TERRITORI

Il Sud tra abbandono, rimosso e rappresentazione

Narrazioni e rappresentazioni su «La parte cattiva dell’Italia»

Riflessioni a Sud a partire dal lavoro di un gruppo di ricerca dell’Università del Salento.

Cosa c’è nella mente degli italiani quando si evoca la parola Sud? Il terremoto di Napoli del 1980, Carmelo Bene, i fatti di Rosarno, la fiction Gomorra, i lavori sulla Salerno Reggio Calabria, la disoccupazione giovanile? Ovvero, come è stato pensato, raccontato e tipizzato, il meridione, nel tempo? Sono questi gli interrogativi di fondo che hanno animato un gruppo di ricerca dell’università del Salento, coordinato dal professor Stefano Cristante che si è occupato di indagare la rappresentazione mediatica del Sud Italia. Ne è nato il corposo volume, che lo stesso Cristante ha scritto insieme alla sociologa Valentina Cremonesini, con il contributo di altri studiosi: La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo, edito da Mimesis nella collana Eterotopie. “Nei vari saggi che compongono la nostra ricerca” – spiegano gli autori – “diamo conto di come il Sud sia stato rappresentato da alcuni media mainstream nel corso degli ultimi trent’anni, più o meno da quanto è cominciato lo sfarinamento dell’antica questione (meridionale)”. L’analisi si è concentrata sugli anni che vanno dal 1980 al 2010. Dal principale contenitore mainstream di notizie audiovisive, il tg 1 delle 20, passando per le migliaia di ore di fiction trasmesse dagli altri canali Rai (La Piovra, Un posto al sole, Il commissario Montalbano), a finire con le due principali testate nazionali (La Repubblica e il Corriere della Sera), fino alla selezione di notizie provenienti da alcuni siti web “abbiamo provato a capire cosa oggi il Sud rappresenta, a partire da come esso viene rappresentato all’interno della scena mediatica”. Dalla lettura della ricerca si scopre che la storia del Sud nel piccolo schermo “è innanzitutto storia del male e del suo radicamento sociale”.

La valutazione ricavata è che, negli ultimi trent’anni, la questione meridionale è stata progressivamente accantonata dalla scena mediatica dominante “lasciando il posto a uno spettacolo del crimine certamente portatore di grandi ascolti ma sempre meno capace di tematizzare un disagio” così scrivono gli autori nel primo capitolo del volume (“Dalla questione meridionale al fattore M”): “ieri La Piovra e oggi Gomorra rappresentano un continuum tragico e violento, un vulnus da cui il Sud non sembra in grado di guarire”. Mafia e Camorra diventano così mondi in sé. Tali con i loro linguaggi e stili di vita. Eppure – citando ancora Cremonesini e Cristante – la storia del Meridione d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi è scandita da fatti storici molteplici, da fatti economici e politici complessi, da “ azioni normalizzatrici e micro–resistenze”. Invece, proprio dallo studio è stato ricavato che il Sud, e la sua rappresentazione negli ultimi trentacinque anni, si sono imposti come ambito privilegiato “di una narrazione drammatica e coinvolgente, sprigionata dalle enclave malavitose”. Come ci racconta una parte della ricerca “Il Sud nei giornali: la Repubblica e il Corriere della sera” il saggio di Valentina Cremonesini: dalla lettura degli articoli pubblicati negli anni ’80 e ’90, l’immagine che emerge è quella di un territorio pericoloso, contraddistinto da degrado morale “ come un luogo che deve intraprendere la via dello sviluppo, come un luogo diverso dall’Italia”. La maggioranza della stampa presa in considerazione riguarda la Sicilia e la Campania; di quest’ultima regione una quantità infinita di articoli esaminati riguardano la città di Napoli. Nella quasi totalità dei casi sono rappresentazioni di segno negativo. Sia ovviamente quando si parla di vicende di criminalità, sia quando nel racconto vi sono semplici fatti di cronaca o di costume, “l’ex capitale del Sud è ridisegnata, sulle pagine dei giornali, come un luogo al di fuori della civiltà”. Il richiamo a quel “paradiso abitato da diavoli” di crociana memoria, in sostanza. Filo teorico, quest’ultimo, che anche la sociologa Stefania Ferraro ha decostruito con efficacia nel volume collettaneo – edito di recente da Aracne Editrice: “Discorsi su Napoli”. Città laboratorio per sperimentare svariate tecniche di rappresentazione dei conflitti culturali, delle ansie economiche e dell’odio di classe, così è definita nel testo la città partenopea. Una ricerca specifica delle “cose dette” sulla città di Napoli: “dall’emergenza rifiuti alle questioni urbane, dalla vicenda di Davide Bifolco a Gomorra, da il boss delle cerimonie, ai neomelodici”, il volume della Ferraro che è stato scritto insieme ad altri studiosi del gruppo di ricerca Urit dell’Università napoletana Suor Orsola Benincaca, prova a rendere visibili i meccanismi mediante i quali ciò che è narrato, raccontato dai media mainstream, in particolare, produce “processi di naturalizzazione e di etnicizzazione”. In questi scritti degli esponenti di quella che è la scuola della sociologia critica italiana, si propone una possibile conversione dello sguardo sul “paradiso abitato da diavoli”. È quanto hanno fatto sicuramente l’equipe di ricerca dell’Università del Salento con “la parte cattiva dell’Italia”. Ora “esplosa anche altrove”. Nell’efficiente Nord che somiglia sempre più al Sud. Ad avvicinarli le cifre della crisi. Con qualche distinzione, però. Nel rapporto tra “Sud e Industria culturale”, specialmente. A venire in soccorso nel nostro ragionamento, oltre che uno dei saggi di cui è composto il volume (che ha proprio quel titolo e che contiene sedici interviste ad altrettanti intellettuali meridionali, giornalisti, registi cinematografici, scrittori) anche un rapporto diffuso dallo Svimez, qualche giorno fa: “Le spese per la cultura nel Mezzogiorno d’Italia”.

Nella nota di ricerca scritta da Federico Pica e Alessandra Tancredi c’è un dato che rileva più di ogni altro: “la spesa totale nel settore della cultura negli ultimi due anni ha subito una diminuzione di 30 punti percentuali nel Mezzogiorno, passando da 126 a 88 euro pro capite, contro il -25% del Nord dove l’esborso è sceso da 177 euro pro capite a 132”. Per spese per la cultura i ricercatori dello Svimez intendono: “interventi a tutela e valorizzazione di musei, biblioteche, cinema, teatri, enti lirici, archivi, accademie, ma anche attività ricreative e sportive quali piscine, stadi, centri polisportivi, fino alla gestione di giardini e musei zoologici”. Nell’intero periodo preso in considerazione, dal 2007 al 2013, la stessa spesa è crollata del 55% al Sud contro il 39% del Nord. Ciò accade mentre nel Mezzogiorno d’Italia resta nei secoli immutata la struttura del potere e degli effetti che essa produce, per dire, la struttura affaristico clientelare; con la scusa delle politiche di austerità, dunque, si abbatte la spesa di quella che lo Svimez considera livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Alla stregua, cioè dei livelli di assistenza sanitaria minimi da garantire. La stessa spesa sociale in conto capitale, dal 2010 al 2013 – secondo i dati Istat – è diminuita di 36 punti percentuali. I fatti dicono che, per porre rimedio, con la successiva legge di stabilità del 2014, il Governo Renzi ha tagliato 3 miliardi e mezzo di euro dal piano di coesione territoriale destinato agli interventi nelle aeree svantaggiate! Come lo è il sud, appunto. E c’è un dato sul Meridione d’Italia, sempre diffuso nel luglio scorso dall’Istat, che fa più impressione degli altri. È una previsione che riguarda il 2065. Dice che tra cinquant’anni esatti questa parte d’Italia avrà perso 4,2 milioni di abitanti. Un quinto della sua attuale popolazione. Come la Grecia, così, anche “la parte cattiva dell’Italia” a breve pagherà fino in fondo gli effetti delle politiche di austerity. Già, perché tutte le conseguenze della finanziarizzazione dell’economia si ritrovano ingigantite nel Meridione d’Italia. La fuga dei capitali, la delocalizzazione, le nuove povertà. Sono le regioni meridionali (ma ovviamente non soltanto loro) la prova provata del fallimento delle istituzioni pubbliche – cosi come le abbiamo conosciute e concepite finora – dei processi di industrializzazione mal gestiti, dei programmi di welfare risoltisi in banale clientelismo.