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Contro il riscaldamento globale: nazionalizzare la rete elettrica?

Di fronte agli allarmanti sconvolgimenti climatici emerge con sempre più urgenza la necessità di avviare una transizione ecologica del settore energetico. Il dibattito internazionale indica nelle nazionalizzazioni della rete elettrica un passaggio obbligato. Ma a quali condizioni questo programma può mettere in discussione le basi del governo neoliberale?

Il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) ha pubblicato il mese scorso un nuovo rapporto in cui suona il campanello di allarme sulla nostra attuale traiettoria climatica: se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C dobbiamo dimezzare le emissioni globali nei prossimi 12 anni e ridurle a zero entro la metà del secolo. Tale traiettoria di decarbonizzazione è ambiziosa oltre ogni dire. La sfida è immane e la posta in gioco lo è ancora di più. Come ha detto il co-presidente del IPCC, «i prossimi anni sono probabilmente i più importanti della storia umana». Dopo decenni di ritardo, questa è la nostra ultima possibilità per evitare l’apocalisse ecologica.

Ma, come scrisse il filosofo cinese Lao-Tzu, «anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con un primo passo». E in questo caso, il primo passo è rappresentato dalla nazionalizzazione della rete elettrica del nostro Paese per assicurare una rapida e socialmente equa decarbonizzazione. A tale riguardo, il piano di nazionalizzazioni presentato dal partito laburista britannico sotto la guida di Jeremy Corbyn può offrire degli spunti interessanti.

Se il Labour Party arrivasse al governo nel Regno Unito potrebbe rendere questo paese uno dei pochi a prendere sul serio il problema dei cambiamenti climatici lasciando che lo stato svolga un ruolo trainante nella transizione verso fonti di energia rinnovabile. Corbyn punta a nazionalizzare vari monopoli naturali fra cui, nell’ottica della transizione ecologica, quello energetico, con una forte enfasi sulla municipalizzazione della produzione e distribuzione.

I dettagli sul processo di nazionalizzazione di ciascun settore sono ancora in fase di discussione, ma un principio guida è già stato concordato in seno al partito: queste aziende saranno gestite nell’ottica di un interesse pubblico multidimensionale (sostenibilità, prezzi accessibili, diffusione sul territorio, etc.), piuttosto che al solo scopo di generare profitto. I laburisti hanno preso una netta posizione a favore che lo stato abbia un ruolo nella pianificazione economica visto gli evidenti limiti che il libero mercato ha dimostrato nello sviluppare la transizione ecologica.

E osservando l’esempio di altri paesi europei sappiamo che tali politiche funzionano. La Danimarca è un campione a tale riguardo, con più del 60% della sua energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili stando ai dati del 2015. Ma è significativo che il suo programma di investimenti in energia verde sia stato implementato negli anni ’80, prima che iniziasse l’era neoliberista, quando nessuno rinfacciava al governo danese le generose sovvenzioni destinate a progetti energetici su piccola scala e controllati dalle comunità locali.

Un altro caso degno di nota è rappresentato dal “Energiewende”: la transizione energetica avviata in Germania nel 2010 che ha portato il paese oggi a produrre più del 35% della propria elettricità da fonti rinnovabili. Ma la differenza nella velocità della transizione energetica da una città tedesca all’altra è determinata da un fattore specifico: la proprietà pubblica della rete elettrica. E infatti città come Francoforte e Monaco, che non avevano mai venduto le loro reti energetiche, hanno già aderito alla transizione e si sono impegnate a raggiungere l’obbiettivo di provvedere al 100% del loro consumo energetico interamente da fonti rinnovabili entro il 2050 e il 2025 rispettivamente.

Ma altre città, come Amburgo e Berlino, che avevano privatizzato le proprie reti, si sono trovate in difficoltà riguardo agli obbiettivi di decarbonizzazione. Per tale ragione i cittadini di Amburgo nel 2014 hanno votato per municipalizzare la rete elettrica della città. Dal 2007 a oggi più di 170 comuni in Germania hanno seguito questo esempio. Ciò segna un chiaro rovesciamento delle politiche neoliberiste degli anni ’90, quando un gran numero di comuni tedeschi vendettero le loro reti elettriche a grandi società, poiché era necessario svendere per risanare le casse pubbliche.

Un altro esempio su cui riflettere è offerto dalla città di Boulder, in Colorado. La città voleva compiere la transizione all’energia pulita, indipendentemente che questa venisse fornita da una società municipalizzata o privata. Tuttavia, nel tentativo di raggiungere tale obiettivo, i residenti si sono resi conto che non avevano altra scelta ma sconfessare uno dei pilastri ideologici del neoliberismo, ossia che i servizi gestiti privatamente sono sempre migliori che quelli pubblici. Solo municipalizzando la loro rete elettrica sono riusciti ad avviare la transizione verso il 100% di energia rinnovabile.

Ciò non significa che gestori privati non offrono ai loro clienti la possibilità di acquistare energia verde come parte di un mix che include anche i combustibili fossili.

 

Tuttavia, molte comunità si stanno rendendo conto che le aziende private, dovendo rispondere principalmente ai propri azionisti e avendo quindi la necessità di assicurare profitti trimestrali elevati, s’impegnano nella decarbonizzazione solo se ciò non incide negativamente sui profitti.

 

Nel caso dell’Italia, le municipalizzate – enti pubblici senza scopo di lucro – hanno una lunga storia poiché le prime furono istituite all’inizio del ‘900. Ad esempio, la municipalizzata Aem fu istituita a Milano nel 1903 a seguito di un referendum tra i cittadini per produrre e distribuire elettricità a tariffe migliori di quelle applicate dall’azienda privata Edison. Ma alla fine degli anni ’90 la stagione delle privatizzazioni vide la trasformazione di Enel e delle municipalizzate in società per azioni. La situazione odierna in Italia è quella di una rete elettrica in regime privatistico malgrado il controllo statale maggioritario di molte municipalizzate.

La quotazione in borsa e la conseguente trasformazione delle municipalizzate in società a scopo di lucro ha di fatto privato i comuni di uno straordinario strumento di intervento per la transizione ecologica. Le municipalizzate erano nate per assicurare e distribuire l’energia come il nuovo “bene comune” che il progresso offriva all’inizio del secolo scorso e nel nuovo millennio dovrebbero essere impiegate per tutelare la stabilità climatica, il sommo “bene comune” per l’umanità intera.

Mario Agostinelli propone una visione molto condivisibile su quale dovrebbe essere il futuro delle municipalizzate in Italia: «Nel nuovo quadro energetico-climatico, servirebbero urgenti misure per affiancare ai piani regolatori autentici piani energetici territoriali, di risparmio e di produzione pulita, per cambiare il mix delle fonti nelle aree urbane e quindi ottenere benefici risultati per ridurre le emissioni e l’inquinamento. Una spinta verso le rinnovabili e l’efficienza dovrebbe essere la “mission” rivalutata delle municipalizzate: diventerebbero così il cuore per una politica industriale locale, per buona occupazione e per tariffe sociali calmierate. Altro che mirabolanti operazioni che aumentano il debito della proprietà pubblica e spingono alla privatizzazione!»

 

La necessità del controllo pubblico sugli investimenti per la transizione energetica nasce dalla presa di coscienza che a livello globale il settore privato continua a non dimostrarsi all’altezza.

 

Nel 2017 si è registrato un calo del 7% negli investimenti in energia rinnovabile. Ma la notizia più sconcertante è che ancora oggi nel mondo si investe più in combustibili fossili (quasi il 60%) di quanto si faccia in energia rinnovabile. Andreas Malm, professore di Ecologia Umana all’Università di Lund in Svezia, sostiene che le fonti rinnovabili non possono offrire margini di utile pari a quelli assicurati dai combustibili fossili e che quindi le multinazionali dell’energia non hanno alcun interesse nel finanziare la transizione. Un’ulteriore prova che il nostro sistema economico è in guerra con la biosfera.

Naomi Klein, nel libro Una rivoluzione ci salverà, sostiene che la nazionalizzazione della rete elettrica s’iscrive in una transizione più ampia, ma necessaria: sciogliere il laccio neoliberista che ci ha legato le mani per gli ultimi tre decenni. Dopotutto, come possiamo investire massicciamente in servizi e infrastrutture sostenibili se il settore pubblico viene sistematicamente smantellato e messo all’asta? Come possono i nostri governi regolamentare, tassare, e penalizzare le compagnie di combustibili fossili se tali misure vengono liquidate come perversioni di dirigismo statale? E come possiamo assicurare i sussidi di cui ha bisogno il settore delle energie rinnovabili per crescere se “protezionismo” è diventata una parolaccia?

Alcuni dicono che non c’è tempo per questa battaglia ideologica poiché il riscaldamento globale ci incalza. Concordo sul fatto che ci sono tante misure pragmatiche che possono diminuire le nostre emissioni di CO2 senza aspettare che un cambio di paradigma culturale così profondo sia compiuto. Ma tali misure sono marginali e non possono condurci a quella profonda transizione ecologica necessaria per seguire la traiettoria di decarbonizzazione indicata dal IPCC.

 

Se non conduciamo una battaglia frontale contro l’ideologia neoliberista non possiamo modificare gli equilibri di potere nella nostra società. E quindi ogni misura necessaria per abbattere le emissioni in maniera sostanziale è resa politicamente impossibile, specialmente in tempi di crisi.

 

L’ambientalismo corrobora molte delle istanze storicamente care alla sinistra, fra cui la redistribuzione della ricchezza, un maggiore intervento statale, e la regolamentazione del mercato. Il cambiamento climatico ci offre quindi l’opportunità perfetta per abbatteare il neoliberismo. Non lasciamocela scappare.

 

 

 

Riccardo Mastini è un dottorando di ricerca presso lo Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de Barcelona. Lo potete seguire su Twitter e Facebook.