare dei giorni e l’estendersi della quarantena. Jaqueline ci racconta come alla sua famiglia non sia «mai mancato il pane, ma ora stiamo mangiando solo due volte al giorno» e, così come molte altre famiglie, stiano razionando il cibo.

Scrivendo questo articolo a più voci, vogliamo mostrare la rabbia, l’indignazione e l’impotenza che sentiamo per cercare di trasformare la disperazione che sentiamo. Ci siamo incontrati attraverso un dialogo di parole con la speranza che le reti e gli affetti che stiamo costruendo possano aiutare ad affrontare la situazione. Ci unisce questo esercizio di scrittura collettiva per denunciare la situazione che si vive a Isla Trinitaria e in particolare le lavoratrici domestiche. Tra il dolore, l’ansia, la solitudine la paura e la crisi che stiamo vivendo, questa unione diventa un tessuto di relazioni per ripensare le strategie di sopravvivenza comunitaria che si articolano durante la pandemia. Utilizzare «il tempo e la forza dell’isolamento per studiare le tradizioni di lotta e resistenza minoritaria che ci hanno aiutato a sopravvivere fino a oggi» (Preciado, 2020). Le resistenze che hanno forgiato per secoli popoli e nazionalità diverse in Ecuador. Le resistenze di chi vive condizioni di precarietà e  disuguaglianza sociale. Le resistenze che le donne tessono giorno dopo giorno per sopravvivere a una società patriarcale che le uccide ogni giorno.

 

Di fronte della recrudescenza della violenza patriarcale e della fame colpiscono l’incertezza generalizzata, la biovigilanza fin dentro le case, la militarizzazione dello spazio pubblico, la morte in assoluta solitudine o la convivenza con il corpo del defunto per diversi giorni prima che possa essere portato al cimitero: chiediamo al governo che si prenda carico dei bisogni del popolo.

 

Esigiamo dignità. Perché non solo alcune vita hanno un valore, ma tutte le vite hanno un valore. La UNTHA, il sindacato delle lavoratrici domestiche, rivendica con forza il riconoscimento del proprio lavoro. Come dice Lenny: «bisogna prendersi cura di ogni lavoratrice, nella pandemia ci siamo rese conto che anche i nostri datori di lavoro vengono colpiti, ma come lavoratrici siamo noi le più colpite. Esigiamo che le lavoratrici ricevano le cure, perché tutte noi siamo fondamentali in questa società, fin dai tempi remoti questo nostro lavoro non è stato riconosciuto eppure siamo proprio noi ad aver sostenuto il paese».

 

Il governo ecuadoriano deve farsi carico del suo ruolo e non lasciare morire il popolo né di fame né di Covid-19.

 

Dato che il 70% della popolazione si alimenta grazie all’agricoltura familiare e contadina –che anche in tempi di pandemia continuano a coltivare la terra, alimentando l’intero paese – reclamiamo che il governo compri prodotti direttamente dai contadini e smetta di incoraggiare gli abitanti a comprare nei supermercati che si arricchiscono ogni giorno alle spalle del popolo. Lo Stato dovrebbe assicurare condizioni di vita degne a tutti.

 

In tempi di quarantena, deve garantire un reddito di base alle famiglie che vivono di lavoro informale, alle persone che sono state licenziate, a chi non ha le risorse, perché anche per questa parte della popolazione, che è la maggior parte del paese, sia possibile davvero “Restare a casa”. Non siamo disposte a permettere che sia la classe lavoratrice ad assumere e sostenere i costi della crisi.

 

 

Tratto da Revista Amazonas.

Foto di UNTHA.  Immagine di copertina di Emitxin, artista femminista, integrante di Revista Amazonas.

Traduzione in italiano di Alioscia Castronovo per DINAMOpress.