PRECARIETÀ

La nuova bolla

Demistificare i numeri, combattere il Jobs Act, costruire il sindacalismo sociale

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Poco dopo la tornata elettorale, che ha avuto come protagonisti l’astensione e il naufragio del Partito della Nazione, arrivano i numeri tanto attesi: il rapporto ISTAT indica, nel mese di aprile, una lieve riduzione della disoccupazione (0,2%), e soprattutto di quella giovanile (che comunque supera il 40%). Se letti con maggiore attenzione, e raffrontati a quelli raccolti nelle ultime settimane, emerge un quadro di gran lunga diverso. È urgente dunque un’opera di demistificazione, capace di cogliere la verità del processo in atto e di indicare – a un’iniziativa di movimento che non si rassegna alla marginalità – i punti di attacco. Ciò che proviamo a fare nel breve testo che segue.

1. Il Jobs Act è la quinta riforma del mercato del lavoro realizzata in Italia negli ultimi quattro anni, anni segnati dalla più grave crisi economica e occupazionale del secondo dopo guerra. Ispirata al modello tedesco, e fortemente voluta dalla Commmissione Europea e dalla BCE (ricordate la famosa lettera del 5 agosto del 2011?), è dichiarata come la vera priorità da attuare dal governo Renzi, costantemente elogiata dalla governance globale (FMI in testa) e dalla stampa tutta (o quasi) per i risultati ottenuti. I dati diffusi dal ministero del Lavoro il 25 maggio scorso, e riguardanti l’andamento degli avviamenti, delle cessazioni e delle trasformazioni dei contratti di lavoro nel mese di aprile 2015, non ratificano di certo la “primavera dell’occupazione”. Dovrebbero essere analizzati, piuttosto, come il segno di una vera e propria “bolla occupazionale”, che sta prendendo forma nel mercato del lavoro italico.

E’ evidente, infatti, che il leggero aumento (il saldo positivo è di 7 mila rispetto alla differenza tra avviamenti e cessazioni nel mese di aprile 2014) è l’esito della corsa delle imprese per assicurarsi incentivi fiscali e decontribuzione – 8.060 euro all’anno, per ogni lavoratore e per tre anni – prima che finisca il miliardo e 900 milioni disponibile dal 1 gennaio e previsto per il 2015 dalla Legge di stabilità. Con l’entrata in vigore, il 7 marzo, del decreto legislativo n. 23/2015 che ha dato attuazione alla delega, viene istituito il contratto a tutele crescenti, che trasforma la libertà di licenziare per le imprese in indennizzo economico, neutralizzando quel poco che rimaneva, dopo la Legge Fornero, della possibilità di reintegra. Con il sostegno dei più grandi gruppi editoriali (Ad aprile 210 mila contratti in più – Corriere della Sera, 26 maggio), di Confindustria e del Governatore della Banca d’Italia, si cerca di far passare il nuovo contratto come protagonista assoluto dell’inversione di tendenza nella crisi occupazionale italiana, segnata, come sappiamo, da tassi di disoccupazione sempre più drammatici.

Se osserviamo il saldo dello scorso aprile, scopriamo che i contratti sono più di 203 mila. Inoltre l’attenzione sulla dinamica del mercato del lavoro dipendente e parasubordinato, attraverso l’analisi dei dati amministrativi del sistema informativo delle Comunicazioni Obbligatorie, si sofferma sulla diminuzione dell’apprendistato e delle collaborazioni, in verità minima, valorizzando la crescita dei contratti a tempo indeterminato, forma maggiormente incentivata e conveniente. Della giungla degli oltre 475 mila contratti a tempo determinato – tipologia che continua a essere dominante nelle attivazioni con oltre 6 contratti su 10 – non si pubblicano e analizzano gli indici di flessibilità/precarietà, che corrispondono alla media dei contratti attivati per lavoratore. Tali dati ci farebbero scoprire, come avvenuto negli ultimi tre anni, una maggiore discontinuità nei rapporti di lavoro, indicando un aumento delle attivazioni di brevissima durata, ma anche delle posizioni plurime con orari di lavoro ridotti. Negli ultimi anni di crisi, infatti, oltre 4 contratti a tempo determinato su 10 hanno avuto una durata inferiore a un mese, per soddisfare esigenze temporanee, di pochi giorni, nei settori della sanità, dell’istruzione, degli alberghi e dei ristoranti.

La liberalizzazione attuata dalla Legge Poletti ha istituzionalizzato l’intermittenza contrattuale e la condizione precaria, condizione che sta alla base delle difficoltà di molti a metter su un salario dignitoso, al di sopra della soglia di povertà. E proprio da coloro che vivono in un regime di working poor, d’altronde, si ottiene la disponibilità ad accettare un lavoro purché sia. Una temporaneità dimostrata dall’aumento delle cessazioni di 31.736 unità, sopratutto nel lavoro dipendente a tempo determinato: il silenzio su questi dati, neanche a dirlo, è trasversale. Un sistema “drogato” dunque attraverso gli sgravi contributivi previsti dalla Legge di stabilità, i bonus occupazionali e i tirocini attivati grazie ai fondi del programma europeo Garanzia Giovani che vanno a implementare le altre forme di incentivi e agevolazioni esistenti nella normativa nazionale, regionale e degli avvisi regionali/provinciali a valere sui fondi FSE/FESR 2007-2013, FSE/FESR 2014-2020, e sui fondi di bilancio regionale/provinciale. I destinatari di questi ultimi incentivi sono i giovani, le donne, i lavoratori over 50, i lavoratori in CIGS o in mobilità, i lavoratori svantaggiati. Un ingente flusso di fondi che costituisce l’asse portante del sistema di politiche di attivazione in Europa, improntate a «rendere le transizioni convenienti» nei «mercati del lavoro transitori» (SPO 2020). In sostanza la governance macroeconomica, strettamente connessa alla governance del mercato del lavoro, indica nei processi di precarizzazione e nelle fluttuazioni permanenti tra disoccupazione e «occupabilità» l’elemento centrale per uscire dalla crisi, rilanciare competitività, produttività e occupazione.

Ma cosa accadrà quando le “iniezioni” finiranno? Non è difficile immaginarlo, vista la facilità con cui le imprese possono licenziare attraverso la totale flessibilità in uscita. Gli incentivi sono a termine e il contratto a tutele crescenti si scoprirà per quello che è realmente: un’altra modalità di assumere in maniera temporanea, che ha alla base un ricatto costante e uno sfruttamento intensivo della forza-lavoro, per di più finanziando le imprese attraverso risorse pubbliche. L’incremento di 16.739 mila trasformazioni di contratti dal tempo determinato all’indeterminato, in questo senso, è una magra consolazione per il ministro Poletti: non si tratta di «contratti stabili», né riducono la precarietà sociale e lavorativa di milioni di soggetti.

2. La seconda gamba del Jobs Act è rappresentata dalla delega per il riordino del sistema degli ammortizzatori sociali che doveva praticare, nelle intenzioni del Governo, «l’universalizzazione delle tutele», incrementando le inique prestazioni di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, applicando i principi della Flexsecurity indicati dalle strategie europee dell’occupazione degli ultimi quindici anni e dagli orientamenti integrati «per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale» previsti dalla Strategia Europea 2020, lanciata dalla Commissione Europea. Obiettivo dichiarato: una maggiore flessibilità in entrata e in uscita nella gestione dei rapporti di lavoro, in cambio dell’ampliamento delle forme di sicurezza del reddito, attraverso un nuovo sistema di ammortizzatori sociali.

Il decreto legislativo n. 22/2015 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati) disciplina una sola prestazione di disoccupazione per i lavoratori dipendenti non estende, come dichiarato negli obiettivi della riforma, l’Assicurazione Sociale per l’Impiego, né ai parasubordinati né ai lavoratori autonomi. La NASpI, a decorrere dal 1 maggio, estendendo la platea dei potenziali beneficiari con requisiti di accesso meno stringenti dell’ASpI, penalizza sia per la durata che per la prestazione economica erogata i lavoratori dipendenti che hanno una storia contributiva e lavorativa intermittente, come ad esempio i dipendenti a termine, caratterizzati spesso da carriere molto frammentate con frequenti entrate e uscite dalla disoccupazione. Un esempio in questo senso, balzato agli onori delle cronache, è il dimezzamento dell’indennità di disoccupazione, con l’introduzione della NASpI, denunciato dai lavoratori stagionali turistici: oltre 300 mila in Italia tra camerieri, baristi, cuochi, pizzaioli, bagnini, ecc.

La delega indicava come obiettivo l’estensione dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASpI) anche ai lavoratori con contratto di Collaborazione Coordinata e Continuativa (Co.Co.Co.) e a Progetto (Co.Co.Pro.). Le dichiarazioni di Renzi furono chiare al riguardo: «dare diritti a chi non ne aveva mai avuti, ponendo fine alla vergognosa esclusione dei parasubordinati dalle misure di sostegno al reddito». Il decreto attuativo istituisce la DIS-COLL in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dal 1° gennaio 2015 e sino al 31 dicembre 2015. Nella realtà dei fatti, ha prevalso l’opzione della prestazione specifica per i lavoratori parasubordinati, con l’introduzione di una misura sperimentale per il 2015 e un finanziamento di 230 milioni di euro. La prestazione di tutela del reddito è prevista soltanto nel 2015, poiché nella legge delega si prevede il superamento dei contratti di collaborazione. Ma nel riordino delle nuove tipologie contrattuali, così come indicato nello schema di Dlgs in approvazione nel mese di Giugno, vengono eliminati i Co.Co.Pro, ma non le Collaborazioni Coordinate e Continuative. Questo significa che per il 2016 non è previsto nessun ammortizzatore sociale per i parasubordinati iscritti alla Gestione separata, nonostante versino annualmente migliaia di euro di contributi all’INPS, per di più in una cassa in attivo.

Il legislatore italico ha sempre escluso questa categoria dalla possibilità, sempre ammessa a parole, di estendere l’indennità di disoccupazione prevista per i lavoratori subordinati. Nel 2008 fu introdotto un trattamento di sostegno al reddito, caratterizzato dall’essere una tantum e non una prestazione continuativa. La Legge Fornero ha confermato l’impostazione precedente, modificandone in parte i requisiti e il calcolo dell’ammontare. Ma l’efficacia della prestazione, sin dall’introduzione, è stata limitata dai numerosi e restrittivi requisiti d’accesso, lasciando fuori dalla tutela la generalità dei lavoratori che si dichiarava di voler sostenere nei periodi di non occupazione. Nella DIS-COLL, targata Jobs Act, non sono più presenti il requisito della monocommittenza e i limiti di reddito dell’anno precedente. La prestazione, pur diventando continuativa, a differenza della precedente una tantum, dura al massimo 6 mesi (un quarto della durata della NASpI) e, dati i salari e l’intermittenza dei parasubordinati, è facile prevedere che anche l’importo della DIS-COLL sarà decisamente inferiore. Inoltre tale prestazione di sostegno al reddito, come sottolineato dalle proteste del Coordinamento dei ricercatori non strutturati, esclude le figure precarie dell’università, e un’interpretazione estensiva dell’INPS di tale norma non sembra essere all’orizzonte. Tutto questo anche se le aliquote previdenziali versate alla Gestione Separata dell’INPS, da parte di tutti i parasubordinati (collaboratori e non), coincidono. Al termine della DIS-COLL, i parasubordinati non beneficeranno di ulteriori sei mesi di assegno di disoccupazione (ASDI), come invece succederà nel caso dei lavoratori dipendenti se ancora disoccupati. Quest’ultima prestazione, istituita dal decreto attuativo a decorre dal 1 maggio è inedita per l’ordinamento italiano: simile alla prestazione tedesca Arbeitslosengeld II, non appartiene al sistema di assicurazione sociale per l’impiego, ma è finanziata dalla fiscalità generale, si tratta di una prestazione sperimentale per il 2015 con un limitato stanziamento di 200 milioni di euro.

Vale la pena sottolineare, inoltre, che nonostante siano uscite le due circolari INPS riferite alla DIS-COLL e alla NASpI, rispettivamente Circolare n. 83 del 27 Aprile 2015 e Circolare n. 94 del 12 maggio 2015, la situazione è ancora completamente bloccata per evidenti ritardi e inadempienze procedurali dell’INPS. La mancanza di procedure interne per trattare le domande e iniziare l’istruttoria genera un vuoto temporale nell’erogazione che può durare anche diversi mesi. L’adeguamento da parte dell’INPS dei cosiddetti «flussi amministrativi e procedurali» (relazione programmatica INPS 2016-2018) paralizza le vite di migliaia di beneficiari delle prestazioni di sostegno reddito, nell’impossibilità di poter lavorare con contratti di lavoro, pena la sospensione o addirittura la perdita dell’indennità. L’unica alternativa per procurarsi un reddito utile a vivere è il lavoro sommerso e irregolare (più di un occupato su 10), incrementato in maniera rilevante perché funziona da camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso. L’Italia è dunque un paese, caso quasi unico in Europa, in cui le indennità di disoccupazione non sono erogate nel periodo in cui il soggetto avente diritto e richiedente si trova in questo stato (il tempo minimo effettivo, nonostante la normativa, si aggira dai 3 ai 6 mesi fino ad arrivare anche ad 8 mesi dalla richiesta, su questo non esistono dati ufficiali).

3. Cosa succederà ancora? Non è difficile intuirlo. Dopo il contratto a termine senza causale, quello a tutele crescenti, governo e imprese hanno un obiettivo preciso: eliminare il contratto nazionale collettivo. La rottura FIAT – FCA ha aperto il varco, Confindustria si accoda. In sostanza, un nuovo e radicale attacco al salario, oltre che al potere di coalizione. Con i contratti nazionali, infatti, salta la contrattazione sulla paga base, sostituita da un salario minimo legale. La fissazione di un salario minimo europeo, capace di contrastare il dumping che attraversa il continente, è pretesa irrinunciabile, intendiamoci. Ma il salario minimo in salsa Renzi, invece, potrebbe rivelarsi un disastro, un nuovo regalo ai datori. Altrettanto: non possiamo che vedere di buon occhio la marginalizzazione dei sindacati confederali, vera e propria iattura che ha impedito negli ultimi anni l’esplosione di un movimento trasversale contro le politiche di austerity; cosa diversa è pensare che la contrattazione aziendale, con peggiorative regole sulla rappresentanza (vedi le battute di Renzi sul sindacato unico), possa mettere in salvo le figure del lavoro precario e più ricattato.

Dal salario, al diritto di coalizione, fino al diritto di sciopero: questi sono gli obiettivi dell’offensiva neoliberale in corso, in Italia come in Europa. La nuova Legge tedesca contro il diritto di sciopero, fortemente voluta dalla SPD, è un esempio che potrebbe essere ripreso e seguito con zelo anche nel Bel Paese. Di certo a Renzi & co non manca la ferocia padronale. Come ha detto Marchionne, visitando con il premier gli stabilimenti di Melfi: «Renzi è come me, cattivo e determinato».

Eppure, di fronte a un’offensiva senza precedenti, non sono mancate e non mancano le resistenze. L’ultima, di certo non per importanza, quella che vede la scuola tutta, dagli insegnanti precari e di ruolo agli studenti, battersi contro il governo e la sua riforma. Così come di grande rilievo è stato l’esperimento di sciopero sociale dello scorso autunno. Il problema delle pratiche, infatti, non può che farsi decisivo: in che modo rendere nuovamente efficace lo sciopero se non estendendolo alle figure che non possono scioperare o che, almeno nella forma, eccedono il lavoro di tipo subordinato? Così come decisivo è l’intreccio delle istanze programmatiche: è possibile separare la battaglia per il reddito di base, incondizionato e garantito dalla fiscalità generale, dalla riduzione dell’orario di lavoro? Si può efficacemente tutelare il lavoro autonomo e professionale senza difendere quello precario e lottare contro sotto-occupazione e lavoro gratuito? In questo senso, già a partire dal mese di giugno e passando per la mobilitazione promossa dalla “Coalizione 27 febbraio”, è necessario avviare una campagna di conflitto sugli ammortizzatori sociali, sul reddito di base e sull’estensione universale del welfare. Infine, la dimensione organizzativa: senza una pluralità di laboratori territoriali, di leghe, di coalizioni sociali, sarà impossibile ricomporre le resistenze, che pure ci sono, e generalizzarle. Questo sforzo organizzativo, che guarda nella direzione costituente di un inedito sindacalismo sociale, un multiverso sindacale capace di combinare conflitto e mutualismo, vertenze e cooperazione alternativa… questo sforzo deve essere fatto adesso. Con generosità, dedizione paziente, spirito collaborativo, mettendo da parte una volta per tutte perimetri, identità, ethos tribale. A breve, considerando gli smottamenti in Europa, oltre che in Italia, potrebbe essere troppo tardi.